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Le varianti tarde del mito troiano

 

 

Francesco Chiappinelli

LE EFEMERIDI

DELLA GUERRA TROIANA 

di Ditti Cretese

 

Siamo finalmente in grado di proporre ai nostri lettori una completa e credibile traduzione italiana delle Efemeridi della guerra troiana di Ditti Cretese, risalente al 1832 e libera quindi dai gravami dei diritti d’autore. Si potrà dunque conoscere per intero un testo che, accanto a quello di Darete Frigio, ha avuto nei secoli medievali ma fino a tutto il primo Novecento una notevole diffusione, che solo nel Rinascimento prenderà ad affievolirsi con la conoscenza diretta di Omero. Come più volte ho brevemente spiegato nei precedenti contributi, disponibili su questo e altri siti, due retori probabilmente del I sec. a.C. e la cui vera identità rimarrà per sempre ignota si dissero testimoni diretti del conflitto troiano, e celandosi dietro gli pseudonimi di Ditti e Darete fornirono un racconto della guerra molto diverso da quello omerico. La finzione ebbe successo, e fornì ai due sedicenti cronisti una patente di credibilità che Omero, vissuto almeno quattro secoli dopo la guerra, non poteva vantare. Il falso fu svelato da Giambattista Vico, ma molti continuarono a credere alla seducente invenzione, e tra questi c’è anche il Cavalier Compagnoni. Io non sono di questa opinione, ma tutti i miei (pochi) lettori condivideranno certo la mia gratitudine per lui. Anche le note di commento, che condividerei solo in parte, dimostrano tuttavia la cultura e l’interesse per l’argomento troiano del nostro benefattore. Un breve cenno merita anche la mia paziente correzione del testo e delle note, malamente leggibili sul web: perché non si pensi superficialmente che mi sono limitato a queste brevi righe di presentazione. Buona lettura!

 

  

DITTI CRETESE E DARETE FRIGIO

STORICI

DELLA GUERRA TROJANA

VOLGARIZZATI

DAL CAV. COMPAGNONI

 

La presente traduzione é protetta dalle vigenti Leggi, essendosi adempito a quanto esse prescrivono.

 

A' GIOVANI ITALIANI

GIOVANNI BATTISTA SONZOGNO

TIPOGRAFO E LIBRAJO IN MILANO.

Questa bella e grande opera, a cui do ora cominciamento, della Collana degli antichi Storici greci volgarizzati, a nessuno più veramente s'aspetta che a Giovani Italiani incamminati nello studio delle lettere, e di quella principal parte della filosofia, la quale tende a discoprire l'origine vera delle umane cose, le cagioni dell'alzarsi e del declinar degli imperj, le virtù e i vizj delle nazioni e degli uomini, e la sapienza o stoltezza, colla quale si sono ne’ diversi tempi condotti. E il trovare i semi di queste cognizioni ne’ primi e classici monumenti, ben più assicura l'animo di chi in queste generose ed alte ricerche si esercita, anzi che irle spigolando nelle compilazioni; perocché in quelli veggiamo coi proprii nostri occhi le cose; in queste non le veggiamo che sulla fede altrui: oltre di che è natural cosa, che quando nulla si mette di mezzo tra gli occhi nostri e gli oggetti, ogni cognizione che d' essi acquistiamo ci si fa più certa, concependola noi.per coscienza; e più pronte e più giuste, e nel tempo stesso più copiose ne traggiamo le debite riflessioni, liberissimo essendo allora il nostro intelletto, e quasi posto nel centro di un orizzonte da nessuno impedimento ingombrato: laddove, contemplando noi col ministerio altrui, uopo è che riposiamo sull' altrui detto, e che all’ ingegno altrui, alle altrui prevenzioni ci riportiamo, così che poi non siamo infine che ripetitori meschini, e senza neppure avvedercene, coll ' altrui mente pensiamo invece di pensar colla nostra.

A Voi dunque, che siete la speranza migliore della nazione, ho inteso io di consacrare questa opera, considerando in ispezie che vien essa alla luce opportunamente nel tempo, in cui fra le altre scienze d'ogni maniera che chiari dimostrano i crescenti loro progressi, la razionale filosofia e la parte d' essa che n'è la base, voglio dire la Ideologia, vi presentano già la fiaccola luminosa per la cui mancanza sola le classi a voi superiori hanno dovuto per lo pih ristarsi in quella misera servitù di pensare, la quale fa valere presso noi ancora tanti pregiudizj funesti. Imperciocché dovete sapere  che se dalla professione di tipografo debbo io, così avendo la Provvidenza disposto, cercare i mezzi di onoratamente vivere, nello esercitarla sempre ebbi in mira, per quanto dipendesse da me, di farla servire all' incremento dei lumi ed alla utilità vera degli uomini, que’ libri possibilmente preferendo di pubblicare, la lettura de' quali sia atta od a sviluppare od a confortare e dirigere gli ingegni de' varj ordini de' miei concittadini: del che le molte mie stampe far  possono a chiunque manifesta prova.

Ed affinchè quella, della quale qui ragiono, possa più sicuramente volgere al fine a cui di sua natura pur tende, io non ho imitati coloro che questa Collana in addietro pubblicarono, i quali dopo aver dichiarato solennemente di volere darla emendata e bella più che innanzi fosse stato permesso di fare, la lasciarono poi grezza ed imperfetta qual era uscita dalle mani de' primi volgarizzatori; se per avventura giustizia non. comportasse che aggiugnessimo averla essi in molte parti empiuta piuttosto di molte magagne. Io al contrario ho voluto che le seconde cure la presentino migliorata, non risparmiando fatiche e spesa; e di qual modo, il vedrà ormai ognuno che con questo primo volume vorrà confrontare il primo delle passate edizioni; e maggiormente il vedrà ancora da quanto immantinente verrà presso.

Or dunque gradite, fortunatissimi Giovani, e questo mio zelo pei progressi vostri, e questa sincera intitolazione mia, come quella che da animo veramente amichevole procede; e non vogliate imitare il comun costume di coloro ai quali sono per ordinario dedicati libri: che contenti al più d'averne osservato il frontispizio e la lettera alla loro vanità indirizzata, commettono lo sfortunato libro alla polvere e ai tarli degli scaffali. Da tali io non potrei voler nulla. Ben voglio da Voi, che vi abbiate questi libri per farvene in mente prezioso tesoro. E state bene.

 

DEL CAV. COMPAGNONI

AL SIGNOR CONTE

GIUSEPPE  LUOSI

GIA' GRAN GIUDICE DEL REGNO D' ITALIA

MEMBRO DEL T. I. R. ISTITUTO

DEL
REGNO LOMBARDO VENETO F.C.

 

Altre volte, sig. Conte Veneratissimo, erano al nome vostro diretti libri di assai grave argomento, ne' quali o i profondi misterj della legislazione investigavansi o l'ordine si andava ricercando che paresse il migliore per assicurare i diritti de' cittadini, le ragioni dello Stato e 1'amministrazione della giustizia in ogni sua parte. La storia, che tien conto fedele di quanto si fa tra gli uomini; essa che ha già consacrato alla immortalità il nome fortunatissimo di Coccei, a cui vi siete per somiglianza di parecchie cose trovato sì vicino, non lascerà certamente dimenticato il vostro. Né per la combinazione delle cose io fui estraneo affatto a tali studi e tentativi; ed abbiamo passati insieme molti anni, nel corso de' quali i pubblici officii ed occupazioni severe interamente ci tolsero agli studi ameni delle lettere.

Or questi, cambiati tempi e doveri, vengono a rivendicare le antiche loro ragioni. E dobbiamo invero averli pei ben venuti; perciocché per essi soli sperar possiamo un sussidio contro le tristezze dell' età che si avanza ed un conforto efficacissimo in mezzo alle reminiscenze de' nostri migliori anni perduti.

Per lo che a Voi, che di ogni ramo di belle lettere v'intendete perfettamente e ne fate nel presente ozio vostro intertenimento dolcissimo, non sarà, io credo, disaggradevole argomento quello che mi propongo di trattare, pubblicando, come or fo, le Storie di Ditti e Darete alla testa della Collana che degli Antichi Storici greci volgarizzati novellamente qui si é intrapresa; ed in alcuni punti intendendo di ragionare di critica erudizione intorno a queste due opere. Il che mentre io farò, al penetrantissimo ingegno vostro non isfuggirà certamente questa verità, che chiunque per avventura non conoscesse per altri fatti, i quali sono ornai senza numero, in quanto maggiore oscurità gli oscuri temi della storia avvolgano, e a quali vani e bene spesso assurdi delirj si abbandonino coloro che quasi per eccellenza chiamansi tra noi eruditi, può facilmente averne una prova luminosissima in ciò che intorno a Ditti e a Darete, veri o supposti scrittori antichissimi delle Cose trojane, parecchi di essi, per istudio di lingue dotte e di vecchi libri pur distintissimi e celebrati, hanno con grande contenzione e disputato e scritto. Le cose che io sono per dire, sebbene in ciò molta brevità mi prefìgga, ne faranno fede.

La Guerra trojana per la storia de' popoli occidentali costituisce la più certa epoca ch'essa abbia tra le antiche, e nel tempo stesso la più memorabile.

Era già sulle coste dell'Asia stabilito un floridissimo regno, il quale alla forza sua propria univa quella di molti popoli, o soggetti o confederati; e la vicinanza sua alle isole e coste de' Greci, che incominciavano a riguardarsi come una nazione, quantunque in assaissimo piccoli Stati divisa, tacitamente preparava una lotta inevitabile, la quale ogni ragione dimostrava che non avrebbe cessato senza la distruzione di una di queste due potenze. La politica l'avrebbe per avventura suggerita, se a que' tempi gl'ingegni degli uomini fossero stati raffinati a segno da saper ridurre a sistema le passioni nazionali: ciò che non fece la politica fu fatto da avvenimenti particolari; e il ratto di una donna, appartenente alle più distinte famiglie del paese, poté facilmente infiammare lo sdegno de'principi greci, come la speranza di un grande bottino lusingar poteva l'avidità di popoli poveri ed invidiosi.

Fu fatta adunque la spedizione contro Troja: della quale il primo grande effetto fu quello di unire tutti insieme i Greci, fino allora stati sempre in discordia tra loro, e di avvisarli di quali forze, volendo, fossero capaci. Ma l'esito fortunato di quella spedizione produsse altri effetti di una utilità anche più sensibile. Imperciocché oltre la distruzione che si fece di una potenza, la quale se fosse durata avrebbe potuto col tempo minacciar gravemente la indipendenza e la libertà dei Greci con assai maggiori vantaggi che non fece di poi l'onnipotenza persiana; le idee de' Greci vennero per quella spedizione a dilatarsi non mediocremente e i principj delle arti, del commercio e della letteratura incominciarono a svolgersi: mentre il conversare di tante generazioni diverse, il vedere tanti paesi per lo innanzi poco meno che ignòti fin anco di nome, il confronto di tanti differenti usi, l'esperimento di pratiche per la prima volta allora tentate e il cumulo di una infinità di sensazioni non avute mai per l'addietro, vennero insensibilmente a mutare la condizione antecedente de' Greci; né uno tra essi poté esservi il quale ritornando al proprio paese, non portasse in sé qualche idea o nuova affatto, o meglio assicurata e più feconda di utili applicazioni. Una immagine di ciò che allora accadde tra' Greci può forse somministrare a noi quanto i padri nostri trassero dalle Crociate.

Ma la ruina di Troja, e le vicende dei capitani e degli altri che da quella impresa ritornarono, produssero inoltre in molte parti d'Europa fatti e rivoluzioni, che non si ebbero per le Crociate. Io voglio dire singolarmente di quegli stabilimenti, che Greci vagabondi e Trojani profughi qua e là piantarono o sopra coste deserte o tra popoli barbari d' onde poi s'ebbe una comunicazione felicissima d'incivilimento e la creazione dì Stati e di popoli, i quali nel progresso de' secoli hanno fatto parlare tanto di sé e dai quali l'Europa, fatta oggi sì bella, dee in gran parte riconoscere la sua fortuna. Imperciocché senza punto cadere nelle stolte supposizioni che gì'ignoranti scrittori delle cronache de' tempi di mezzo hanno sparse tra i popoli d'Europa, abbastanza dalla storia più certa restanci documenti che comprovano splendidissimamente la verità che io accenno.

E’ dunque la Guerra trojana il cardine principale delle storie delle nazioni occidentali; perciocché o direttamente o indirettamente ognuna di esse prende qualche avviamento da quel fatto memorabilissimo.

Or d'onde abbiamo noi le memorie di questa guerra? Noi non le abbiamo che da Omero.

Ma Omero, il quale scrisse gli ammirabili suoi poemi tre o quattro secoli dopo la caduta di Troja, fece due cose le quali al presente intendimento vogliono essere con diligenza considerate. Una é che quantunque fondasse que' suoi poemi sopra un fatto vero, trattando sì alto argomento come poeta, dal maraviglioso principalmente cercò i concetti per colpire l'immaginazione de' suoi concittadini: nel che fare non solo animò con forme sensibili cose di pura fantasia e si giovò delle favole di ogni genere che allora correvano tra la moltitudine; ma gli uomini e le imprese secondarie e suppose e rappresentò come meglio al suo disegno pensò convenire: tutt'altro dovere infatti incombendogli che quello della storica esattezza. L'altra è poi, che quanto di vero o di verisimile egli trascelse all'uopo riguardo ai fatti storici, non altronde certamente poté trarlo che dalle tradizioni che le età superiori e più vicine a quel memorabile fatto avevano già lasciate in Grecia e ne' paesi circonvicini. Laonde, se giustamente opinava Cicerone, dicendo non potersi dubitare che innanzi ad Omero non vi fossero poeti, citando egli i versi che Omero medesimo dice essersi cantati alle mense de' Feacj e de' Proci; e come più fondatamente possiamo asserire noi, ai quali pur sono giunti i nomi di molti, che delle stesse Cose trojane trattarono verseggiando (1); sicché poi é nata opinione che od Omero da poeti antecedenti molto abbia tolto o forse i suoi poemi non sieno in sostanza che un impasto di que' canti più antichi; giustamente ancora possiamo credere che croniche e commentarj e memorie fino dal tempo di quel grande avvenimento fossero compilate a diletto ed istruzione dei posteri. Il qual fatto pare a me non potersi mettere in dubbio, se si considera che già prima della ruina trojana i Greci avevano un alfabeto; né altro vuolsi perché una nazione superba delle sue imprese e d'altronde vivacissima scriva secondo lo stato in che possa essere la sua lingua quanto l'abbia massimamente colpita (2).

(1) Tra questi si cita Contino, che dicesi discepolo di Palamede, e scrittore di una Iliade, la quale somministrò l'argomento al poema di Omero. Si cita pure Creofilo di Samo, altri dicono Callimaco, a cui vuolsi che Omero rubasse il poema, che poi pubblicò come suo, ec. (2) Eliano apertamente nomina Siagro che trattò in prosa delle Cose trojane prima di Omero.

Indipendentemente adunque dalla prova di fatto, per la forza che la convenienza delle cose e il complesso delle circostanze fa sull'animo nostro noi dobbiamo tenere per certo che prima di Omero fuvvi chi tra i Greci scrisse delle Cose trojane. E qui non parlo ancora che de' Greci; mentre pure le stesse considerazioni possono farsi con eguale verisimiglianza parlando de'Barbari ch'ebbero parte nella guerra di Troja o che per la vicinanza o per altre ragioni furono in relazione coi Dardani. E se noi veggiamo per la testimonianza di viaggiatori e di eruditi uomini correre anche a'giorni nostri nelle provincie di Persia più vicine all' India storie della spedizione di Alessandro Magno, non tolte certamente da quelle che i Greci scrissero, e più che quelle de' Greci copiose e ragionate: ben più francamente possiamo credere che della Ruina trojana fosse scritta memoria da uomini o fenicj, o frigj, presso i quali é certo che le lettere fiorirono assai prima che in Grecia (1).

(1) E noto che Sanconiatone di Tiro o di Berito visse, secondo Porfirio, circa i tempi di Troja. Le sue opere furono tradotte in greco da Filone di Bibli tra il primo e il secondo secolo dell'era nostra. Si nominano altri storici fenicj e frigj antichissimi, Teodoro, Iphicrate, Moco, Sarpedone ec.

Del che io penso sì forte dovere essere la persuasione in chiunque alcun poco si fermi a considerare la cosa, che la supposizione contraria non potrebbe non essere assolutamente assurda. Sono adunque apertamente queste le fonti, dalle quali ragion vuole che credasi avere Omero attinti i fatti, che o sinceramente riferiti o poeticamente alterati formano la sostanza dei suoi poemi. Il che posto, quale fede possa aversi in esso lui per istabilire la storia, può ornai vedersi senza ulteriore ragionamento; perciocché il buon senso ci avverte, quelle cose doversi per ragione storica ammettere, le quali sieno conformi alle memorie antecedenti, di cui egli si é servito.

Ma si domanderà intanto ove trovinsi codeste memorie; imperciocché pochi cenni a noi sono giunti intorno alle medesime; ed una lacuna assai grande si osserva tra l'epoca alla quale esse potrebbonsi riferire e quella nella quale i loro frammenti s'incominciarono a conoscere. E vi hanno dottissimi uomini, i quali domandano come spezialmente potrebbesi supporre mai, che per tanti secoli i Greci, che pur ricordarono assai numero di scrittori, le cui opere sono andate smarrite, lasciato avessero di parlare di Ditti e di Darete, se codesti due uomini, l'uno greco di Creta, l'altro frigio di nazione, avessero fin dal tempo, in cui si suppone che vivessero, scritta la storia delle Cose trojane?

Codesto ragionamento, che a primo aspetto sembra conforme alle buone regole della critica, parmi che facilmente possa perdere assai parte della sua forza, se una considerazione gli si opponga, grave per sé stessa del pari che ovvia. Le memorie o greche o barbare, che sulla Guerra trojana per avventura furono scritte circa i tempi di tale avvenimento, non poterono mai riguardarsi che come un secco sommario, utile bensì in quanto assicurava la ricordanza de' fatti, ma poco dilettevole pel comune di una nazione com'era la greca, la quale, siccome é dimostrato da ogni suo fatto, più alle cose d'immaginazione che a quelle del giudizio generalmente si attenne; e che é noto avere sopra modo preferita l'eloquenza poetica ad ogni altro genere; e nella eloquenza stessa oratoria avere pur comunemente preferita quella che pel numero, per la eleganza delle frasi, per la vivacità dello stile e per una certa singolarità delle cose esposte, più avvicinavasi alla poetica. Di che fra i molti esempi che potrei addurre ricorderò soltanto quello di Erodoto, il quale assai più tardi di Omero presentando ai Greci una storia, fu appunto per tali qualità sovranamente ammirato come alunno felicissimo delle Muse, quantunque la ragione al certo lo metta assai al disotto di Tucidide e di Senofonte. Omero adunque, che fatto era per colpire le teste vivacissime de' Greci; Omero, che ne'suoi poemi il grande avvenimento di Troja presentando, di tanti principi, di tanti popoli, di tante città e di tante avventure e casi gli aveva riempiti da poter risguardarli come l'enciclopedia della vanità e dell' orgoglio nazionale, e che nel tempo stesso suonato aveva alle orecchie delicate de' Greci quella melodia dolcissima che sopra i sensi e gli animi loro aveva una forza onnipotente; Omero, dissi, che tante imprese accoppiava con tutto il meraviglioso che un'arditissima fantasia e la religione del paese potevano dettargli, dacché comparì, fece facilmente dimenticare, siccome tutti i poeti che lo avevano preceduto nella trattazione di quell' argomento, anche gli scrittori che del medesimo avevano ragionato in prosa. E per quale ragione i Greci avrebbero pensato ancora alle vecchie loro croniche, aridissime di loro natura e scritte certamente in assai rozza lingua, quando avevano pronto un arsenale sì ricco di cose e sì splendente di ogni bella forma? Né presso i Greci, da Omero sino a che durarono i loro bei tempi, fuvvi, come é fra noi, quella classe d'uomini mediocrissimi, i quali impotenti a trattar scienze od arti, cercassero fortuna nel miserabil mestiere di andar diseppellendo ogni storia di cose vecchie, che dal buon senso de' maggiori erano state cacciate in obblivione perché o inutili o indegne del paragone colle migliori che s' avevano (1).

(1) Se facciamo eccezione dal guasto che ne' tempi dì mezzo venne fatto degli antichi libri, o per zelo fanatico, o per bisogno di pergamena, generalmente parlando la perdita di tante antiche opere più che ad altro debbesi alla certa persuasione che fossero inutili, avendosene negli stessi generi di nuove meglio fatte.

Ecco adunque manifestissima la ragione per la quale, se Ditti e Darete scritto avevano delle Cose trojane fin da quando esse succedettero, poterono da Omero in poi essere posti in dimenticanza. Il genio della nazione, sì ardentemente prevenuto pel suo maggior poeta, come sarebbesi più occupato di sì aride e viete scritture? Ma ciò intanto non prova che nei tre o quattro secoli, che dal caso di Troja fino ad Omero scorsero, non potessero i libri di que' due scrittori essere per le mani di chi dilettavasi di erudirsi, senza che di questo fatto sia venuta memoria a noi.

E che delle Cose trojane restassero tradizioni oltre le raccolte da Omero e differenti da queste, i Tragici greci chiaramente il comprovano in quelle tante supposizioni di fatti e d' uomini, che diversamente da Omero essi rappresentano; e così dicasi de' varj loro Scoliasti. Imperciocché sarebbe somma stoltezza il credere che per puro capriccio abbiano essi tanto spesso declamato dai racconti di Omero, a meno di non concludere che per capriccio egualmente Omero scrisse quella parte di fatti, che nissun interesse poetico l'obbligava ad alterare, e che anzi esigeva di essere esposta secondo la verità. Se pertanto le cose che ho fin qui dette hanno alcun fondamento ne' principj di quella ragione universale, che superiore alle particolarità di ogni genere é delle medesime per propria essenza giudice supremo, apparirà facilmente quanto sia assurda la condotta di que'critici i quali contro le cose da Ditti e da Darete esposte argomentano sull'autorità di Omero. Perciocché, mentre come poeta, generalmente parlando, non può fare autorità alcuna; per ragionare sensatamente in tale proposito sarebbe d' uopo dimostrare che egli attinse i fatti da fonte senza alcuna eccezione debitamente riconosciuta per autentica: il che al certo niuno v'ha che sia in caso di provare. Laonde se dimostrerassi in seguito che le storie che abbiamo di Ditti e Darete possono ragionevolmente presumersi contenere le più antiche memorie che della spedizione de' Greci a Troja si abbiano, con esse piuttosto si dovrà giudicare di Omero, anziché con Omero giudicare di esse; né la differenza de' racconti che in essi trovasi, paragonati con quelli di Omero, può essere un argomento per giudicarli lavoro di qualche falsario.

 

Ditti fu di Gnosso, città di Creta. Giovanni Malala nella sua Cronografìa dichiara avere preso da lui quanto inserì nella sua Cronica intorno alla spedizione di Troja. Cedreno loda Ditti, dicendo ch'egli lasciò i caratteri e la descrizione de’ capitani, de' tempi, e de' luoghi tutti della guerra trojana, e di ogni cosa degna di osservazione. Isaccio Porfirogeneta nei suoi Caratteri de' Greci e de' Trojani confessa di aver tolto tutto da Ditti. E così pur fece Costantino Manasse ne' suoi Annali per ciò che riguarda le cose di Troja, chiaramente protestando di non avere seguito Omero. Allazio nella sua opera sulla Patria di Omero cita un retore greco anonimo, il quale riprende Ditti di avere introdotti a parlare oratoriamente Palamede, Ulisse, Menelao e parecchi altri, sia manifestando i loro sentimenti contro i Trojani, sia eseguendo le ambascerie loro commesse verso i medesimi. Il che prova che costui riconosceva sussistere il libro di Ditti; e può forse provare inoltre il poco ingegno che egli aveva, quasi quegli uomini che dovevano per ogni ragione sentire altamente, qualunque fosse lo stato della lingua in cui si esprimevano, non potessero essere eloquenti. Di Ditti parla pure anche Suida dicendo ch' egli scrisse in dieci libri in prosa il Giornale ( effemeridi ) delle cose raccontate in versi da Omero; e secondo che portano alcuni codici delle cose omesse da Omero. E più particolarmente attesta che Ditti scrisse delle cose iliache e troiche (1), individuando che scrisse del ratto di Elena  e tutta la storia d’ Ilio; espressioni, che o riguardano i distinti libri, che componevano l'opera di Ditti, o confermano il complesso di ciò che in essa opera si conteneva.

(1) Ove è da avvertire, che sono alterati que' testi, i quali portano italiche, essendo certo che a' tempi antichissimi di Ditti l'Italia non poté dare materia di storia: né alcuno dei tanti che hanno fatto menzione di Ditti accennò mai ch'egli avesse scritto di tale argomento.

Anche Tzetze nelle Metafrasi omeriane ha notate intorno a Ditti le medesime o simili cose. Finalmente se diam mente a Scaligero da Ditti prese Eusebio quanto nel suo Cronico egli scrisse contro l'autorità di Omero.

Ora l'opera di Ditti, della quale tutti codesti autori ragionano, era certamente scritta in greco; e comprovasi perché essi non indicarono mai di riguardarla come straniera e scritta in altra lingua; e perché ne riferiscono alla occasione interi passi in quella stessa maniera nella quale riferivano i passi di altre opere greche, sull'autenticità delle quali non cadde mai dubbio. Ed a ciò sembra pure aggiungere forza la riflessione fatta da taluno, che Malala, il quale cita Ditti in otto diverse occasioni, non intendeva il latino; onde non poté servirsi del testo che noi abbiamo.

Ma dov' é intanto questo testo greco di Ditti? Costantino Lascari affermò al suo tempo non trovarsi più tra i Greci stessi da trecent'anni; né dopo il Lascari v'é stato alcuno, il quale abbia detto di averlo veduto. Egli é pertanto chiaro che la mancanza di questo testo ha potuto accrescere i dubbj e le difficoltà; e fin dove siasi giunto in questo proposito, ne darà una idea ciò che qui mi accingo ad esporre.

Il testo latino che di Ditti ci rimane porta in fronte una Prefazione, nella quale si dice che Ditti, cretese di stirpe e nativo di Gnosso, visse a' tempi degli Atridi e fu dotto nella lingua e nelle lettere dei Fenicj, che Cadmo aveva introdotte in Acaja: che fu compagno d'Idomeneo, figliuolo di Deucalione, e di Merione di Molo, i quali andarono con esercito capitani contro Ilio e a lui ordinarono di scrivere gli annali della Guerra trojana: che infatti tutti gli accidenti egli ne compilò in sei volumi, usando lettere fenicie e scrivendole in tavolette o corteccie di tiglio; e questi volumi, ritornato già vecchio in Creta, comandò, morendo, che fossero seppelliti seco lui: che, conforme appunto a quanto egli aveva comandato, furono posti entro una cassetta di stagno e messi nel suo sepolcro: che dopo assai tempo, correndo l' anno tredicesimo di Nerone, venuti molti tremuoti in Gnosso e ruinati molti edifizj, ruinò anche il sepolcro di questo Ditti a modo che dalle crepature si fece manifesta una cassetta di stagno, la quale, veduta da alcuni pastori che passavano di là e creduta contenere un tesoro, fu tolta del sepolcro ed aperta: che in essa que' pastori trovarono tavolette o corteccie di tiglio, scritte in caratteri che non intendevano, ed immantinente portarono tutto ad un certo Euprasside loro padrone, il quale, conosciuto quanto la scrittura conteneva, la presentò a Rutilio Rufo, allora consolare dell' isola, e questi la mandò per Euprasside stesso a Nerone, credendo che in quella scrittura si contenessero cose secrete: che Nerone, avuta che l'ebbe ed osservato che la scrittura era punica, chiamò a sé uomini intendenti della medesima, i quali la spiegassero e la spiegarono di fatto. Onde avendo Nerone inteso che trattavasi di un monumento di un' antica persona stata ad Ilio, ordinò che il libro fosse traslatato in lingua greca . . . dopo di che, rimandato Euprasside con molti doni ed insignito della cittadinanza romana, fece depositare nella biblioteca greca gli Annali intitolati col nome di Ditti.

Le varie questioni che fanno tra loro gli Eruditi, e sul punto se questa Prefazione sia stata originalmente greca o latina e su quello del ritrovamento di cui in essa si parla, e sull'epoca nella quale s'incominciasse veramente a conoscere il testo greco, e sulla origine di esso, crescono a dismisura in vista di una Lettera di certo, o Lucio, o Quinto Settimio, che parimente trovasi unita al Ditti e diretta a Quinto Arcadio, o Aradio; differenti essendo intorno a questi nomi le lezioni che s'incontrano. La Lettera é del seguente tenore.

"Ditti di Creta, che militò sotto Troja con Idomeneo, scrisse un diario di quella Guerra in lettere puniche, le quali allora erano comuni in Grecia, essendovi state portate da Cadmo ed Agenore. E passati molti secoli, per vetustà ruinato essendo il sepolcro di quel Ditti, che era presso Gnosso, antica sede del regno di Creta, alcuni pastori capitati ivi accidentalmente trovarono in quelle ruine una cassetta con molta industria chiusa, la quale aperta, pensando che dovesse contenere un tesoro, in essa non trovarono né oro né altra cosa di che potessero giovarsi; ma bensì de' libri di corteccia d'albero, che, delusi nella loro speranza, portarono a Prasside, padrone del luogo. Costui, voltata la scrittura in caratteri attici, giacché il componimento era greco, presentò questi libri a Nerone, Cesare romano, che larghissimamente il regalò. Ora essendomi venuta in mano quest' opera ed amando molto la vera istoria, io la traslatai, quale era, in latino, non tanto presumendo della mia capacità, quanto in ciò cercando di passar l'ozio. Nel qual lavoro io conservai il numero de' cinque primi volumi, che contengono le cose accadute in quella Guerra; e compendiai in un volume solo gli altri (1); e te li mando tutti: con che, Ruffino mio, tu favorevolmente gli accolga, come troverai giusto...

 (1) Varia la lezione del testo, poiché ove trovasi scritto residua quinque, ove residua quatuor, ove residua quidem. Quest'ultima, ritenuta nella bella edizione di Amsterdam del 1702, é la meno ragionevole né si é voluto nella traduzione tener conto di quel quidem, il quale apertamente vedesi o scambiato col quinque, o intruso.

Molte contraddizioni adunque veggono i nostri Eruditi apparire da questi due documenti e sulla lingua originale dell'autografo e sul numero primitivo dei volumi e sulla fede che piuttosto all'uno che all'altro di que' documenti si debba: quindi sulla persona, sulla condizione e sulla età del traduttore, e via discorrendo. Singolarmente poi negano il ritrovamento del manoscritto e la presentazione sua a Nerone, dicendo nissun contemporaneo degno di fede attestare tal fatto.

Ma se negasi il ritrovamento di quest'opera, come qui viene supposto, quando sarà dunque stata essa conosciuta? imperciocché mentre ne abbiamo il testo latino fin da una certa epoca, uopo é che stabiliamo anche quella del testo greco, da cui il latino per mezzo di traduzione fu tratto. Io confesso di non essere erudito abbastanza per giudicare se tavolette o corteccie fino da antichissimi tempi non sapessero prepararsi a modo che quando fossero custodite così da non essere esposte all'azione dell'aria e della umidità, potessero durare per assai lungo tempo. So però che nelle stesse sabbie di Alessandria sonosi trovati manoscritti di assai vecchia data: onde credo nissuna improbabilità esservi, che in una cassetta di metallo, forse piena ancora di asciuttissima arena e diligentissimamente chiusa, non potessero conservarsi i volumi di Ditti. Altronde non é singolarissimo fatto questo, che Ditti ordinasse che i suoi scritti fossero seppelliti con esso lui, giacché in altri tempi ciò si é praticato da altri. Né per questo crederei che alcuna copia di codesti scritti del nostro autore non fosse rimasta in corso: del che debbonsi senza dubbio supporre persuasi tutti coloro, i quali pensarono che Omero si fosse giovato della storia di Ditti per l'ossatura de' suoi poemi: e forse se ne giovarono prima di Omero molti di quelli che cantarono la Ruina di Troja e le prodezze degli eroi della Grecia stati a quella spedizione. Debbesi anzi per ogni buona ragione presumere che Ditti medesimo ne lasciasse qualche copia; perciocché qual ragione di nascondere al mondo un'opera, che più d'ogni altra cosa avrebbe dall'obblivione salvato il suo nome; opera ch'egli fatto aveva ad onore della sua nazione e ad eccitamento di principi, che fin da quando l'ebbe compiuta avranno sicuramente voluto averla presso di sé?

Ma quello che maggiormente dee fissare l'attenzione di chiunque entri ad esaminar la questione che trattiamo, si é la incoerenza nella quale cadono que'dotti, che rigettando il ritrovamento accennato suppongono che l'autore del Ditti latino abbia tolto i materiali da Omero per formare la sua supposta storia. E come credere un tal fatto, quando, prescindendo da tante altre considerazioni, questa storia é per gran numero di cose diversissima da ciò che Omero racconta?

Non é il Perizonio caduto in questa stravagante opinione: ma però egli, che pur tanta fama ebbe di dottrina, molte cose in questo proposito disse che non parranno meno stravaganti, ove con qualche ponderazione si esaminino. Dice egli che il Ditti da Settimio tradotto in latino e l'altro che i Greci ebbero sono una sola e medesima cosa; e dice questo sul fondamento di una perfetta conformità, ch'egli pretende essere nell'uno e nell'altro testo, quando in contrario sostanziali differenze trovansi confrontando col testo latino che abbiamo ciò che del greco testo ci rimane per cura dei varj scrittori greci che questo lessero, consultarono e citarono, siccome vedremo in appresso. Ed é poi codesta sua asserzione tanto più assurda , quanto che per sostenerla sarebbe stato d'uopo avere veduto l'un testo e l'altro, ed averli ben confrontati: il che il Perizonio non poté fare. Del rimanente costretto egli a dire infine, onde fosse venuto il Ditti greco, conclude esserne stato autore quell’Euprasside o Prasside di cui parlano la Prefazione e la Lettera riportate, il quale egli suppone avere voluto con quella impostura rendersi ben affetto Nerone. Ma quanto ciò sia lontano da ogni verisimiglianza ognuno può vederlo, per poco che osservi che Nerone, non ostante i suoi molti vizj, era.principe assai instrutto e da non così facilmente gabbarsi; che alla corte di Nerone ed in Roma erano uomini sottilissimi d'ingegno ed eruditi, i quali non solo riso avrebbero della vanità di Nerone in credere antichissimo un tal libro, l'idea congiungendone con quella de' poemi trojani, che é stato scritto essersi egli dilettato di cantare; ma detestata avrebbero l'impostura del Cretese venuto a presentarlo. Ed a tutti coloro i quali domandano, per potere ammettere il fatto di cui parliamo, quale contemporaneo degno di fede lo attesti, dimanderemo noi quale contemporaneo attesti la vanità di Nerone in prenderne per genuino questo libro? E facciamo questa domanda tanto più arditamente, quanto che i temporanei di Nerone ci hanno lasciato ricordo di altre sue vanità. Laonde perché appunto nissuno ha detto che tra le frivolezze neroniane vi fu quella di aver accolto e fatto trascrivere una falsa cronica presentatagli da un greco impostore, noi terremo con buon fondamento che quella cronica ebbe veramente evidenti traccie dell'asserita antichità; e che alla corte di Nerone fu riconosciuta per tale: parendoci assolutamente un delirio il supporre siffatta impostura con tal principe ed in tal corte, ove sì certi erano i pericoli; e supporla inoltre fortunatissima. Che se ci si oppone non essersi fatta menzione di cosa tanto singolare, diremo, non di tutto infine farsi memoria anche in tempi nei quali si scrive più di quello che si scrivesse sotto il regno di Nerone: la catastrofe poco dopo seguita di lui e l'odio in che cadde e si mantenne il suo nome, avervi forse contribuito: i Romani austeri e superbi non aver data importanza veruna a vecchi racconti di fatti riguardanti un popolo soggiogato e disprezzato, quale era il greco: e i poeti begl'ingegni latini avere già abbastanza su questo argomento in ciò che Omero e gli antichi Tragici avevano lasciato scritto: né finalmente poi mancare questa memoria, se pur vuolsi; ed aversi evidentemente nella fatta traduzione, che abbiamo, e nella tradizione, che per mezzo della Prefazione e della Lettera di cui abbiamo parlato é fino a noi pervenuta, checché di quella Lettera e di quella Prefazione debbasi giudicare. Imperciocché infine altra cosa é che que' documenti vogliansi apocrifi, ed altra é che sieno false le cose ch’essi contengono. Del che non ho bisogno di allegare altre prove, quando a quella Prefazione e a quella Lettera pur si appoggiano que' medesimi che hanno per favoloso il ritrovamento del quale si tratta, se vengono ad ammettere che Euprasside o Prasside andò a presentare quel libro a Nerone. Poco rettamente adunque e il Perizonio e gli altri Eruditi, de' quali qui abbiamo riferite le opinioni, ragionarono in mezzo a tutta la loro dottrina.

Ma fin dove sia giunta l'immaginazione del Perizonio vedesi da un pensiero anche più stravagante, ch'egli non ha dubitato di esporre con molto impegno là dove, all'uso degli Eruditi, cercando chi fosse Aradio Ruffino a cui é diretta la Lettera di Settimio ed in qual tempo vivesse , per dirci poi in qual tempo vivesse Lucio o Quinto Settimio, traduttore di Ditti, conclude che costui visse al tempo di Diocleziano e che tradusse Ditti per opporlo ai Cristiani. Imperciocché, dice egli, andava assai bene a tiro contro la Storia sacra codesto libro, al quale davasi tanta antichità e che tanti contiene oracoli e vaticinj e prodigj, appoggiati a fede istorica, e pei loro eventi confermati; e tanti esempi insieme presenta della vendetta degli Dei de' Gentili contro gli empj sprezzatovi della loro maestà, siccome vedesi di Agamennone che aveva uccisa la capra di Diana; de Greci che avevano insultato Crise sacerdote di Apollo; di Paride che aveva presso l'altare di Apollo trucidato a tradimento Achille; e de’ Greci una seconda volta che, incendiando Troja, violato avevano tutti i Santuarj degli Dei. Settimio intendeva con codesta traduzione sua di additare una storia di antichissimo tempo, scritta da uomo stato testimonio oculare di tutti i fatti, e che nel massimo suo lume poneva la potenza suprema degli Dei per rispondere ai Cristiani d'Italia e di Roma. Al quale stranissimo pensamento del Perizonio non altro opporremo che la riflessione ovvia e concludentissima del Fabrizio. Non v'é alcuno, dice questi, che, letto Ditti, trar ne possa argomento per sentir peggio del cristianesimo, se si supponga idolatra, e per attaccarsi di più al culto degli Dei. E di fatto chiunque legga sotto questo rispetto la storia di Ditti vedrà chiaramente che ogni cristiano più idiota non avrebbe potuto trattenersi dal ridere e del libro e del traduttore.

Del resto, se fosse permesso prender partito in mezzo ad opinioni stravaganti ed assurde, dacché vuo1si tutto essere favola quanto leggesi e nella Prefazione e nella Lettera che abbiamo riportate, l’unica conclusione che potrebbesi meno irragionevolmente dedurre sarebbe quella, che non si é di fatto mancato da altri di trarre, cioé che l'originale di questa storia sia la stessa che diciamo traduzione di Settimio. E Gaspare Barzio ha spinta la stravaganza fino a questo segno, apertamente dicendo che il Ditti veduto da Eusebio, da Suida, da Malala, dal Tzetze e dagli altri nominati di sopra, non era che una traduzione fatta sul testo latino che noi abbiamo. Ma ond'é, che parlando quegli scrittori dell'opera di Ditti quale essi avevano sott'occhio, dicono chiaramente ch'essa era composta di dieci libri o almeno, stando ad alcuni testi, di nove, quando il testo latino non ne contiene che sei? Né costoro danno ragione alcuna dell'aggiunta che dovrebbero supporre stata fatta da chi dal latino traslatò l'opera in greco: essi prendono anzi tutto ciò che nel testo greco si comprende come di origine eguale e di eguale autenticità. E ond'é parimente che quegli scrittori, parlando di Ditti, dicono ch'egli ci lasciò i caratteri de' Greci e de' Trojani ed anzi alcuni di loro ne trassero copia e ne tramandarono a noi de'frammenti, quando nel Ditti latino non se ne ha vestigio veruno? Eppure costoro avrebbero dovuto almeno indicare come tanto guasto ed in qua1 tempo fosse succeduto nell'autografo: imperciocché trattandosi di un libro supposto originalmente di tanta antichità ed autorità, e di uomini vanissimi delle cose loro nazionali, siccome dalle stesse loro opere chiaramente può argomentarsi, non é ragionevole supporre che non dovessero ricercare, esaminare e confrontare il testo latino. Finalmente domanderemo onde sia che tra il testo latino che abbiamo e il greco del quale non conosciamo che pochi passi, pur sienvi alquante assai notabili differenze di cose; come, per cagione di esempio, quella che riguarda la morte di Enone, la quale secondo il Ditti greco citato da Tzetze, udita l'uccisione di Paride, pel dolore s'impiccò; quando nel testo nostro dicesì che svenne istupidita e morì? E potrebbonsi pur accennare altri passi, i quali con assai mal garbo ridurrebbonsi a corrispondenza perfetta, adoperando, come fa il Perizonio rispetto a quello della morte di Enone, sottigliezze gramaticali che forse varrebbero al più, se si trattasse di traduzione dal greco al latino, ma che riescono di troppo aspro e violento aspetto ove trattisi di traduzione dal latino al greco. Tutti quelli poi che, dotati di squisito gusto in ambe le lingue, hanno accuratamente esaminato il testo latino che abbiamo, convengono pressoché unanimamente ch'esso presenta abbondanti segni della sua derivazione dal greco, moltissime essendo le frasi che alle maniere si accostano degli scrittori greci e che trovansi assai di rado in alcuni latini. E i tanti Eruditi greci che di sopra nominammo possono chiamarsi arditamente a testimoni della questione: perciocché, senza pretendere che s'abbiano a tenere per uomini di fino gusto e di sicuro giudizio in tutto, niuna ragione certamente si ha per negar loro quel tatto comune ad ogni mediocre uomo il quale sia addomesticato nella lettura degli autori della sua nazione; e tutti essi lo furono in ispezial modo, secondo che dagli scritti loro può vedersi. Ora a nissuno di essi passò mai per la mente che il Ditti che avevano sott'occhio, che citavano, del quale facevano estratti e compendj, fosse la traduzione di un originale latino. La fede stessa che gli concedettero allontanava da loro ogni sospetto di ciò, anche minimo; e la fede loro è ben più fondata per noi che le vane ciarle de'nostri eruditi, sì facili a travedere. Dacché adunque il testo latino non può riguardarsi che come una traduzione del greco, forza é concludere che il testo da cui venne tratta fu o quello che Euprasside portò a Nerone, o un altro; e siccome di niun altro v'é indizio, essendosi già confutata la folle opinione del Barzio, ragion vuole che si ritenga il primo; perciocché in fine é di regola da tutti accordata che ognuno é ed é da ritenersi per quello che si dice essere, qualora non si provi il contrario. E poiché non si può senza delirio supporre che Euprasside, o Prasside che vogliam dirlo, ingannasse Nerone, offerendogli impunemente un suo lavoro per opera antichissima; ragion vuole che teniamo per autentico il testo che costui portò a Roma. Che se la traduzione non corrisponde perfettamente al testo greco per le ragioni che di sopra si sono esposte, facile cosa é vedere onde ciò sia nato: dall' arbitrio cioé del traduttore che molte cose ha compendiate o mutate od omesse, secondo che per tanti esempi si prova essere frequentemente accaduto.

Se non che é mestieri fermarsi alcun poco nell'esame della Prefazione e della Lettera che abbiamo già riferite; poiché intorno ad entrambi codesti documenti molto si dubita dagli Eruditi e da essi assai cose traggonsi per impugnare la verità del fatto ivi riferito. Dico adunque che qualunque essi sieno per sè medesimi presentano alcune cose sulle quali pienamente coincidono; e alcune sulle quali possono coincidere facilmente, se qualche emenda si ammetta che il buon senso suggerisce e che la ragione di sana critica non solo permette, ma forse comanda. Incomincio dalle prime.

Coincidono pienamente la Prefazione e la Lettera, in quanto per entrambe vien detto che Ditti cretese fu alla spedizione di Troja e ne scrisse i fatti sopra tavolette e corteccie, siccome é noto essere stato uso ne' tempi antichissimi. Coincidono pienamente entrambe, in quanto ci dicono che questi scritti furono riposti nel sepolcro di Ditti entro una cassetta, la quale, trovata dai pastori, venne recata al padrone del luogo. Coincidono pienamente mentre dicono che questi presentò quegli scritti a Nerone, il quale ben gli accolse e regalò il presentatore.

Che nella Prefazione dicasi che il sepolcro ruinò per cagione di tremuoto e nella Lettera che ruinò per vetustà, queste sono espressioni le quali si combinano insieme facilissimamente; perciocché una non esclude l’ altra; e ciascuna può dirsi cagione sufficiente di quell'effetto. Per la stessa maniera che nella Prefazione quegli, a cui i pastori portarono la cassetta, sia chiamato Euprasside, e Prasside sia detto nella Lettera, niuna difficoltà può opporre degna di arrestare alcun uomo di buon senso, perciocché per chiunque intenda le ragioni della lingua greca é manifesto onde possa essere provenuta o l'aggiunta della prima sillaba in Euprasside o la soppressione in Prasside della medesima: così che questi due nomi non sono in sostanza che un nome stesso. Dice la Prefazione che Euprasside presentò gli scritti trovati a Rutilio Rufo, consolare in Creta, il quale lo mandò con essi a Nerone; e la Lettera dice semplicemente che andò Prasside a presentarli. Ma nemmeno qui il tacersi che si fa nella Lettera l'intervento di Rutilio Rufo mette differenza nel fatto principale ed anzi si può asserire francamente che se da nissuna parte fossimo noi informati di questo intervento avremmo dovuto supporlo; perciocché volendo, come la ragione domanda, credere codesto Euprasside alcun poco prudente, dovremmo pensare che innanzi di presentarsi all' imperadore si fosse procurata qualche o protezione od officio di ragguardevole personaggio. Si dice che il titolo di Consolare dato a Rutilio Rufo non collima col tempo di Nerone, essendosi introdotto più tardi; ed anche a ciò può rispondersi Rutilio Rufo essersi così chiamato non per ragione della carica sua in Creta, ma per quella del Consolato avuto per avventura in Roma o per insegne consolari dategli anche senza essere stato Console o per inavvertenza dell' autore della Prefazione. Fin qui adunque la Prefazione e la Lettera coincidono pienamente. Ma accanto al solo punto che veramente presenta una difficoltà v'é ancora una circostanza fondamentale in cui l'uno e l'altro di codesti documenti appieno coincidono; ed é questa, che ove la Prefazione dice che Ditti scrisse gli Annali della Guerra trojana usando lettere fenicie, dice la Lettera che scrisse il Diario di quella Guerra in lettere puniche, le quali sono le stesse che le fenicie. Se non che la Prefazione nota che Euprasside, conosciuto quanto la scrittura conteneva, la presentò a Rutilio Rufo; e che ito poi a Nerone, veggendo questi ch'essa era punica, chiamò a sé uomini intendenti della medesima, i quali la spiegassero; e la spiegarono di fatto: ond'é che quell'imperadore udendo trattarsi di un monumento di antica persona stata ad Ilio, ordinò che il libro fosse traslatato in lingua greca. Per la quale esposizione viensi ad ammettere che Euprasside intendeva la scrittura del vecchio libro, e che l'imperadore, fatto verificare quanto naturalmente Euprasside aveva annunziato, la fece tradurre in greco. Ma la Lettera riferisce la cosa con qualche diversità; perciocché essa suppone che non si trattasse se non che di cambiare i caratteri punici in caratteri attici e che Euprasside avesse già fatta questa operazione. Nè certamente ciò é inverisimile dopo che tanto nella Lettera stessa, quanto nella Prefazione é detto che quest'uomo conosceva la scrittura punica; ed é anzi cosa naturalissima ch'egli si fosse fatto sollecito di quella fattura per rendere buona ragione e a Rutilio Rufo primieramente, e all' imperadore medesimo, della sua scoperta. Che poi Nerone non siasi riportato ad Euprasside, ma abbia consultato altre persone intelligenti per accertarsi della cosa, ciò é conforme alla prudenza di ogni uomo di senno; e Nerone, ove non era travolto dalle passioni, ne aveva non iscarsa dose; e come principe doveva infatti prendere ogni precauzione per non essere o sorpreso od ingannato. Tutta la questione pertanto sta in questo, che prendendo a rigore dei termini le parole della Prefazione jussit in graecurn sermonem ista transferri, che noi abbiamo volte in ordinò che il libro fosse iraslatato in lingua greca, sembra doversi concludere che il libro presentato da Euprasside fosse scritto in lingua fenicia o punica  e non solamente in caratteri punici o fenicj, come la Lettera asserisce. Ed é questa appunto la cosa sulla quale abbiamo inteso di dire che possono facilmente i due documenti coincidere, se qualche emenda si ammetta che il buon senso suggerisce e che anzi la ragione di sana critica permette e forse comanda.

Diciamo adunque primieramente che l'autore della Prefazione, qualunque egli sia, é uomo sconosciuto affatto, della cui capacità, intelligenza e buona fede noi non abbiamo sicurtà veruna; che all'opposto ogni giusta presunzione vuole che il traduttore stesso tengasi per 1' autore della Lettera; né certamente la Lettera e la Prefazione possono credersi per lavoro della stessa mano. Or posto ciò, l'autor della Lettera ha un titolo ben fondato ond' essere creduto; per lo che, s' egli ha detto che Prasside non fece altro che mutare in attici i caratteri punici o fenicj della vecchia scrittura di Ditti, ragion vuole che si creda essere stata quella vecchia scrittura fatta in lingua greca? e rappresentata soltanto in caratteri fenicj o punici: d'onde viene che il traduttore non poteva dire altrimente; e che se diversa cosa suppose l'autore della Prefazione, egli andò errato.

Ma io non credo ch'egli errasse così, perciocché sarebbe stata troppa inconsideratezza in lui, avendo di fronte il testo che ne lo smentiva. Perciò diremo non avere egli parlato di lingua, ma soltanto di caratteri; e a chi codesta Prefazione tradusse dal greco, giacché molti convengono che essa fosse originalmente scritta in greco, attribuiremo il fallo, se col vocabolo che usò per avventura credette di riferire ciò che l'autore indicava. O se vogliamo assolvere anche lui di questa colpa, l'addosseremo a qualche copista; e tutte queste supposizioni sono più giuste e meglio fondate di quello che sieno i vani ragionamenti di coloro i quali abusando di cosa che il comun senso e le più ovvie regole di retta interpretazione rigettano, si servono della inopportuna frase, della quale é questione per distruggere un fatto per sé chiaro e manifestissimo. Certamente il ragionamento che qui abbiamo fatto noi può per lo meno stare a confronto di quello che il Perizonio si é permesso, quando ha voluto conciliare insieme i nove libri che Suida dice aver Ditti scritto, e i dieci che a Ditti attribuisce Settimio (1).

(l) Ecco il passo del Perizonio. Caeterum quod apud Suidam legimus Dictyn novem libris haec executum, quum Septimius ei tribuere videatur decem lìbros. dum priorum quinque voluminum eundem se numerum servasse, residua autem quinque in unum redegisse ait ; id vero levis ac tenuis est discrepantiae, quum facillimus et creberrimus in numeris librariorum sit lapsus; ut adeo prorsus putem vel apud Suidam legendum deca, vel potius apud Septimium residua quatuor.

Che se ad alcuno paresse che troppo deboli congetture fossero queste che abbiamo esposto, una considerazione aggiungeremo, per la quale restando ancora il testo della Prefazione quale é, ridurrassi pur consentaneo a quello della Lettera. Ella é chiara cosa che il testo, come pel mutamento solo dei caratteri fatto da Euprasside veniva ad apparire, presentavasi scritto in una lingua antiquata, scabra e spiacente; perciocché alla età di Ditti il greco idioma doveva essere, rispetto a quello che fu nel secolo di Pericle, come fu l'idioma latino de'fratelli Arvali confrontato con quello del secolo di Angusto. Nerone adunque non si contentò della forma che per la fattura di Euprasside prese il Ditti; ma volle che fosse ridotto con certa diligenza a vocaboli, a sintassi e a stile migliori; il che era più conforme al gusto di una corte coltissima e a quello di un giovine imperadore, il quale conosceva tutte le delicatezze dell'attica eloquenza. Il che supposto, chiaramente veggonsi verificate entrambe le indicazioni e della Lettera e della Prefazione: perciocché da un lato sta che la vecchia scrittura fosse in lingua greca e rappresentata da caratteri punici o fenicj che si vogliano dire; e sta dall' altro lato che Nerone la facesse trasportare nella lingua greca più elegante.

Il quale mio ragionamento, se troppo non presumo, parmi poter trarre non mediocre probabilità dallo stile della stessa traduzione latina, ove si confronti colla ossatura del libro. Infatti, mentre questa presenta una certa brevità stringata, una semplicità lontana da ogni artifizio, un ritorno frequentissimo degli stessi modi ed una totale mancanza di forme alcun poco fine di transizioni e tutte queste cose intanto congiunte ad una certa forza, onde v'é un carattere manifestissimo di originalità e l'impronta di una età nella quale l'arte di concepire e disporre la materia che vuol trattarsi é ancora nella infanzia; il traduttore, o cedendo all'indole dell'autor suo, o volendo con riflessione avvicinarvisi, è venuto ad apporvi fraseggiamento e stile che dimostrano intenzione apertissima di averlo voluto ornare. Ed é forse questa la ragione per la quale valentissimi filologi sono iti in diversa sentenza, quando si é voluto fissare il tempo in cui più verisimilmente possa credersi che questa traduzione sia stata fatta. Imperciocché Sdoppio ha creduto che non sarebbe andato lontano dal vero chi avesse riferito lo stile di questa traduzione a Cornelio Nipote; od almeno lo sostiene della età in cui fiorirono Vellejo Patercolo, Valerio Massimo e Quinto Curzio, checche sia del guasto che mano d'ignoranti v'abbia poi fatto; mentre intanto chi pose Settimio nel secolo di Constantino venne a doverne paragonare lo stile a quello di Ammiano Marcellino; e a quello di autori più manierati chi lo pose in età posteriore. Non entrando nel mio proposito questa specie di esame, io mi asterrò dal dire ciò che di più verisimile penso potersi azzardare intorno a questo argomento. Dirò solamente che lo stile di Settimio non ha forme e tinte spontanee, quali sono proprie di ogni originale componimento; ma studiate e adattate ad un testo estraneo; e che esse più di ogni altra cosa possono confermare l'altissima antichità del testo a cui servono; giacché per una parte si sa che qualunque sia la mutazione di colorito che succede in un libro ove dalla sua originale favella si trasporti in un'altra, quando il traduttore non ne rovesci da capo a fondo tutto 1' andamento restano sempre visibilissime le traccie del primitivo e proprio suo carattere; e dell' altra si sa che lo stile di cui questa traduzione é ornata é lontanissimo da quello che veggiamo campeggiare ne' libri latini che furono scritti nell'ultima metà del secolo IV o nel V. Forse l'avere Darete frigio avuto meno studiati traduttori, quantunque passato dalla lingua fenicia nella greca e da questa nella latina, ha fatto che in esso sieno restate più manifeste le traccie dell' originale sua antichità. ... perciocché ognuno, che pur legga il testo latino che a noi rimane, vede a colpo d'occhio come da ogni parte traluce il carattere di un componimento appena abbozzato, quale veggiamo per avventura nelle più magre croniche de'tempi in cui e lingua e artifizio sono nel loro primo sbocciare. Né, se alla rozza corteccia e al semplicissimo andamento suo s'avesse a por mente senza alcun' altra considerazione, s' argomenterebbe lungi da quanto i principj di verisimiglianza somministrano, dicendo che la storia della Ruina di Troja di Darete frigio é opera di un qualche scrittore de' nostri tempi di mezzo.

È da credersi che a questa verisimiglianza sienosi attaccati quelli i quali pensarono che il libro, di cui prendiamo ora a ragionare, non oltrepassi di molto l'età di Vincenzo Bellovacense, il quale, credendolo opera genuina, ne fece un compendio inserito nel famoso suo Specchio del mondo. La quale opinione però quanto poco fondamento s'abbia, facilmente si comprende dal fatto attestato dal Mabillon (1), il quale dichiara aver veduto nella Biblioteca Laurenziana un codice di Darete frigio colle manifeste note d'essere stato scritto ottocento anni prima del tempo suo.

(1) Vedi il tomo I del Museo italico, pag. 169.

Ma se é provata per falsa la supposizione che il testo latino di Darete sia stato scritto poco prima di Vincenzo Bellovacense, quale fondamento mai può avere quella di chi ha pensato essere esso un compendio in prosa di un poema latino scritto in sei libri da certo inglese di nome Giuseppe Iscano sul finire del secolo XII o sul principio del XIII? Il che siccome non può per alcuna maniera ammettersi, essendosi per la testimonianza del Mabillon il testo latino del Darete più antico del poema dell'Iscano; meno irragionevolmente avrebbero quegli Eruditi detto che l'Iscano tolto aveva da Darete il fondo del suo poema.

Né però, perché conoscevasi tre buoni secoli prima di codesto Iscano il libro di Darete, credo io, che alcuno possa concludere essere esso l'opera di chi vivesse circa il mille, o tra quell'epoca e quella del V o VI secolo. Come mai in tali tempi vi sarebbero stati uomini capaci di sfogliare Omero, i Tragici, ed altri poeti e scoliasti greci per estrarre da essi, sia riferendo, sia alterando e mutando, tanta copia di cose? Una siffatta famigliarità é contraddetta dalla ignoranza di que'tempi, non meno che dal sistema delle opinioni che in essi dominava; e la rozzezza apparente in Darete é di tempi assai diversi da questi. Più. Se questo libro fosse stato scritto tra il V secolo e il X, come non se ne saprebbe l'autore o come gli scrittori che in quel giro fiorirono non ne avrebbero notato il fatto? E se é lungi da ogni inverisimiglianza che un cristiano avesse tolto a magnificare le vecchie cose de' Gentili, supponendosi opera di uno degli ultimi pagani, tanto più se ne sarebbe fatta menzione. Valgono tali considerazioni, tenuto il libro come scritto originalmente latino; e valgono egualmente, ed anche più, se si suppone scritto originalmente greco, giacché siamo ora per vederlo conosciuto in lingua greca.

Al quale proposito primieramente diremo come Eliano attesta essersi fino al suo tempo conservata l’Iliade frigia di Darete, vivido prima di Omero, come dice essere stati prima di Omero i poemi di Orebanzio Trezenio: la quale Iliade altro appunto non é che la Storia della ruina di Troja. E al pari di Eliano, di questa Iliade di Darete frigio parla Tolommeo Efestione; ed ambedue citano Antipatro Acanzio (1), scrittore antichissimo, ai quali possono aggiungersi Eusebio ed Eustazio. I frammenti della medesima trovansi presso Cedreno e presso altri Greci.

(1) Alcuni, fra i quali il Ricquio, hanno detto che Antipatro Acanzio fu uno di quelli i quali scrissero della Guerra trojana prima di Omero; e il Ricquio cita Fozio. Ma il Fabrizio riportando il passo di Fozio dimostra che Fozio attesta qualmente Darete scrisse prima di Omero alcune memorie sulla Guerra trojana, citando Antipatro, non che Antipatro fosse più antico di Omero.

Se Eliano chiami frigia l’Iliade di Darete perché Troja era in Frigia e colla ruina di Troja era distrutto anche il regno della Frigia o perché frigio era di nazione Darete o perché, come mostra di credere il Fabrizio, l'opera di Darete era scritta in lingua frigia, non é cosa facile il verificarlo. Quello che sembra assai probabile, si é che l'opera di Darete, la quale correva a' tempi di Eliano, fosse bensì in greco, ma che Darete non la scrivesse in greco, ch' era lingua straniera ad esso lui, come a tutti i popoli dai Greci chiamati Barbari, né abbastanza al tempo suo formata per poter avere acquistato un certo corso presso gli esteri. Altronde é noto che i Greci, quando furono giunti ad un certo grado di cultura, ebbero tradotte opere di scrittori egiziani, fenicj e frigj siccome fu di quelle di Manetone, di Sanconiatone e di Sarpedone, del quale abbiamo presso Plinio una lettera.

Del rimanente, se Antipatro Acanzio, se Eliano, se Tolommeo Efestione parlano di Darete frigio come di autore antichissimo, del quale conoscevasi il Diario della Guerra Trojana, uopo é avere per ben fondato il giudizio che di esso diede Isidoro nelle sue Origini, dicendo che egli presso i Gentili fu il primo storico e che scrisse la storia de' Greci e dei Trojani sopra foglie di palma. Forse Isidoro ebbe a ciò altri testimonj ancora, oltre quelli che noi abbiamo accennati; perciocché di autori greci e latini perduti niuno ornai più può immaginarsi il numero, dopo i tanti, dei quali ci rimangono i soli nomi, come presso i più rinomati bibliografi può ognuno vedere. Fu questo Darete, secondo che Omero medesimo accenna, sacerdote di Vulcano, del quale il poeta racconta che di due figliuoli da lui condotti a militare contro i Greci uno fu ucciso da Diomede, l'altro fu miracolosamente salvato al padre da Vulcano.

Quando dalla originale lingua in cui il libro di Darete fu scritto esso venisse trasportato nella greca, sarebbe vana cura il cercarlo. Egli è però probabile che prima di Omero i Greci che praticavano sulle coste dell' Asia conoscessero questa storia, e dalla lingua o frigia o fenicia o qualunque altra si fosse nella quale era stata scritta da Darete, la trasportassero nella loro, giacche essa illustrava meravigliosamente una delle loro più memorabili imprese. E così poté anch' essa servire ad Omero pe' suoi ammirabili poemi, i quali in seguito necessariamente dovevano poi farla dimenticare, siccome di quella di Ditti abbiamo osservato. Il qual testo o perduto interamente o smarrito che sia più non si conosce; sicché dobbiamo contentarci di averne alcuni tratti riportati da Cedreno e da altri Greci. Né perché poi Dione Grisostomo e Proclo e tale altro autore non fecero menzione d'esso, credo io che possa argomentarsi ragionevolmente che quel greco testo, di cui altri hanno parlato, s'abbia a riguardare per apocrifo, siccome piacque al Perizonio di dire. Imperciocché qual ragione v'é mai di far dipendere l'autenticità di un' opera dal parlarne o non parlarne che taluno n'abbia fatto, massimamente se altri n'abbiano renduta testimonianza, siccome appunto abbiamo dimostrato avverarsi di Darete? Così pure gratuitamente azzardata é da dirsi l'opinione e del Perizonio e di chiunque ha voluto asserire che il testo latino che abbiamo sia un compendio tratto da Omero, militando chiarissimamente in proposito di Darete le considerazioni che si sono fatte rispetto all'opera di Ditti, né rendendosi conto del perché il supposto falsario siasi con tanta apparenza di verisimiglianza allontanato in assai cose dalle narrazioni omeriane. Ed anche parlando di Darete  si presenta l'osservazione che molti Tragici antichi hanno detto d'uomini e di casi più conformemente a ciò che leggiamo in questo storico che a ciò che leggiamo in Omero, senza intanto che possa menomamente congetturarsi che od essi così fingessero ad arbitrio o da essi fosse ito a spigolare, abbandonando Omero, in qualunque pretendasi autore di questa istoria: così che ogni probabilità trovasi nel riconoscere per autentica l'opera di Darete; ed ogn'improbabilità é forza sostenere abbracciando qualsivoglia delle varie supposizioni fin qui fatte in contrario.

Il Mercierio, in una lettera premessa alle sue note sopra Ditti e diretta a Girolamo Grosfozio Lisleo, dice che Darete va quasi in ogni cosa contro a tutta 1' antichità; che poche cose verisimili reca del proprio; che moltissime di queste sono assurde, inconseguenti; e spezialmente nota quanto ha intromesso per compiere il famoso decennio, che concordemente é stato detto avere i Greci impiegato nella guerra di Troja. Questo erudito inoltre chiama insulsi que' caratteri de' capitani e delle donne sia di Troja sia di Grecia, simili ai quali composero i loro delirj gli scrittori greci degli ultimi tempi.

Io non dirò che se il Mercierio si fosse un momento solo immaginato che il libro di Darete fosse autentico, lo udremmo magnificare tutte le cose che ora riprova e dirci con molta erudizione le mille maraviglie di ciò che ora spietatamente discredita. Dirò piuttosto: ha egli badato alle differenze de'costumi, degli usi, delle opinioni, della scienza che necessariamente dee porsi tra gli uomini del tempo di Darete e quelli de' secoli posteriori? Eppure in Omero stesso veggiamo le prove di tale differenza, e su questa differenza giustifichiamo le antiche memorie di questo primo pittore. Né può dubitarsi punto che o prendansi i grandi riposi delle armate supposti da Darete o tutto il tempo dai Greci impiegato altrove che nell'assedio, i famosi dieci anni, che altri dissero avere durato codesta guerra, si ristringono poco più, poco meno che ad un anno di guerra veramente viva e locale. Né poi, concedendo al Mercierio tutto ciò che a lui é piaciuto dire delle poche cose verisimili ch'egli trova in Darete e delle moltissime assurde ed inconseguenti, del quale suo giudizio però gli si potrebbe con ragione domandare le debite prove; nulla ancora s'avrebbe di abbastanza concludente contro l'autenticità di questo libro, distinta essendo e diversa la causa di esso da quella delle cose che vengono in esso narrate. E finalmente per ciò che spetta ai caratteri che in questo libro leggiamo, qual ragione potrebbe mai avere il Mercierio per dimostrarli falsi? mentre intanto quelle che egli può avere per dirli non assai bene disegnati in quanto al modo potrebbero più opportunamente dimostrarne appunto 1' originalità?

Noi dobbiamo però far menzione di una questione, dalla quale parecchi Eruditi argomentano contro l'autenticità del Darete che abbiamo: nasce essa da una Lettera che corre sotto il nome di Cornelio Nipote, la quale quantunque per alcun tempo creduta autografa, più ragionevolmente dai buoni Critici si rigetta. Essa é indirizzata a Sallustio Crispo; ed é del tenore seguente.

« Mentre io mi viveva in Atene occupato di molte cose letterarie, mi capitò alle mani l'istoria di Darete frigio, scritta, siccome porta il titolo, da lui medesimo, il quale in essa ha lasciato a' posteri la memoria delle cose greche e trojane. Di tale avventura vivamente compiacendomi, io mi posi tosto a tradurla: nel che mi guardai di aggiungere o levar cosa alcuna, affinché non si pensasse mai ch'essa fosse un mio lavoro. E siccome essa é scritta con tutta l'aria di verità e di semplicità, parvemi cosa ottima il farla latina stando alla lettera, affinché chi legge, possa vedere in qual modo codeste cose sieno accadute e così giudicare se abbia a stimare più vero ciò che scrisse Darete frigio, il quale visse e militò in quel tempo in cui i Greci ruinarono Troja, oppure ciò che scrisse Omero, che nacque molti anni dopo quella guerra. De1 che in Atene fu giudicato già, essendosi ritenuto per un bel pazzo Omero, che rappresentò gli Dei guerreggianti cogli uomini. Ma di ciò basti ec. »

Or né lo stile di questa Lettera né quello del testo latino possono riguardarsi per proprii di Cornelio Nipote da chiunque abbia alcuna pratica di questo aureo scrittore; ed é a credere che nel ravvolgimento di tanti secoli d'ignoranza pe’ quali questo libro é passato, agli altri oltraggi ricevuti questo pure vi si sia aggiunto, di una intrusione della intestatura della medesima; potendosi presumere che uomini, i quali ne' secoli di mezzo perduto avevano ogni gusto di buona latinità, colpiti da certi modi semplici e forti nello stesso tempo, che in questo testo s'incontrano, abbiano veduto tra lo stile di esso e quello di Cornelio Nipote una certa affinità, la quale in nissuna maniera sussisteva; ed abbiano quindi autenticato il loro giudizio con quell' aggiunta. Né v'é a farsi meraviglia di ciò, dacché veggiamo il Volaterrano ed altri, che a migliore età appartenevano, essere caduti in questo errore. Io parlo poi della intrusione della intestatura e non della Lettera stessa, perciocché per le considerazioni testé fatte veggo più facile la prima che la seconda; e ciò senza che siavi bisogno di accusare di fraude chi mise in capo alla Lettera il nome di Cornelio Nipote. In quanto alla Lettera essa sta ottimamente, qualunque sia il traduttore latino, poiché per una parte nulla é più naturale che il rendere conto di un libro che si traduce, molto più se ha alcun aspetto di singolarità come certamente aveva questo; e poiché dall' altra parte nissuno, per ciò che a me sembra, farà fatica a riconoscere molta affinità tra lo stile della Lettera e quello della traduzione.

Del rimanente, dappoiché il testo latino di Darete non può attribuirsi a Cornelio Nipote, non però dee aversi tanto a vile da chiamarlo lutulento e barbaro e caduto dalla penna di qualche notajo o monaco ne'buj tempi della ignoranza, siccome lo chiamò l'iracondo Sdoppio. Imperciocché, ove ne sieno tolte qua e là certe brutture, che non possono supporsi native, ma che manifestamente sono opera de' copisti ignoranti, nulla vi s'incontrerà che non compongasi col carattere di una locuzione consentanea all' impronta originale di una scrittura antichissima. Io mi lusingo che ciò traspirerà almeno in parte anche dalla traduzione italiana che pubblico.

 

Riassumendo intanto il discorso sopra le due Storie che intorno alle Cose Trojane abbiamo di Ditti cretese e di Darete frigio, dico che le considerazioni premesse tolgono assolutamente che un uomo di buon senso le abbia come lavoro di falsari, i quali abusassero di que'nomi. Non però intendo dire ch' esse sieno giunte sino a noi ne'due testi latini che abbiamo quali furono originalmente; e che nel lungo corso de' secoli non abbiano sofferte variazioni di mille maniere. Io credo che un certo fondo di verità sia in esse, il quale invano cercherebbesi altronde; che questo sia misto a molte alterazioni; ma che ad onta di queste alterazioni abbiano a riguardarsi come documenti preziosissimi tramandatici dalla più rimota antichità, ne' quali il germe vero contiensi di quanto sotto cento aspetti diversi col volger dei tempi ci é stato esposto. E tanto più credo queste due storie apprezzabili quanto che per una felicissima combinazione racchiudendo una manifesta e naturale contrarietà di partiti ci somministrano materia di utili confronti. Imperciocché vedesi da una parte Ditti magnificare le cose de' Greci e proteggere la condotta di questi, ora a buon senso traendone gli atti, ora attenuandone o cambiandone la natura per ogni verso aggravare i Trojani; dall' altra parte Darete sostenere onestissimamente la causa de' Trojani, non dissimularne i torti e dare un aspetto alle loro opere, pel quale gli animi dei leggitori possono volgersi, come a giusta commiserazione, verso quella città e verso i suoi sciaguratissimi principi e capitani, così pure a confidenza benevola verso lo storico. Fra i quali due scrittori chi d'essi possa dirsi meno intento a sorprendere non è officio che io debba qui assumere, ciò non appartenendo al presente proposito e dovendosene lasciare libero il giudizio a chi leggerà l'una e 1' altra opera. Il che debbesi tanto più estendere all'esame de'fatti molte volte troppo diversamente raccontati dall' uno e dall' altro e spesso in maniera assolutamente contraddittoria. La qual cosa non può più far maraviglia, dacché noi che abbiamo vivuto in tempi d'importantissimi eventi e in mezzo a tanti sussidj di comunicazione, sulle cose e sulle persone che avevamo quasi sotto gli occhi sì frequenti differenze e contraddizioni abbiamo osservate nelle relazioni più autentiche.

Dirò piuttosto adunque che copioso argomento codeste due storie somministrano a chiunque voglia attentamente considerarle, per rilevare quali sieno in proposito di antichissime cose i veri elementi de'quali il buon criterio può giovarsi, ove alla cognizione de'fatti storici si proceda. Dirò che in mezzo alla grossa ruggine di cui codeste due tavole antichissime sono coperte qualche punto in esse riluce, che manifesta il metallo di cui sono fatte ed addita una ricchezza che purgandole e ripulendole possiamo scoprire con nostra utilità. Al qual effetto piacemi recar qui il pensiere di un moderno scrittore (1), che primo tra noi ha avuto l'ardimento di gittare i fondamenti della logica della storia.

(1) Vedi il libro intitolato: Sulla natura e necessità della scienza delle cose e delle storie umane. Saggio di Cataldo Jannelli. Napoli, 1817.

 

Neghiamo, dic'egli, che la Vita di Omero sia di Erodoto; che certi Inni, i quali portano il nome di Orfeo, fossero cantati o scritti da lui. Neghiamo che Ditti cretese e Darete frigio scrivessero le Troiane Cose. Neghiamo che restassero Libri di Beroso, di Megastene, di Manetone, quali Annio ci presenta. Assai bene, assai dottamente. Non determiniamo però che vagliano tali memorie e fin dove possano giovarci. Non definiamo solidamente se debbansi interamente rigettare o se vagliano ad alcun uso ed a quale. Questo è quello appunto che resta a farsi; e dee farsi necessariamente, perchè . . . è sì povera la Storia Antica, che non dee trascurarsi monumento o memoria che comunque le appartenga. Che se questo bell'ingegno non dubita di condurci alla cognizione della verità, supponendo screditati i fonti che accenna; a molto miglior ragione possiamo predicar noi la speranza consolante da esso lui espressa, dopo che abbiamo veduto quanta probabilità v'abbia in riguardare degni di giusto credito codesti monumenti antichissimi.

Con ragione adunque le storie di Ditti cretese e di Darete frigio vengono collocate in fronte alla Collana, che or s'intraprende, degli antichi Storici greci volgarizzati; poiché essi soli ci prestano gli elementi primi del memorabil fatto da cui partono tutte le storie successive e ci chiamano a sentire la necessità di trovare un principio stabile e riconosciuto per istabilire quella qualunque siasi verità dell' antica storia. Certo é che le considerazioni alle quali codeste due opere ci chiamano naturalmente ci serviranno con grande vantaggio nel leggere le storie susseguenti, nelle quali, quantunque scritte in più felici tempi, non mancano argomenti di oscurità, d'incoerenze, d'irnprobabilità. Ditti e Darete, privi d'ogni artifizio, non giunsero a velare le secrete passioni, se n'ebbero, e dipingono gli uomini della loro età quali li videro, impetuosi, violenti, arditi sino alla temerità e nel tempo stesso semplici ed incivili appena tanto da non essere più selvaggi. Tali dipingerebbeli con sottilissima arte il pennello del filosofo che seguisse la ragione delle cose e non le abitudini del suo secolo. Plutarco, l'austero Plutarco doveva alla storia sostituire il romanzo quando voleva parlare di Teseo, di Romolo e di Numa. Questa é la conseguenza de' progressi dell' incivilimento sociale. Ogni grado di lindura che mettasi nel rappresentare la figura di cosa antica diventa una specie d' intonacamento inopportuno che va a celarne i veri suoi tratti.

 

Io desidero, Veneràtissimo sig. Conte , che Voi possiate trovare non destitute affatto di una certa probabilità codeste mie considerazioni.

Parlo di probabilità, non d' altro; perciocché Voi pel primo comprendete che ove trattasi di cose storiche non altro titolo possono esse pretendere alla nostra fede, che quello che i principj di probabilità concedono. Che é mai la certezza in questa materia? Noi medesimi, che dei fatti nostri abbiamo coscienza, il che é il fonte massimo e solo della vera certezza, siamo soventi volte costretti a rimetterci alla pura probabilità, se lunghi intervalli e rotte reminiscenze vengano ad allontanarci troppo dai tempi in cui que' fatti nostri succedettero. Ma ho detto forse anche troppo di quanto appartiene a Ditti e a Darete.

Dovrei aggiungere qualche cosa sulla mia traduzione, e sui motivi pe' quali ho creduto doversi abbandonare quella del Porcacchi; ma il confronto che ad altri piaccia fare di entrambe dirà più di quello che per avventura a me convenisse dire. Pongo adunque fine alla mia lettera.

 

 

 

 

 

 

DELLA GUERRA TROJANA

SCRITTA

DA DITTI CRETESE

 

LIBRO PRIMO

 

Capitolo Primo

Come i Principi greci, parenti di Creteo, figliuolo di Minosse, si radunarono in Creta , per dividere la eredita del medesimo,

Tutti i re pronipoti di Minosse, figliuol di Giove, i quali avevano stato in Grecia, radunaronsi in Creta per divider tra loro i beni di Creteo(1); perciocché questi, che fu figliuolo di Minosse, ordinato avea per testamento che quanto alla morte gli si trovasse d' oro, di argento e di bestiame fosse a porzioni eguali spartito tra i figli delle sue figlie; da tale disposizione eccettuando però le città e le terre da esso lui signoreggiate: che di queste chiamò erede Idomeneo(2). Si trovarono dunque a questo effetto in Creta Palamede ed Eace, figliuoli di Climene moglie di Nauplio, detti Creteidi, e Menelao figliuolo di Eropa e di Plistene, il quale intervenne non solamente per sé, ma eziandio per Anassibia(3) sua sorella, già sposa di Nestore, e per Agamennone, fratel suo maggiore; che l’una e l'altro di tanto lo avevano incaricato. Egli é però da avvertire che codesti due fratelli chiamavansi Atridi, o figliuoli di Atreo, benché fossero stati procreati da Plistene; e ciò perché essendo Plistene loro vero padre morto ne' primi anni della sua gioventù, niun nome aveva lasciato per impresa che l' avesse potuto distinguere. Per lo che Atreo mosso a pietà di quei fanciulli orfani li raccolse e fece dar loro educazione regale. Or tutti in questo incontro si comportarono magnificamente, secondo che la celebrità del loro nome voleva.

(1) Le vecchie edizioni sulla fede di manoscritti corrotti portano Atreo, che non v'ha nulla che fare. In Diodoro é Creteo. (2) Quasi tutti i testi portano Idomeneo con Merione di Deucalione, Idomeneo secondo di Molo. Questa é lezione erronea. In nissun luogo trovasi che Merione abbia avuto parte con Idomeneo nel regno di Creta. Merione era figlio di un bastardo di Deucalione, e come in niun modo apparisce che Deucalione abbia mai avuto alcun figlio di nome Nothos(bastardo), ma che questo epiteto in Apollodoro debbesi unire a Molos, come a dire Molo bastardo, ne viene, che non possa ammettersi, che abbia avuto parte nel regno di Creta con Idomeneo né Merione suo nipote procedente da un bastardo, né Idomeneo di Molo, avente la stessa irregolarità: tanto più, che si sa, che Merione fu figlio di Molo, ma non si conosce punto un secondo Idomeneo figlio dello stesso Molo. Del resto sarà bene avvertire, che Creteo ebbe un figlio di nome Achemene, a cui avrebbe dovuto devolversi il regno: ma come di lui l'oracolo aveva presagito, che dovesse ammazzare suo padre, abbandonò di buon'ora Creta, e andò a Rodi. Colà poi essendosi, divenuto vecchio, portato Creteo con molti de' suoi per ricondurre a casa il figlio e dargli il regno, accadde che sbarcato in certa parte deserta dell' isola, i pastori e villani, credendo che codesti fossero ladroni, si fecero contro alla turba per respingerla, né tra il tumulto delle armi e il latrare de'cani pota Creteo essere udito, che gridava essere il padre di Achemene. Anzi sopraggiunto questi, e ingannato dalla voce precorsa, con un colpo di dardo uccise Creteo. Conosciuto poscia il suo fallo, ne bestemmiò gli dei, e fu inghiottito vivo dalla terra cha se gli spalancò sotto i piedi. (Ved. Apollodoro.) (3) In molti testi vien detta Anassìbea o Anassimene ma si rigetta tal nome per molti passi di altri scrittori.

 

Capitolo II.

Come i parenti di Europa fecero ai Principi greci eredi di Creteo un gran trattamento.

Saputosi di questo congresso vennero a loro tutti quelli del parentado di Europa, la quale in quell' isola era con molta religione venerata; e benignamente complimentandoli gl' introdussero nel tempio, in cui fatto sacrifizio di molte vittime secondo l'uso del paese ed apprestato gran banchetto, diedero loro largo e magnifico trattamento: e così fecero per molti giorni. Ma i re della Grecia, quantunque assai si mostrassero lieti di quanto con sì nobile splendidezza usavasi loro, molto più erano colpiti dalla bellezza del maestoso tempio e dalla preziosità de' materiali in esso impiegati e dai lavori che lo distinguevano, veggendo co' proprii occhi come udito aveano dianzi tutte le belle cose state mandate per adornarlo da Sidone, tanto per parte di Fenice(1) padre di Europa, quanto per parte delle nobilissime matrone di quella città.

(1) Notisi, che quantunque molti abbiano dato ad Europa per padre Agenore, non manca però per testimonianza di Apollodoro chi le abbia dato Fenice.

 

Capitolo III.

Come Alessandro(1), figlio di Priamo, re di Troja, capitato a Sparta, portò via Elena.

Fu in quel tempo che capitato a Sparta il frigio Alessandro, figliuolo di Priamo, in compagnia di Enea e d'altri suoi parenti ed accolto ospite in casa di Menelao commise l'indegnissimo fallo che andiamo a dire. Imperciocché costui, veduto il re essere assente ed Elena(2), moglie di lui, di singolar bellezza sopra tutte quante le greche donne, a un tratto se ne innamorò; e portò via lei dalla casa e con lei molta roba, insieme con Etra e Climene(3), cugine di Menelao e conviventi con Elena. Del qual fatto giunta la nuova in Creta con tutte le circostanze che l'avevano accompagnato, presto dappertutto si diffuse e come in tali accidenti suol essere si amplificò e si esagerò oltre il vero. Perciocché si disse, essere stata espugnata la reggia e il regno rovesciato e tali altre cose, che a capriccio suo ognuno aggiungeva.

 (1) Questi é quegli che più comunemente fu detto Paride. (2) Non sarà discaro udire qualche testimonianza della bellezza di Elena. Darete Frigio la dice simile ai Dioscuri, di belle forme, di schietto animo, piacevolissima, con un neo in mezzo alle sopracciglia, di piccolissima bocca. Cedreno la dipinge slanciata, popputa, più candida della neve, ornata di belle sopracciglia, di naso ben forviato, di capegli increspati e biondi, di occhi grandi. Costantino Manasse la descrive più copiosamente e i nostri leggitori vedranno se abbiano a tenerlo per valente pittore. Era, dic'egli , di forme perfettamente ben falte, di belle sopracciglia ed inarcate, grassona, di belle gote, di aspetto onesto, di grandi occhi, più bianca della neve, delicata, una selva di grazie, di braccia bianche, dedita ai piaceri, spirante vezzi, di faccia candida e grata, di gote del color di rosa , senza belletto, distingueva la sua bianchezza un rosso di rose, come se alcuno mescesse all’avorio la splendente porpora. E candidissimo era il lungo suo collo, onde fu detta generata dal cigno. (3) Igino in vece di Climene pone Fisadia; e dice che queste due donne, la prima madre di Teseo, e la seconda sorella di Piritoo, di regine, ch'erano prima, furono da Castore e Polluce fatte schiave, e donate ad Elena loro sorella. Ecco la genealogia di queste donne. Etra fu figliuola di Piteo, Piteo fu figliuolo di Pelope, e fratello di Atreo; Atreo poi fu padre di Plistene, del quale Menelao fu figliuolo. Di Clìmene non si sa nulla; ma se essa é Pisadia, sorella di Piritoo, era cugina di Menelao anch' essa, sebbene di grado più remoto, giacché Menelao ed Issione, padre di Pisadia, erano cugini in quarto grado. Si è ridotto il vero senso del testo latino coll' ajuto del greco riportato dal Malala.

 

Capitolo IV.

Come i Principi greci sul fatto di Alessandro si radunarono a Sparta, e mandarono Ambasciadori a Priamo per riavere Elena.

All'udire le cose avvenute Menelao quantunque molto si dolesse della perduta moglie, più dolente mostrossi della ingiuria che gli veniva per le sue cugine; e massimamente per Etra da lui tenuta sempre in concetto di donna casta e buona. Ed intanto Palamede vedendo come per lo sdegno e la collera Menelao era fuori di sè, ed incapace di prender partito, mise in ordine le navi, provvedendo a quanto occorreva, e le fece accostare alla riva. Quindi con poche parole consolato il re, come la circostanza comportava, ed ogni cosa imbarcata, che loro era toccata nella divisione, lo fece montare in nave; e in pochi giorni con favorevol vento furono a Sparta. Colà erano già arrivati, spinti dal saputo fatto,  Agamennone e Nestore e tutti quelli che della stirpe di Pelope regnavano in Grecia: i quali, udito il ritorno di Menelao, furono tutti a lui, tenendo consiglio intorno a ciò che dovesse farsi. Nel che, quantunque l'atrocità della cosa e il desiderio della vendetta fortemente gli animasse, pur di comune accordo stabilirono di spedir prima ambasciadori a Troja Palamede, Ulisse e Menelao stesso, con commissione che fatta doglianza della ingiuria domandassero Elena e quanto con essa era stato portato via (1).

(1) Si è detto da molti scrittori amichi che Ulisse non .voleva accettare questa missione, e che a tal fine si finse matto, facendosi trovare in atto di seminar del sale con un aratro a cui aveva attaccato un cavallo e un bue: e che Palamede mise d'innanzi all'aratro Telemaco, per vedere se Ulisse fosse passato sul corpo di esso. Il che però non fue: e così la sua finzione si scoprì, ed egli andò a Troja.

 

Capitolo V.

Come in questo mezzo Alessandro sbarcato a Sidone ammazzò il re Fenice di quella città, e involò le cose più preziose del medesimo.

Gli ambasciadori in pochi giorni giunsero a Troja, ma non vi trovarono Alessandro. Imperciocché costui navigando sollecito si lasciò dal vento condurre a Cipro, d'onde prese altre navi andò a Fenice, re di Sidone, che amichevolmente lo accolse. Ma egli la notte l'uccise a tradimento; e come fatto aveva in Isparta, per somma cupidigia mise a ruba il palazzo, indegnamente togliendone ogni più prezioso arredo e mandandone tutto alle navi. Se non che per 1' alte grida di quelli che piangevano il morto signore e per la fuga degli altri scampati alla strage, il popolo alzatosi corse alla reggia; e perché Alessandro s' affrettava di guadagnare le navi colle cose rubate gli abitanti prese le armi presto gli furono dietro; ed aspra zuffa s'incominciò, nella quale molti dall' una parte e dall' altra ebbero a soccombere, questi ostinatamente cercando di vendicare il re, quelli di mettere in sicuro la preda. Fatto é, che due navi de' Trojani restarono incendiate; le altre furono con grande coraggio difese; e stancati dal lungo combattere i Sidonii, gli altri poterono fuggire.

 

Capitolo VI

Come il re Priamo diede la prima udienza agli Ambasciadori greci.

In questo mezzo Palamede(1), uno degli ambasciadori in Troja, il cui sapere in que' tempi così in pace  come in guerra era molto considerato, andò a Priamo e in pien consiglio si lamentò della ingiuria da Alessandro commessa in Isparta, facendo sentire come rotte avea le leggi della ospitalità comune. Indi accennò quanta discordia per tal fatto andavasi a suscitare fra i due regni; ricordando anche quelle(2), che state erano fra Ilo e Pelope, e quelle pur d' altri, le quali per cagioni simili avevano dappertutto recato ammazzamenti e ruine. Oltre ciò ragionando delle difficoltà della guerra e de'comodi della pace, disse non ignorare quanti per sì atroce misfatto sarebbonsi mossi a giusto sdegno: onde gli autori di tali iniquità abbandonati da tutti avrebbono infine pagato il fio di loro scelleraggine. E seguitando a dire altre cose, Priamo sul più bello del ragionare lo interruppe, dicendogli che fosse più moderato: perciocché non é onesta cosa l'accusare un assente, il quale, se presente fosse, potrebbe intorno agli opposti delitti discolparsi. Colle quali e simili considerazioni Priamo stabilì che ogni querela si differisse fino all' arrivo di Alessandro. Il che principalmente egli fece veggendo come tutti del suo consiglio al discorso di Palamede meravigliosamente chiaro e calzante e a pietà con somma forza movente gli animi, anche tacendo, coi sembianti mostravano di condannare il misfatto. Fu dunque per quel giorno sciolto il consiglio. E intanto Antenore, uomo ospitale e sopra gli altri amico del bene e dell' onesto, condusse seco que' forestieri  che di buona voglia accettarono l' invito suo.

(1) Gli antichi hanno attribuito a Palamede l'invenzione di alcune lettere dell'alfabeto, la scienza de' numeri, de' pesi e delle misure ed hanno aggiunto che inventasse pe' soldati, onde nell' ozio non si corrompessero, il giuoco degli scacchi, che probabilmente imparò da qualche orientale. A lui si attribuisce l'arte di ordinare la milizia, l'invenzione delle .sentinelle e la parola d'ordine.(2) Le prime discordie, che qui si accennano, nacquero dal ratto che Tantalo, padre di Pelope, fece di Ganimede, come Suida e Cedreno suppongono, dall' avere Tantalo arrestato e fatto morir prigione Ganimede sotto pretesto che fosse un emissario mandato in Grecia da Troo. Le altre più antiche furono quelle da' Lapiti e dei Centauri per ratto di mogli. Così Ida e Linceo pugnarono contro Castore e Polluce pel ratto di Febe e d'Ilera.

 

Capitolo VII.

Come Alessandro ritornò a Troja, e del consiglio, che il re Priamo ebbe co' suoi figliuoli.

Né poi tardò molto a ritornare Alessandro co' suoi compagni e con Elena. All' arrivo del quale tutta la città si levò a rumore, detestando gli uni sì mal esempio d' iniquità, dolenti gli altri di sì grande ingiuria fatta a Menelao: niuno essendovi che approvasse il fatto; e tutti infine mostrandosene sdegnati. Per le quali cose contristato Priamo chiamò a sé i figliuoli, e loro domandò cosa in tal frangente credessero doversi fare. Ma costoro ad una sola voce risposero, Elena non doversi restituire: perciocché vedevano quante ricchezze si fossero portate con esso lei, le quali tutte, se essa fosse consegnata ai Greci, necessariamente sarebbero andate perdute. Si aggiunga inoltre , che s' eran già commossi per la beltà delle donne venute con Elena, a tal che ciascheduno aveva già seco stesso conceputo il pensiere di sposarne alcuna; come coloro, che barbari di lingua e di costumi, operando inconsideratamente, lasciavansi acciecare dall' avarizia  e dalla libidine.

 

Capitolo VIII.

Come il re Priamo consultò i vecchi del suo regno; e dei disordini, che nacquero nella città.

Priamo però non fu pago del divisamento de' figliuoli; e perciò chiamò i vecchi a consulta e loro espose ciò che quelli pensavano, richiedendogli del parer loro. Ma prima che i vecchi proferito avessero, conforme l'uso, i proprj sentimenti, ecco improvvisamente i figliuoli del re entrar dentro con furia e con ogni mal garbo minacciare ognuno, se diversamente si deliberasse da quanto essi avevano dimostrato. Tutto il popolo intanto a chiara voce biasimava l'ingiuria indegnamente fatta; e da ciò prendeva occasione di gridare e bestemmiare per altre cattive opere di que' principi. Per la qual cosa acciecato dalle sue passioni Alessandro e temendo che da' popolani gli venisse oltraggio, accompagnato da' suoi fratelli tutti armati diede addosso alla moltitudine ed ammazzò parecchi. Gli altri furono salvi per essersi messi di mezzo i maggiorenti del consiglio con alla testa Antenore. Così il popolo senza nessun effetto col male e le beffe si ritirò.

 

Capitolo IX.

Come il re Priamo visitando Elena intese da lei la parentela sua con lui e con Ecuba; e come Elena se gli raccomandò.

Il dì seguente ad insinuazione di Ecuba il re andò a trovare Elena e benignamente salutatala le disse di star di buon animo: poi le dimandò chi fosse e di che famiglia. Alla quale richiesta ella rispose essere parente di Alessandro e per sangue appartenere più a Priamo e ad Ecuba che ai figliuoli di Plistene. E qui venne tessendo la genealogia (1) de' suoi maggiori: imperciocché espose come Danao ed Agenore erano autori del casato suo e di quello di Priamo: che da Pleiona figliuola di Danao e da Atlante nata era Elettra, la quale ingravidata per opera di Giove partorito avea Dardano, che da questo poi era venuto Troe, e in seguito gli altri re d' Ilio. Di Agenore era nata Taigeta, la quale avea avuto da Giove Lacedemone, padre di Amicla, e da questo era nato Argalo padre di Ebalo, che sapevasi essere padre di Tindaro, dal quale credevasi essa generata. Ed aveva inoltre parentela per parte della madre con Ecuba(2); posciaché Fenice figliuolo di Agenore, e Dima padre di Ecuba, e Tindaro padre di Leda, avevano comune l'origine della consanguinità. Come ciò ebbe ordinatamente esposto, incominciò a piangere ed a pregare che avendola una volta accettata nella loro fede non volessero pensar di tradirla: che della casa di Menelao tolto non aveva che quanto era suo. Non era però ben manifesto se così ella si raccomandasse punta da vivo amore per Alessandro, o veramente timorosa di ciò che far le potesse il marito per averne abbandonata la casa.

(1) La genealogia, di cui si tratta, é la seguente. Nettuno di Libia generò Belo ed Agenore: Belo generò Danao; e cosi Agenore fu aio di Danao. Ditti poi procede come siegue: Agenore generò Pleiona, madre di Taigeta, madre di Elettra, madre di Lacedemone, padre di Dardano, padre di Amicla, padre di Erittonio, padre di Argalo, padre di Troo, padre d' Ebalo, padre di Ilo, padre di Tindaro, padre di Elena. Laomedonte, padre di Priamo, padre di Alessandro, ossia Paride. Da ciò apparisce che la parentela tra Paride ed Elena era assai lontana. Si osserva da alcuni che in questa genealogia Ditti si discosta da tutti gli altri scrittori, facendo Pleiona figliuola di Danao, quando altri la fanno figliuola di Oceano, e Taigeta figliuola di Agenore, quando altri la fanno di Atlante; e facendo Ebalo figliuolo di Argalo. (2) Si é seguita in questo passo la fede di alcuni MS. che presentano meglio il pensiero dell'A. Così dimostrandosi chiaramente che i genitori di Ecuba e di Leda traevano origine dai posteri di Agenore. Dima padre di Ecuba traeva i natali dai discendenti di Fenice; ma non si sa per quali antenati. Cedreno solo ne ha parlato dicendolo proveniente dai posteri di Danao: e seguendo quest' autore Ecuba ed Elena sarebbero state parenti dal lato di madre quanto lo erano da quello del padre.

 

Capitolo X.

Come Ecuba muove Priamo e i figliuoli a favore di Elena; e come Elena dichiarò in pubblico concilio di non voler ritornar a casa, né esser moglie di Menelao.

Quando Ecuba ebbe intesa la risoluzione di Elena e la parentela ch'era tra loro, teneramente abbracciolla, confortandola; poi con ogni mezzo cercò che non fosse tradita. Nel che tanto più si adoperò, veggendo che Priamo e i figli del re per la più parte incominciavano ad inclinare per una soddisfazione agli ambasciadori, e a non ostinarsi a resistere alla volontà del popolo.

Deifobo però (e in ciò era solo) sosteneva gl' impegni di Ecuba, perciocché al pari di Alessandro essendo innamorato di Elena lasciavasi trasportare dalla passione. Ed Ecuba intanto ferma nel proposito, or Priamo scongiurava, ora i figli, non risparmiando né abbracciamenti, né preghiere, sinché li ebbe tutti al voler suo. E per tale maniera, per dar mente a quella donna, si sacrificò il ben pubblico. Intanto il dì seguente Menelao co'suoi compagni si presentò d'innanzi al consiglio generale, domandando di nuovo che gli venisse restituita la moglie e la roba sua; al che Priamo seduto in mezzo a' suoi figliuoli, fatto fare silenzio, propose che Elena decidesse di sé per girsene o restare, secondo che più le piacesse, avendola a tale effetto fatta venire al cospetto dell' universo popolo. La quale parlando, vuolsi che dicesse apertamente non voler ritornare alla patria né saper nulla di matrimonio con Menelao. I principi, figli di Priamo, inteso ciò e sicuri di Elena, partironsi lieti dall' assemblea.

 

Capitolo XI.

Come gli Ambasciadori greci sono licenziati dal re: come i figliuoli del re pensano di ammazzarli a tradimento , e come Antenore li salva.

Allora Ulisse, più per modo di protesta che perché sperasse alcun buono effetto dal suo parlare, riepilogò le indegne azioni di Alessandro contro la Grecia, per le quali pronosticò che in breve sconterebbe le debite pene. Menelao poi pieno d'ira e con atroce volto minacciando ruine uscì del concilio. Il che riferito ai figliuoli di Priamo, essi di nascosto complottarono tra loro di ammazzare insidiosamente gli ambasciadori, persuasi, come di fatto avvenne poi, che se costoro fossero ritornati al paese senza avere ottenuto quanto volevano, sarebbesi contro Troja eccitata funestissima guerra. Ma Antenore, del cui buon carattere si é parlato già, andò al re Priamo e si querelò della congiura, altamente dicendo che non contro gli ambasciadori, ma contro sé stesso facevasi il tradimento; e che non avrebbe sofferta tale indegnità. E poco dopo significò agli ambasciadori la cosa; e prese buone misure, con grossa scorta, quando gli parve tempo opportuno, li mandò via.

 

Capitolo XII.

Come i Principi greci uniti a parlamento, udendo la relazione degli Ambasciadori, propongono di far guerra a Troja.

Mentre queste cose accadevano in Troja, sparsa già dappertutta la Grecia la notizia de' fatti, si radunarono insieme tutti i principi del casato di Pelope e con giuramento stipularono che se non fosse restituita Elena e quanto con essa era stato portato via, farebbero tutti d'accordo la guerra a Priamo. Intanto gli ambasciadori arrivano a Sparta e danno conto di Elena e della deliberazione sua, siccome avevano udito: poi aggiungono quello che detto e fatto contro essi avevano Priamo e i figliuoli e grandemente commendarono la fede di Antenore. Le quali cose udite da quei principi, si ordinò che ognuno avesse ad allestire nelle sue terre e giurisdizioni quanto occorreva per la guerra; e di comun consiglio per opportuno luogo a nuovo congresso e alla trattazione degli apparecchi ulteriori, venne destinata la città di Argo, sede del regno di Diomede(1).

(1) Diomede non era che semplice luogotenente, o governatore d'Argo. Il re d'Argo era Agamennone,.

 

Capitolo XIII.

Come da tutte le parti della Grecia vennero in Argo i varj Principi della stirpe di Pelope.

Venuto il tempo del congresso, di cui si é parlato, il primo a comparire fu Ajace Telamonio, famoso in guerra per valore e per robustezza di corpo; il quale menò seco Teucro suo fratello(1).Non molto dopo sopraggiunsero Idomeneo e Merione, grandi amici fra loro. Con costoro venuto io scrissi quanto più diligentemente potei le cose innanzi seguite a Troja, secondo che le seppi da Ulisse; e così verrò con tutta veracità esponendo le succedute dopo, come colui, che fu ad esse presente. Dico adunque, che dietro i già nominati vennero e Nestore con Antiloco e Trasimede, avuti da Anassibia, e Peneleo (2) con Clonio e Archesilao, suoi parenti, e Protenore e Leito, principi di Beozia; e Schedio ed Epistrofo, della Focide; ed Ascalafo e Ialmeno di Orcomene; e Diore e Mege, figliuolo di Amarunceo il primo e di Fileo il secondo: poi Toante di Andremone, Euripilo di Evemone, e Ormenio, e Leonteo.

(1) Teucro era fratello di Ajace soltanto dal lato del padre; giacché Ajace nacque di Peribea e Teucro di Esione. (2) Peneleo fu figliuolo d’lpparco e di Asterope.Ctonio fu figliuola di Lacreto e di Cleobula, Archesìlao fu figliuolo di Lieo e di Teobula. Diodoro lo chiama Archiloco, ed Omero lo chiama Arcilico. Igino fa Prote- nore fratello di Archesilao. Leito fu figliuolo di Aletrione e di Cleobula. Omero ha suppotoi principi di Beozia non solo Prrotenore e Leito , ma eziandio Archesilao, Ctonio e Peneleo. Schedio ed Epistrofo furono figliuoli di Naubolida e d' Ippolita. Ascatafo e Jalmeno furono figliuoli di Marte e di Astioca. Leonico ebbe per padre Corono, che Omero disse figliuolo di Ceneo.

 

Capitolo XIV.

Come vennero al congresso d’ Argo altri principi della stessa stirpe.

Dopo tutti questi giunse Achille(1), figliuolo di Peleo e di Tetide(2), la quale dicevasi nata da Chirone e Fidippo, e Antifo, distinti per isplendore d' armi, come quelli che avevano Ercole per avo: poi Protesilao, figliuolo d'Ificlo, e Podarco suo fratello; e appresso Eumelo fereo, il cui padre Admeto fu famoso per la moglie, che si contentò di morire in vece sua; e Podalirio  e Macaone di Trica, figli di Esculapio, i quali furono chiamati a questa guerra per la eccellenza loro nell'arte medica. Quindi venne Filottete(3) figliuol di Peante, che, stato compagno d'Ercole, dopo che questi partì dal mondo, ebbe dagl'Iddii a premio della sua industria le saette fatali; e vennero da Sime Nireo il bello, Mnesteo da Atene, e Ajace di Oileo da Locri; come vennero da Argo Amfiloco di Amfiarao, e Stenelo di Capaneo; e con questi Eurialo di Mecisteo; e dalla Etolia Tessandro di Polinice; e in ultimo Demofonte ed Acama, tutti discendenti di Pelope. Né però tutti questi furono i soli: imperocché molti altri, o del seguito de' re, o re, o principi anch'essi, vennero da' loro paesi; i nomi de' quali non é affatto necessario qui aggiungere specificatamente.

(1). Era Achille fin da primi anni della gioventù grande di persona, bello d' aspetto, e sin d' allora superava tutti per virtù e gloria militare. Era però inconsiderato alquanto, e di una certa brutale intolleranza. A lui erano accompagnati Patroclo e Fenice (a); il primo suo stretto amico, il secondo suo maestro e guardiano. A questi vennero dietro Tlepolemo (b) , ed Eutrafate. (2) La stessa cosa conferma Ditti nel libro VI. e si trova asserita anche dallo Scoliaste di Apollonio al libro I. dell' Argonautica. Altri hanno detto che Achille nacque, non da Tetide, ma da Filomena figliuola di Attore. (3) La madre di Filottete, secondo Igino, fu Demonassa. Madama Dacerr , ricordando che Filottete ebbe quesle saette da Ercole in premio di avergli acceso il rogo, rigetta Ditti, quasi che l'una e I'altra cosa non possano combinarsi insieme.

(a) Patroclo fu figliuolo di Menezio e di Stenda; e Fenice fu figliuolo di Amintore: il nome della madre s'ignora. Patroclo era parente di Achille, perché Attore ebbe Menezio da Egina, la quale prima aveva partorito Eaco da Jone. Ora da Eaco nacque Peleo, padre di Achille. Eaco dunque e Menezio erano fratelli uterini, e Peleo e Patroclo cugini. Altri suppongono Peleo e Menezio fratelli,. e in tal caso Achille e Patroclo sarebbero stati cugini tra loro.(b) Tlepolemo fu figliuolo, secondo che dice Omero, di Ercole e di Antioca. Protesilao ebbe per madre, secondo Eustazio ed Igino, Diomedea, che Apollodoro chiama Automedusa. Dicesi che Protesilao prendesse questo nome per essere sbarcato il primo a Troja, innanzi chiamandosi Jolito. Eumelo fu detto fereo da Fera, città di Tessaglia.

(a) Oileo fu figliuolo di Caropo e di Aliale. Mnesteo da Omero é detto Mnestreo, figliuolo di Teseo. Omero non fa menzione veruna di Amfiloco tra quelli che andarono a Troja. Stenelo fu figliuolo di Capaneo e di Evadne. Omero fa Eurialo compagno di Diomede e di Stenelo. Omero non parla di Tessandro; ma ne parla Igino fra quelli che andarono nel cavallo trojano. Demofonte ed Acama furono figliuoli di Teseo e di Fedra: di essi Onero non parla; ma ne parlano Plutarco, Pausania, Euripide, Quinto Calabro, Trifiodoro ed altri. Madama Dacier riprende Ditti perche dice che tutti questi capitani erano della stirpe di Pelope, cosa contraddetta da Apollodoro, da Igino e da altri. Potrebbe essere che Ditti avesse parlato sccoudo le pretensioni: e potrebbe essere che nel testo sia incorso in errore e dicesse non tutti, ma quasi tutti, o cosa simile.

 

Capitolo XV.

Come giunge al congresso Agamennone; e con che cerimonia si fa giuramento d’ avere per nemico Priamo e di distruggere Troja  e il suo regno.

Ora essendo tutti venuti in Argo, Diomede li accolse quanti erano in casa sua e somministrò loro le cose necessarie, intanto che giunse da Micene Agamennone, recando grossa somma d' oro che distribuì a ciascheduno: il che accrebbe in essi l'animo per la guerra. Ma, onde tenersi vieppiù fermi nel proposto d'impegnarli nella impresa, fu d'accordo pattuito che si farebbe solenne giuramento in questa guisa. Calcante indovino, figliuolo di Testore, ordinò che si conducesse in mezzo alla piazza un porco; poi, tagliato questo in due parti, una ne voltò all'oriente e l'altra all'occidente, facendo che ciascuno, snudate le spade, vi passasse tra mezzo; indi bagnate nel sangue dell' animale le punte delle spade e fatte alcune altre cerimonie necessarie al rito, giurarono tutti con sacramento d' esser nemici a Priamo e di non mai cessar della guerra fintanto che Ilio e tutto il suo regno non fossero distrutti. Appresso purificaronsi, cercando di rendersi propizii con molti sacrifici Marte  e la Concordia.

 

Capitolo XVI.

Come tutti i principi greci nominano comandante supremo della spedizione Agamennone.

A questa cerimonia un'altra si aggiunge, congregandosi tutti nel tempio di Giunone argiva per nominare il supremo comandante della spedizione. Al qual effetto, avendo ognuno una tavoletta(1) , su cui scrivere il nome di colui nel quale egli avesse più fede, venne con caratteri punici scritto quello di Agamennone. Ed ecco come per consenso comune e con grandi sbattimenti di mani e con evviva, Agamennone prese in sé la direzione della guerra e dell' esercito. E gli fu dato meritamente questo incarico, sì perché era fratello di colui a contemplazione del quale s'intraprendeva la guerra, come perché fra tutti gli altri re della Grecia a cagione delle sue ricchezze era grande e famoso.

Nominato lui comandante supremo, furono destinati a capitani e prefetti delle navi Achille, Ajace e Fenice. All'esercito campestre fu preposto Palamede insieme con Diomede e con Ulisse, onde dividessero fra loro gli officj e le guardie del dì e della notte. Disposte queste cose, ciascuno ritornò al proprio paese per mettersi in punto di robe e di istrumenti all' uopo. E già tutta la Grecia sonava guerra; ed armi e lancie e cavalli e navi s'allestivano dappertutto; né altro fecesi per due anni; mentre la gioventù, parte per impulso spontaneo, parte per l' esempio de' compagni, desiderosa d'acquistar gloria, movevasi al servizio militare. Ma ciò che in ispezial modo occupava tutti era l’ immenso fabbricar navi, onde in tanta massa d' armati, quando tutti fossero raccolti insieme, nissuno avesse da restare indietro per mancanza di legni.

(1) Questo concorda con quanto gli Eruditi hanno detto di Cadmo e di Vanno portatoti in Grecia delle lettere fenicie.

 

Capitolo XVII.

Come tutti i re e principi greci mandano in Aulide le loro navi allestite per la spedizione di Troja.

Passati i due anni, stati necessari all' apparecchio, tutti i re mandarono in Aulide di Beozia, luogo già destinato alla unione, quanti navigli le forze loro e de' loro regni avevano permesso di mettere in ordine(1). Primo di tutti Agamennone mandò cento navi da Micene; ed altre sessanta dalle diverse città signoreggiate da lui, e ne fece capitano Agapenore. Nestore ne mandò novanta: e sessanta Menelao ne raccolse da tutta la Laconia. Mnesteo da Atene ne trasse cinquanta; da Eubea trenta ne trasse Elefenore; dodici da Salamina Ajace Telamonio; ottanta da Argo Diomede; trenta da Orcomeno Ascalafo e Jalmeno, e quaranta ne mandò Ajace di Oileo. Da tutta la Beozia Archesilao, Protenore, Peneleo, Leito, Clonio ne avevano raccolte cinquanta: quaranta Schedio ed Epistrofo dalla Focide: da Elide e dalle altre città di quel paese quaranta Talpio e Diore con Amfimaco e Polisseno. Toante dall' Etolia e Mege da Dulichio e dalle Echinadi quaranta ciascuno; Idomeneo con Merione ottanta raccolte da tutti i luoghi di Creta; dodici da Itaca Ulisse; Protoo di Magnesia (in Tessaglia) quaranta; Tlepolemo da Rodi e dalle circonvicine isole otto; da Fera Eumelo undici; cinquanta dal paese pelasgico Achille; tre da Sime Nireo; da Filaca e da altri loro luoghi Podarce e Protesilao undici; Podalirio e Macaone trenta; Filottete sette da Metone e da altre città; Euripilo orcomenio quaranta; ventidue Guneo; Perebileonteo e Polibete dai loro paesi quaranta; trenta Eutrafate, Antifo e Fidippo dalle isole Nisiro, Scarpanto, Coo, Caso e Calidna. Tessandro di Polinice, mentovato di sopra, ne mandò cinquanta da Tebe; venti ne mandò Calcante dall' Acarnania; venti da Colofone Mopso; Epeo dalle Cicladi trenta. E tutte queste navi erano piene di frumento e d'altra vittuaglia: che così indicato aveva Agamennone, onde esercito sì numeroso non avesse a patire penuria.

(1) Non può prudentemente supporsi che nei numeri scrini in quetto capitolo non sia corso errore, dovendosi essere questo libro tante volte e da tante mani copiato. Piacerà forse a citi legge vedere qui il quadro comparativo della flotta greca, secondo che la rappresentano Ditti, Darete ed Omero. Esso é stato fatto da Paolo Vindicio, uno dei commentatori di Ditti. Eccolo però corretto.

Ditti. Darete. Omero.

Agamennone che ne fece ammiraglio Agapenore

Nestore

Menelao

Mnesteo

Elefenore 

Ajftce Telamonio

Diomede

Ascalafo e Jalmeno

Ajace Oileo

Archesitao ec

Schedio ed Epistrofo

Talpìo e Diore

Toante

Mege

Jdnmrnc*

Ulisse

Protoo di Magnesia

Tlepolemo

Eumelo. .

Achille

Nireo

Podarce

Podalirio e Macaone

Filottete

Euripilo Ormenio

Somma dicomro 1oSj y>', io34

Guneo aa ... a1 ... aa

Leonteo 4° • • • 4° . • • 4°

Eufrate eco 3o . . . Su . . . 3o

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Calcante ao ... —

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Epéo 1 . . . . 3q ... —

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Capitolo XVIII.

Come si preparano cavalli, e carri da guerra, e fanterie, e uomini pratichi delle cose di mare. Come non si può ridurre Sarpedone ad unirsi ai Greci; e come tutto é pronto per l’ imbarco.

In mezzo a tanto apparecchio di navi non s'intralasciò quello de' cavalli e de' carri da guerra, secondo che i paesi potevano darne; e il grosso poi della cosa era la milizia a piedi, anche perché scarsi essendo nella Grecia i pascoli non si fa uso di cavalleria. Né si mancò di provvedere uomini pratichi delle cose di mare. Avevano i Greci fatte larghe condizioni ed intromessi inoltre gli offici del re de' Sidonii(1), onde Sarpedone di Licia fosse con essi contro i Trojani: ma tutto fu vano: perciocché Priamo se lo era cattivato prima con doni maggiori, che aveva poscia duplicati. Cinque anni di tempo si consumarono nel fabbricare ed armare quel numero di navi, che dai diversi regni della Grecia abbiamo detto essere state mandate in Aulide. Onde non mancando più per eseguire la spedizione se non che i soldati, i capitani che li conducevano, come se fosse stato dato loro il segnale, tutti insieme e nel tempo medesimo corsero colà.

(1) Il testo mette Fulìde per nome del re, di cui si parla; ma tal nome non ha fondamento alcuno. Comunque si chiamasse, egli doveva essere o figlio, o fratello, o parente del re assassinato da Alessandro .

 

Capitolo XIX.

Come avendo Agamennone uccisa una capra cara a Diana, viene la peste nell’ esercito, e una donna predice che non cesserà, se Agamennone non sacrifica sua figlia maggiore. Agamennone ricusa; i Greci gli levano il comando.

Intanto, mentre sollccitavasi l'imbarco, Agamennone, che dicemmo essere stato da tutti dichiarato comandante supremo, allontanatosi alquanto dall'esercito, vide per avventura vicino al bosco di Diana una capra che ivi pascolava, e non sapendo essere sacro il luogo con una saetta la trafisse. Poco dopo quel fatto, non si sa bene se per celeste sdegno o per la mutazione dell' aria infesta ai corpi, la peste si dichiarò, la quale di giorno in giorno vieppiù imperversando, fu cagione che a migliaja e bestie e uomini morissero. Cosicché non v'era termine alla strage, né pace avevano i restanti; ed ogni cosa era caduta in terribile confusione. Per le quali cose affannati i capitani e cercando quale potesse essere la cagione di tanta sciagura, una donna(1) ispirata da Dio dichiarò tutto succedere per lo sdegno da Diana conceputo, attesa la morte della capra a lei diletta, e pel commesso sacrilegio punire l'esercito; né essere per placarsi prima che l'autore del misfatto non le avesse immolata in compenso la sua figlia maggiore. Come ciò per lo esercito s'intese, tutti i capitani andarono ad Agamennone; e prima colle preghiere, poi veduto che non cedeva colla violenza si misero in punto di obbligarlo a por rimedio al male. E quando videro ch'egli restava ostinato né potevano in alcun modo piegarlo, primieramente di molte ingiurie il caricarono; poi lo spogliarono della suprema autorità; ed affinché un si grande esercito rimanendo senza capo non si sciogliesse o per indisciplina non s'indebolisse, misero primo di tutti Palamede, poi per secondo Diomede, ed Ajace Telamonio per terzo, e per quarto Idomeneo. In questo modo fu diviso 1' esercito in quattro parti.

(1) /ginn dice che non una donna, ma Calcante fu quello che in questa occasione parlò.

 

Capitolo XX.

Come Ulisse con lettere contraffatte a nome di Agamennone inganna Clitennestra, la quale gli consegna Ifigenia; e come la conduce all' esercito per sacrificarla.

Ma le stragi della peste duravano ancora. Intanto Ulisse, mostrandosi in collera per la ostinazione di Agamennone ed affermando di volere ritornarsi a casa, trovò a sì gran male un rimedio da nissuno sperato. Imperocché senza dir nulla ad alcuno andò a Micene e portò a Clitennestra lettere contraffatte in nome di Agamennone(1), il tenor delle quali era ch'egli aveva promessa Ifigenia, sua figliuola maggiore, sposa ad Achille, e che non voleva andare a Troja se prima non avesse fatto quel parentado e mantenuta la data fede: che perciò si sollecitasse ella a mandare la figlia e quanto fosse necessario per le nozze. Ulisse per vieppiù meglio colorir la bugia aggiunse altre cose verosimili; e s' acquistò credenza tanto che Clitennestra e per amore di Elena, che desiderava tolta dalle mani de' Trojani, e per la contentezza di veder maritata sua figlia ad uomo di sì illustre nome, lieta consegnò Ifigenia ad Ulisse. II quale in pochi dì tornato all' esercito si fece improvvisamente vedere colla donzella nel bosco di Diana. Agamennone, udito ciò, mosso da paterna pietà pensò di fuggir lungi, onde non essere presente a così scellerato sacrifizio: ma di tale sua intenzione accortosi Nestore, che fra tutti i Greci era bel parlatore, piacevole e grato ad ognuno, con lungo discorso il persuase a restare.

(1) I commentatori per iscreditar Ditti citano Euripide, il quale suppone che Agamennone realmente scrivesse a Clitennestra, onde gli mandasse Efigenia; e che di ciò furono consapevoli Calcante, Ulisse e Menelao. Vuolci poco a comprendere fin dove può giudicarsi in fatto di storia da ciò che gli autori di teatro espongono. Euripide suppose che Clitennestra medesima conducesse la figliuola. Egli é lo stesso che citare Racine.

 

Capitolo XXI.

Come essendosi sul punto di sacrificare Ifigenia, sorge un gran turbine; e Diana significa non volere quella vittima, e ne addita un’ altra.

Intanto Ulisse, Menelao e Calcante, incaricati del sagrifizio, fatto discostare ognuno, mettevano in ordine la donzella: se non che improvvisamente incominciò ad oscurarsi il giorno e il cielo a coprirsi di nubi e a udirsi tuoni, a vedersi lampi e a rumoreggiare all' intorno saette; e la terra pur anche e il mar tremarono; e di tal modo si confuse 1'aria, che sparito ogni lume, in poca ora di pioggia e grandine cadde giù precipitando un diluvio. In mezzo a sì tetro e furioso fortunale, Menelao e quelli ch' erano con esso lui, intesi a mettere in ordine il sacrifizio, stavano con gran paura e travaglio, sì per la improvvisa mutazione dell' aria, la quale riguardavano come un prodigio divino, sì ancora per le conseguenze, che dalla parte dell' esercito potevano temersi se il sacrifizio non avesse luogo. Ma finalmente mentre erano in tanta angustia di animo  una voce si fece sentire dal sacro bosco, la quale diceva, sprezzare il nume un tal genere di sacrifizio e perciò non aversi a metter le mani sul corpo della donzella, che alla Dea faceva pietà. Del resto serbarsi pel suo misfatto ad Agamennone bastante fio da sua moglie, tornato che fosse vittorioso da Troja; e che frattanto badassero a quello che vedessero presentato da immolarsi invece della vergine. Da quel punto i venti e i fulmini ed ogni disordine di elementi che suol nascere ne' grandi moti del cielo incominciarono a cessare.

 

Capitolo XXII.

Come Achille conosciuta la frode di Ulisse accorre per salvare Ifigenia, che viene consegnata al re degli Sciti; e si sacrifica una cerva, e cessa la pestilenza.

Mentre queste cose accadevano nel bosco, Achille ricevette a parte lettere di Clitennestra, unitamente a grossa somma d'oro; e Clitennestra raccomandava la figlia e tutta la famiglia sua(1). Le quali lettere poscia che egli ebbe scorse, conosciuta l' astuzia di Ulisse, frettolosamente si portò al bosco ed a gran voce chiamando Menelao e quelli, ch' erano con esso lui, cominciò a gridare che si guardassero di far alcun male ad Ifigenia, altramente minacciando loro ruine. Poi giunto presso e attonito per le osservate cose, tornato già il ciel sereno e tranquillo, tolse loro la donzella di mano. E stando tutti in pensiero e cercando quale e dove fosse la vittima che dovevano sacrificare, improvvisamente comparve loro una cerva di mirabil bellezza(2), la quale intrepida si fermò d'innanzi all'altare. Per la qual cosa, non dubitando che non fosse quella l' ostia prenunciata e presentata dalla stessa Dea, la presero e la immolarono. Le quali cose finite, la pestilenza cessò e il cielo si fece puro e bello come nella estate. Achille intanto e gli altri, che preseduto avevano al sagrifizio, segretamente consegnarono la donzella al re degli Sciti(2) che trovavasi ivi ed alla fede di lui la raccomandarono.

(1) È cosa curiosa l'udire Madama Dacier, la quale considerando altrimenti questo fatto riferirsi da Euripide, dice non essere stats seguitato da Ditli per dar più colore alla impostura! (2) È strano assai che si sia tanto variato in opinione sulla qualità dell' animale sostituito ad Ifigenia. Nicandro ha lasciato scritto che questo fu una giovenca. Fenodemo lo disse un'orsa. Alcuni supposero che Ifigenia fosse convertita in una vecchia sdentata. Esiodo, poetando certamente più degli altri, scrisse che Diana aveva d'Ifigenia fatto Ecate. (2) Non essendo detto chi fosse questo re, alcuni hanno pensato che fosse Toante: ma con che fondamento lo sa Dio. Più generale é I' asseribile che Diana facesse scomparire Ifigenia, e la trasportasse nella Tauride. Questo sia in ragione, perché é la cosa meno probabile di tutte.

 

Capitolo XXIII.

Come Agamennone viene ristabilito nel carico di comandante supremo della spedizione e l'esercito parte da Aulide.

Ma i capitani, veduto che la pestilenza era cessata e che i venti erano favorevoli al navigare e il mar presentava l'aspetto estivo, lieti andarono tutti ad Agamennone(1); e lui dolentissimo della supposta morte della figliuola consolando, richiamano all'onor primo. Di che tutto l'esercito fu contentissimo; poiché, Agamennone era dall'esercito riputato ottimo in consigli ed era amato come padre. Agamennone, o fatto più prudente per le cose già succedute, o pensando alla necessità degli umani accidenti e perciò fatto intrepido e fermo contro le sventure, dissimulò l'avvenuto, ripigliò il carico e in quel giorno stesso convitò tutti i capitani. Non molto dopo, come parve buon tempo, l’esercito diviso secondo i suoi capitani s'imbarcò sulle navi cariche di preziosissime cose dagli abitanti del paese offerte. Il frumento, il vino e le altre vittuaglie necessarie erano stale date da Anio e dalle sue figliuole chiamate Enotrope e sacerdotesse della religione divina(2). Così si parte da Aulide.

(1) Omero fa l'elogio di Agamennone in un solo verso: era insieme, dic' egli , e buon re e valoroso soldato.

(2) È degno di singolare attenzione questo fatto, vero o falso che sia, poiché non manca di conservare la tradizione di un'istiturzone divina. Ecco ciò che di questo Anio racconta il commentatore di Licofrone. Apollo, dic'egli, portò Anio a Delo, ed Anio presa a sposa Dorìppa generò le Enotrope, Oino, Spermo ed Elaida, alle quali Bacco diede la virtù di mutare qualunque cosa volessero in vino, in frumento e in olio, secondo che comportavano appunto i loro rispettivi nomi E Ferecide dice che Anio persuase i Greci iti a Delo per consultare l'oracolo  che stessero ivi nove anni"; nel decimo li lasciò navigare a Troja per ruinarla. E ciò era conforme all'oracolo, il quale portava che i Greci avrebbero presa Troja il decimo anno. Nel proporre ciò a’ Greci, Anio promise loro che avrebbero avuto dalle sue figlie ogni necessario mantenimento. Di questo Anio, re di Delo e sacerdote delle sue figliuole aventi l'accennata virtù, parlano e Ovidio nelle Metamorfosi e Virgilio nella Eneide. E al passo di quest'ultimo Servio dice: Anio re di Delo, sacerdote di Apollo, essendo padre di tre figlie, non contento della protezione di un solo Dio consacrò le figlie al padre Libero : e questi in benemerenza fece che qualunque cosa una di esse toccasse si convertisse in frumento, e quello che l’ altra in vino, e quello che l'altra in olio. Il che avendo saputo Agamennone capitano degli Argivi, mentre stava per andare con mille navi all'impresa di Troja, mandò a chiamar quelle donne, onde per loro mezzo avere vittuaglia per l'esercito greco. Virgilio dice che Anio era vecchio amico di Anchise. Palafate aggiunge, secondo Servio, che n' era anche parente.

Egli e assai verosimile che i capitani greci avessero scelta Delo come luogo di deposito di tutte le vittuaglie necessarie all'esercito, e che ne avessero data la cura ad Anio, il quale poi avesse incaricate della soprintendenza le figlie. Forse ancora Anio aveva grandi magazzini di generi portati in offerta al santuario, a cui presiedeva, dai varj paesi della Grecia; e per una spedizione che aveva l'approvazione dell'oracolo, ed interessava tutta la Nazione, non dubitò di contribuire con tanta larghezza. Forse fin d'allora s'intendeva che alla causa generale della Nazione, come interesse primo dei popoli, debbesi sacrificar tutto.

 

 

LIBRO SECONDO.

 

Capitolo Primo.

Come i Greci giunti colla flotta sulle spiaggie di Misia trovano impedimento a sbarcare, e combattono colle guardie del re Telefo.

Giunti tutti i navigli alle spiaggie della Misia(1), fu dato il segnale perché si accostassero a terra; ma volendo sbarcare incontrarono le guardie del paese, le quali ivi erano tenute da Telefo, che allora regnava in Misia, onde difendere lo stato dalle incursioni de' pirati. Queste adunque si misero al punto d'impedire che alcuno sbarcasse; né si permise loro di toccar terra, se prima non fosse riferito al re chi essi fossero. I nostri sul bel principio fecero poco conto di ciò che le guardie dicevan loro e incominciarono a saltare fuori de' legni; ma siccome le guardie insistevano sulla dichiarazione fatta, presero a resistere con quanta forza avevano e ad impedire lo sbarco già incominciato. I capitani de' Greci, tolto ciò per ingiuria, pensarono di doversene vendicare colla forza; e perciò data mano alle armi sbalzarono dalle navi e pieni d' ira si gittarono addosso a quelle guardie, facendo sopra esse man bassa, non perdonando a chi fuggiva e tagliando a pezzi quanti nella fuga potevano prendere.

(1) La Misia dicevasi anche Teutrania da Teutra re di quel paese, che adottò Telefo, figliuolo d'Ercole e d'Auge, al quale lasciò anche il regno. Bisogna ben dire che questo fatto dei Greci in Misia sia vero, poiché ne parlano a lungo tanto Eustazia quanto Tzetze.

 

Capitolo II.

Come Telefo andò a combattere i Greci, e si fece aspra battaglia, e tra gli altri morì Tessandro, il cui cadavere salvato da Diomede fu poi abbruciato e sepolto.

I primi intanto, che avevano potuto scappare dal macello de' lor compagni, giunsero al re Telefo, raccontando come tante migliaja di nemici avevano assaltato il paese ed uccise le guardie preso posto in terra. La paura faceva loro anche ingrandire le cose. Udito il fatto Telefo prese seco quelli, che avea d'intorno e quanti altri nel subitaneo caso poté raccogliere e si mosse immantinente contro i Greci; e dall'una e dall' altra parte si attaccò ferocissimo combattimento; nel quale quanti potevan venire sotto la mano erano ammazzati; e da ogni parte la morte de' suoi accresceva la rabbia e multiplicava le stragi. Tessandro di Polinice, di cui s'é già fatta menzione, affrontatosi con Telefo, cadde morto per ferita che n'ebbe, non senza però aver egli prima uccisi molti de' nemici, fra quali fu uno dei compagni di Telefo medesimo, da questi per valore ed ingegno tenuto fra principali, e che aveva infatti combattuto egregiamente. Perì adunque Tessandro, perché superbo delle prime imprese troppo presunse aspirando maggiori successi. Il cadavere di lui tutto insanguinato Diomede, a cui era stato raccomandato dai genitori d'entrambi e che gli era fedele amico, prese e sel portò sulle spalle; e poi secondo l'uso patrio l'abbruciò e ne seppellì gli avanzi.

 

Capitolo III.

Come Achille ed Ajace si mettono alla testa de' Greci, e fanno strage de' nemici, e Teutranio, fratello di Telefo vien morto da Ajace, e Telefo vien ferito da Achille.

Ma Achille ed Ajace Telamonio, vedendo con molto danno de' Greci durar la battaglia, divisero in due parti l'esercito; e confortati i loro con buone parole, come la circostanza domandava, e con ciò rinvigoritili, assaltarono con grande impeto il nemico; ed essi stessi si posero alla testa delle truppe, ora inseguendo i fuggiaschi ora opponendo le loro persone medesime come un muro a chi attaccava. Onde così o fossero i primi a battersi o fossero tra i primi, insigne fama di valore si acquistarono tanto presso i nemici quanto presso i loro. Teutranio intanto, che figliuolo era di Teutranio(2) e di Auge, e fratello uterino di Telefo, avendo osservato come Ajace battevasi con tanta gloria contro i suoi, presto si volse a lui; ma essendo stato colpito da un dardo che quegli gli lanciò cadde morto. Del quale lagrimevol fatto vivamente torto Telefo e volendo trarne vendetta, si gettò nel più fitto della zuffa e da ogni parte fugando quanti aveva incontro, mentre ostinatamente cercava di raggiungere Ulisse, che battevasi entro certe vigne vicine, inceppatosi in un tronco di vite cadde a terra(2). Ond'é che, ciò veduto da Achille, il quale n'era alquanto irritato, questi gli tirò addosso un dardo che andò a colpirlo nella coscia sinistra e gliela trapassò. Ma Telefo, drizzatosi con grande sveltezza e trattosi il ferro dal corpo, coll'ajuto dei suoi si liberò dall' istante pericolo.

(1) Cioé da Polinice e da Tideo, i quali aveano sposato due figliuole di Adrasto. (Vedi Stazio.) (2) Mad. Dacier dice che non si sa chi sia questo Teutranio, perché se fosse figliuolo di Teutranio e di Auge questi non avrebbe lasciato il regno a Telefo. Non osservò essa dunque che il padre di questo Teutranio non é Teutranio, che adottò per figlio Telefo, e cbe non è detto mai che avesse Auge per moglie, né osservò che se era fratello uterino di Telefo non era figliuolo dt Teutranio E questa circostanza basta per escludere ogni sua difficoltà, essendo il nome di Teutranio dato qui a due portone diverse. Altri commentatori hanno ragionato a un di presso come Mad. Dacier !! .(2) Tzetze ha lasciato scritto che Bacco fu quegli che imbarazzò Telefo con quel tronco di vite. Eustazio soppone che non Telefo, ma il suo cavallo s'imbarazzasse.

 

 

Capitolo IV.

Come avvicinandosi la notte si cessò di combattere con gran conforto de' Greci stanchi eziandio pei sofferti disagi della navigazione; e come il dì dopo si fece tregua per seppellire i morti da ambe le parti.

Era omai trascorsa gran parte del giorno e l' uno esercito e l'altro, combattendo senza requie e dalla insistenza costante de' valorosi capitani costretto a durar nell' azione, sentiva omai la stanchezza. E tanto più che i nostri trovavansi deboli pel disagio della navigazione di molti giorni e disanimati per la presenza di Telefo. Imperciocché era egli figliuolo d'Ercole, grande di statura e gagliardissimo di forze, e colla propria virtù eguagliato avea le virtù divine del padre. Adunque essendo imminente la notte e desiderandolo tutti, si cessò dal combattere; ed alle loro case ritornaronsi i Misii e i nostri alle navi. Molto però fu il numero de' morti da entrambe le parti e il massimo fu dei feriti; perciocché niuno o pochissimi ritiravansi senza qualche danno. Nel dì seguente furono dagli uni e dagli altri mandati messi per seppellire i morti. Laonde stabilita la tregua furono raccolti i cadaveri, abbruciati, e sepolti.

 

Capitolo V.

Come Tlepolemo con Fidippo e Antifo, essendo parenti di Telefo, andarono a ritrovarlo, ed egli li accolse cortesemente; e delle altre cose che ne vennero.

In questo mezzo Tlepolemo e Fidippo insieme con Antifo suo fratello, il primo de' quali era figliuolo di Ercole e i due altri come figli di Tessalo erano nipoti del medesimo, avendo imparalo che Telefo regnava in que' luoghi, fidando sulla parentela, andati a trovarlo gli dissero chi essi fossero e con qual gente navigassero. E dopo molti ragionamenti infine acerbamente si dolsero, ch' egli si portasse come nemico con persone per sangue a lui congiunte(1). Aggiunsero che Agamennone e Menelao, discendenti di Pelope e suoi parenti, erano quelli, che avevano messo insieme quell' esercito. Indi raccontarono quanto in casa dì Menelao fatto aveva Alessandro e il ratto di Elena; e fecero sentirgli, come ragion voleva, che attesa la parentela  ed in considerazione della scelleraggine della violala ospitalità comune, egli ajutasse i Greci, in grazia.de' quali lo stesso Ercole tante cose avea fatte, e d'esse lasciati monumenti che tuttora sussistevano per tutta la Grecia. Telefo, quantunque tormentato assai per la ferita riportata, benignamente rispondendo, disse tutta loro esser la colpa, se egli aveva ignorato che uomini suoi amici e a lui tanto congiunti di sangue fossero sbarcati nello stato suo: che avrebbero dovuto essi mandar innanzi persone, per le quali informato della cosa avesse potuto venire ad incontrarli con quella sincera festa, che fatta se ne sarebbe; e dopo averli amichevolmente accolti, rimandargli poi con que' doni, che loro stati fossero più graditi. Non potere per altro dar loro soldati contro Priamo, poiché egli aveva per moglie Astioca(3) figliuola di quel re, dalla quale gli era nato Euripilo, pegno di strettissima affinità. Quindi mandò bando subitamente perché tutto il suo popolo cessasse dalle ostilità; e diede ampia libertà ai nostri di sbarcare. Tlepolemo, e gli altri, che con esso erano andati al re, furono affidati ad Euripilo; e fatto ciò che avevano desiderato, ritornarono alle navi portando ad Agamennone e agli altri re per parte di Telefo pace e concordia.

(1) Telefo veniva ad essere loro zio, perché fratello di Tessalo loro padre.(2) Tantalo padre di Pelope e figlio di dove veniva ad essere fratello dl' Ercole, che era stato il padre di Telefo. Agamennone poi e Menelao, figlj di Plistene, avevano per avo Atreo, ed Atreo aveva avute per padre Pelope. (3) Eustazio chiama con questo nome la moglie di Telefo, ma la dice sorella di Priamo, e non figliuola. Altri dicono che la moglie di Telefo era Laodice figlia di Priamo.

 

Capitolo VI.

Come anche Achille ed Ajace andarono a trovare il re Telefo, che informatosi de' Pelopidi, ch'erano nell'esercito, li volle veder tutti; e come v'andarono anche Agamennone e Menelao, e questi fecero chiamare Podalirio e Macaone perché medicassero la ferita di Telefo.

Agamennone e gli altri re udite queste cose cessarono d'assai buon cuore da ogni ulteriore misura di guerra. Indi, così deliberatosi in comune consiglio Achille ed Ajace andarono a Telefo e trovatolo gravemente addolorato per la ferita  gli fecero animo a' sopportare quel male. Telefo, tosto che gli fu sopravvenuto qualche momento di calma, si mise di bel nuovo ad accagionare i Greci di non avergli mandato alcun messo, onde fosse avvertito del loro arrivo: indi si pose a domandare quali de' Pelopidi e quanti fossero in quell'esercito; e quando ne l' ebbero informato, egli con molte istanze richiese che tutti venissero a lui. I nostri gli promisero di fare tutto ciò ch' egli desiderasse e riferirono agli altri re la cosa. In conseguenza di che tutti i Pelopidi, ad eccezione di Agamennone e di Menelao, portaronsi insieme uniti a Telefo, che nel vedergli molto si rallegrò e chiamossi contento: ed alloggiati presso di sé li colmò di doni. E non meno si mostrò egli liberale e munifico con tutti i soldati ch' erano nelle navi: perocché fece a cadauna nave distribuire frumento ed altra vittuaglia. Del resto, veduto che mancavano Agamennone e il fratello, prese Ulisse e con molte preghiere lo impegnò sì che andasse a chiamarli; ed essi poi vennero, e, secondo l'uso de' re, dati e ricevuti convenienti doni, fecero chiamare Macaone e Podalirio, figliuoli di Esculapio, ordinando loro che avessero a medicare la ferita di Telefo. Essi visitata che l' ebbero vi posero sopra prontamente gli empiastri opportuni per sedare il dolore.

 

Capitolo VII.

Come fattasi stagione cattiva i Greci intendono da Telefo che solo in primavera si può dal luogo in cui erano navigare a Troja e perciò ritornano in Beozia(1).

Passati alcuni giorni incominciò a guastarsi il tempo, e il mare di dì in dì a farsi cattivo pe' fieri venti contrarii al navigare verso dove i Greci erano diretti, sicchè iti a Telefo e da esso cercando informazioni e consiglio intorno alla stagione, udirono da lui che il tempo di navigare da que' luoghi a Troja era quello del principio di primavera; e ogni altro assolutamente contrario. Perciò tutti ad una voce stabilirono di ritornare in Beozia; e così fecero. Dove giunti, tratte a terra le navi, ognuno andò a svernare nel proprio regno. In mezzo a quell'ozio il re Agamennone ebbe comodo di sfogarsi con Menelao suo fratello sul fatto d'Ifigenia, giacché Agamennone credeva che Menelao fosse l'instigatore e la cagione di tanto suo cordoglio.

(1) Da questo passo si vuole argomentare che Ditti fosse assai ignorante in geografia, perché per andare dalla Misia a Troja bastava costeggiare essendo i due paesi vicini. Ma oltre che con ciò non si ribatte la supposizione di Telefo né si avverte che potrebbe essere stata da lui fatta anche ad arte; perché non si pensa al poco che i Greci sapevano circa il navigare, alla debolezza delle loro navi, e al pericolo, in cui ogni piccola tempesta poteva facilmente mettere tanta moltitudine di legni, esposti ad essere battuti e dal mare e da essi stessi!.

 

Capitolo VIII.

Come la nuova dell' armamento dei Greci fu portata a Troja. Della impressione che fece sul popolo e delle misure che furono prese.

In questo tempo erasi saputa in Troja la cospirazione di tutta quanta la Grecia contro quella città; e la nuova eravi stata recata da alcuni Sciti(1), i quali a cagione di commercio erano soliti a scorrere ogni parte dell' Ellesponto cambiando generi cogli abitanti de' paesi. Tutti i Trojani perciò furono presi da paura e da dolore, lamentandosi quelli, che da principio biasimato avevano il misfatto di Alessandro contro i Greci, che per la tristizia di pochi tutto il popolo avesse ad essere ruinato. Se non che in mezzo a questi affannosi pensieri della moltitudine, Alessandro e i pessimi suoi consiglieri (2) con grande cura scelsero molte persone di ogni ordine e le spedirono a reclutare ajuti dai popoli confinanti, commettendo loro che fatta la raccolta tornassero indietro, perché intendevano di prevenire i nemici, portando eglino ne' paesi de' Greci la guerra, che i Greci volevano portare a Troja.

(1) Questi Sciti venivano dal Mar Nero , sulle cui coste abitavano. Essi conobbero la nautica e la mercatura assai prima de'Greci. (2) Questa fiase dimostra meglio di ogni altra cosa, che l'autore dì questo libro è greco. Nou erano certamente pessimi i consiglieri di Alessandro nel suggerirgli queste misure , e nell' insinuargli di fare la diversione, di cui qui si parla, se non perche tornava a danno de' Greci. Bensì fu pessima cosa pe'Trojani che non fosse eseguita.

 

Capitolo IX.

Come Diomede sollecitò i Greci alla spedizione per prevenire i Trojani: e come Ulisse rappacificò Agamennone con Achille informandolo di quanto era accaduto intorno ad Ifigenia; e si fecero ottime disposizioni per andare alla impresa di Troja.

Ma avvisato di questo loro disegno Diomede si mise a scorrere con gran diligenza tutta la Grecia e andò a trovare a uno per uno i re confederati, facendo loro noto quanto i Trojani meditavano ed esortandoli a porsi in mare subito che avessero in ordine le cose necessarie alla guerra. E diffatti altre nuove avendo confermato ciò che diceva Diomede, tutti furono in Argo, dove trovarono che Achille era di assai male umore con Agamennone, il quale ricusava di partire, troppo acerbamente punto ancora della sorte della figliuola, ch'egli credeva già morta. Se non che Ulisse giunse a rappacificarli, confortando Agamennone e levandogli l'aspro affanno che da lungo tempo il rodeva  col sincero racconto di quanto era succeduto ad Ifigenia: così che Agamennone infine tornò anzi allegro. Essendo adunque tutti i capitani raccolti ivi, quantunque niuno d'essi trascurasse le cose necessarie alla guerra, sopra gli altri però vi si distinsero Ajace Telamonio, Achille e Diomede, che della somma principale s'incaricarono; e fra gli altri divisamenti questo singolarmente in pochi dì eseguirono, di mettere in ordine, oltre alla gran flotta, una squadra di cinquanta altre navi destinate a corseggiare sulle spiaggie nemiche e fornite per ciò d' ogni cosa occorrente. Era già scorso l'anno ottavo, dacché s' erano incominciati i preparativi per la grande spedizione, e si era al principio del nono.

 

Capitolo X.

Come tutto essendo pronto per la partenza, giunse ad Argo il re Telefo per essere guarito secondo l’ oracolo da Achille e da Podalirio e Macaone che si prestarono alle sue preghiere; e come poi Telefo diresse la navigazione a Troja, ove infine l’ armata giunse.

Essendo tutto pronto e il mare dando comodità di navigare, né rimanendo più ostacolo alcuno, si presero a guida del viaggio alcuni, che commerciando pei mari d'intorno erano per avventura capitati ad Argo. In quella congiuntura giunse in Argo Telefo, il quale martoriato continuamente pel dolore della ferita avuta nel combattere, come già si disse, coi Greci, per dichiarazione dell' oracolo di Apollo veniva a cercare di Achille e de' figli di Esculapio, essendogli detto che da essi soli poteva trovare rimedio al suo male (1). Ai capitani meravigliati del suo arrivo significò egli la cosa; e li pregò di non negargli il conforto dal nume indicato. Né vi si ricusarono Achille, Macaone e Podalirio; ed applicato alla piaga di lui quanto occorreva, in poco tempo restò pienamente confermato l'oracolo. Dopo di che i Greci, fatti molti sacrifizi per avere favorevoli nella loro impresa gli Dei, salparono da Argo e vennero in Aulide con tutte le navi: di dove partendo ebbero seco loro riconoscente del benefizio ricevuto Telefo medesimo, che diresse il viaggio; e trovato buon vento in pochi dì furono d'innanzi a Troja.

(1) L'oracolo, secondo che riferisce Igino, aveva detto che la sola asta che lo aveva ferito poteva sanare Telefo, ed era appunto l'asta di Achille. Non fu da principio quesl'oracolo inteso bene, perciocché quando Telefo si presentò ad Achille, questi rispose ch'egli non s'intendeva di medicina. Fu l'accorto Ulisse che venne a mettere in chiaro la cosa dicendo che Apollo non aveva nominato lui, ma l'asta, che fatto aveva la piaga. Pare che s'usasse il ferro di quell’ asta per riaprire la piaga, facendone uscire la materia corrotta e tagliandone le cattive carni. E siccome poi altri hanno detto che Achille adoperò un empiastro d'erba, che perciò Plìnio dice chiamarsi Achillea, ben si comprende come alla prima operazione doveva andare congiunta questa. Lo stesso Plinio, che sovente raccoglieva tutto ciò che trovava scritto, senza prendersi la cura di ragionarvi sopra, ricorda alcune pitture nelle quali Achille rappresentavasi in atto d"infondere nella piaga di Telefo la ruggine che con un coltello andava distaccando dal ferro della sua asta. Né certamente è fuori di verosimiglianza che la ruggine servisse a mordere le carni cattive. In ogni maniera vedesi confermata l'opinione che Achille avesse da Chirone imparato qualche poco di medicina. Che se Igino avesse riferito il vero, quando fa dire ad Achille ch'egli non sa di medicina, bisognerebbe concludere che Achille disse ciò per male umore; essendo di carattere burbero e capriccioso.

 

Capitolo XI.

Come Sarpedone andò a Troja, e veduta l’armata dei Greci vi si oppose, e .fu spalleggiato anche dai Trojani. Del combattimento, che allora seguì; e della morte di Protesilao.

In quel punto giungeva a Troja con grosso corpo d'armati Sarpedone di Licia, figliuolo di Xanto e di Laodamia, con frequenti messi sollecitato da Priamo. Egli, veduta da lungi la numerosissima flotta appressarsi al lido, immaginandola per quella che era di fatto mise prontamente i suoi in ordine di battaglia per attaccare i Greci all'atto che incominciavano ad isbarcare. Non molto dopo prese le armi accorsero anche i figliuoli di Priamo, ed i Greci trovavansi in mal punto, avendo in tal modo innanzi i nemici e non potendo sbarcare senza ruina né prender le armi e porsi in ordine per la subita confusione che tra loro nacque. Ma infine quelli tra essi che in tale pressura poterono armarsi, fattosi coraggio a vicenda, gagliardamente affrontarono i nemici. Nel combattimento ch' ebbe allora luogo Protesilao, la cui nave era stata la prima ad avvicinarsi al lido, essendo stato per conseguenza anche il primo ad entrar nella zuffa, venne da un dardo di Enea ammazzato.

 

Capitolo XII.

Come furono morti due figliuoli di Priamo; ed Achille ed Ajace salvarono l’esercito de' Greci. Il re Telefo ritorna a casa sua; e mentre si fa il mortorio a Protesilao, il re Cigno attacca i Greci; ma é ammazzato da Achille.

Furono anche morti due figliuoli di Priamo: e dall’ una parte e dall'altra fu patita non poca strage della moltitudine. Ma Achille ed Ajace Telamonio, col coraggio de' quali sostenevansi i Greci, combattendo gloriosamente molto spavento incussero a’ nemici e molto animo diedero ai loro. Né omai si poté resistere ad essi; e perciò quelli che arditamente erano venuti innanzi a poco a poco retrocedevano, e finalmente si misero tutti in fuga. Per tal modo liberi da' nemici, ebbero tempo i Greci di mettere le loro navi a terra e di collocarle in buon ordine e al sicuro. Poscia ad Achille e ad Ajace Telamonio, nella cui bravura singolarmente fidavano, diedero la guardia del campo ben assicurato ai fianchi. Così disposte le cose, Telefo, che loro aveva servito di scorta nella navigazione a Troja, ringraziato meritamente dall'esercito, ritornò a casa sua. Non molto dopo però ebbero i nostri un travaglio; e fu che mentre stavano intenti a dar sepoltura a Protesilao e nulla temevano per parte de' nemici, Cigno(1), il cui regno non era lontano da Troja, improvvisamente e con insidia diede loro addosso per modo, che presi da subitaneo spavento e fuori d'ogni ordine militare  furono obbligati alla fuga. Ma presto quelli che non avevano presa parte al mortorio, intesa la cosa, si fecero innanzi ben armati; fra quali fu Achille, che affrontato il re  uccise lui e assai numero de' suoi, liberando in tal modo i Greci che s'erano posti a fuggire.

(1) Questo Cigno era figliuolo di Nettuno e di Calice, figliuola di Ecotone. Altri uomini illustri nell'antichità sono conosciuti sotto questo nome. Il primo è Cigno figliuolo di Sitarlo, re della Liguria; e di lui parla Ovidio nelle Metamorfosi. Il secondo è Cigno figliuolo di Apollo, e di cui parlano e Ovidio e Antonio Liberale. Il terzo è Cigno figliuolo di Marte e di Irene, e ne parlano Apollodoro ed Igino. Il quarto é Cigno figliuolo di Marte e di Pelopia; e fu ammazzato da Ercole. Igino parla di un quinto , figliuolo di Ocito e di Autofile. Si crede che Cigno, di cui qui si parla, fosse re di Tenedo. Ovidio suppose che non potesse ferirsi con alcuna arma , e che Achille volendolo uccidere dopo averlo atterrato il soffocasse colla coreggia dell'elmo. Così disse anche Aristotile; ma lo scoliaste di Licofrone suppone che fosse invulnerabile dappertutto fuorché nella testa ; e che Achille per ammazzarlo gliela pestasse con una grossa pietra.

 

Capitolo XIII.

Come i Greci stabilirono di impadronirsi de' paesi vicini a Troja; e come quello di Cigno fu il primo ad essere devastato. Fu però salvata la città per le preci degli abitanti, i quali consegnarono i figliuoli di Cigno e si sottomisero ai Greci. Questi espugnarono Cilla e non toccarono Corone.

Però esitanti i capitani e dolenti della strage, che facevasi de' loro per le continue sortite ed assalti de' nemici, vennero in pensiero di dare alla guerra un nuovo ordine; e fu di mandare una parte dell' esercito contro le città limitrofe a Troja ed in ogni modo farsene padroni. Il primo paese in questa maniera invaso fu quello di Cigno, che devastarono tutto. Ma quando, appressatisi alla città capitale, ov'erano tenuti i figliuoli del morto re, furono per rendersene padroni, e già non trovando resistenza incominciavano a mettervi il fuoco, vennero con preghiere e lagrime gli abitanti d'essa a scongiurarli, abbracciandone le ginocchia, che in nome di quanto v'ha di più sacro sulla terra e in cielo volessero dall'impresa desistere, né fare che pel delitto di un pessimo re una innocente città, che in avvenire sarebbe stata ad essi fedele, andasse in tanta ruina. E a questo modo la loro città per commiserazione pietosa fu salva. Si volle però che consegnassero Cobimo e Coziano(1), figliuoli di Cigno, e Glauce loro sorella, la quale i nostri diedero in antiparte della fatta preda ad Ajace a premio delle sue valorose azioni; e fu stipulata poi pace da quei popolani coi Greci, a cui i primi promisero amicizia e tutto ciò che loro fosse comandato. I Greci indi espugnarono Cilla(2); ma non toccarono Corone, che pur era poco discosta; dal che si astennero a riguardo dei Meandrii, i quali erano padroni di quella città e s’ erano tenuti fedeli ed amicissimi a noi.

(1) Fuori di Ditti nissun altro degli antichi fa menzione di Cobimo e Coziano. Bensì molti nominano come figliuolo di Cigno un Tene, da cui pretendono che prendesse il nome di Tenedo, chiamata prima Leucophrys. (2) Cilla era citià della Troade, sacra ad Apollo: perciò Omero la chiama divina.. Strabone ne mette un'altra in altro paese. Corone viene creduta la CoIona di Strabone, posta in faccia a Tenedo. Non é agevole cosa il giudicarne. Chi dice, che non si sa su qual fondamento Ditti la supponesse signoreggiata dai Meandrio non dice nulla. Come sapremo noi le storie antiche, se non crediamo agli antichi storici? E se Ditti non é l'antichissimo che si dimostra, perché saranno false tutte le antiche cose che egli dice?

 

Capitolo XIV.

Come per oracolo fu destinato Palamede a fare un gran sacrifizio ad Apollo Sminteo(1); ed Alessandro invano cercò di turbare quella cerimonia, e fu con grave suo danno respinto; e come in quella cerimonia Filottete fu morduto da un serpente, e mandato a guarire a Lenno.

Mentre succedevano queste cose fu recato al campo de' Greci un oracolo della Pizia, pel quale era detto che dovesse per comun voto concedersi a Palamede di far sacrifizio ad Apollo Sminteo: cosa, che fu grata a molti per la considerazione speciale e per l'amore che avevasi da tutto l'esercito a quel valentuomo; e recò per altro tristezza ad alcuni de' capitani. Fu dunque fatto a norma dell' oracolo per tutto l' esercito questo sacrifizio, con immolare cento buoi; e al rito presedette Crise, sacerdote del luogo. Ma informato della cosa Alessandro, radunato un corpo di armati, andò per impedire la cerimonia; il che non gli venne fatto, mentre prima di giungere al tempio se gli opposero i due Ajaci, e con uccisione di molti de' suoi lo misero in fuga. Crise, che abbiam detto sacerdote di Apollo Sminteo, temendo danno dai due eserciti, preso aveva il partito di acconciarsi con chi venisse, se pure di qualunque nazione, fingendo amicizia con ognuno. Mentre intanto facevasi quel sacrifizio, Filottete, che non istava molto lungi dall' altare del tempio, fu morduto da un serpente(2); il che suscitato avendo alto clamore per parte degli astanti, accorse Ulisse e quel serpente ammazzò. Filottete fu colla compagnia di pochi mandato nell' isola di Lenno per essere curato: imperciocché colà abitavano i sacerdoti di Vulcano i quali, secondo che gl'isolani dicevano, avevano la virtù di guarire di tai veleni.

(1) Strabone ha data la ragione di questo soprannome di Apollo cosi chiamato da' Sorcj. Aveva in questa qualità un tempio in Crise, città della Troade ed uno in Tenedo. Ditti parla del primo.(2) Altri hanno supposto che questa disgrazia accadesse a Filottete in un' altra Crisa, città di Lenno(3): altri in un sito di Lenno, ove stava cercando l'altare su cui aveva sacrificato Ercole andando contro Troja. Filostrato, che si unisce ai primi, aggiunge che cercava l'altare eretto non da Ercole, ma da Giasone, quando andava verso la Colchide. Altri suppongono il fatto nell’ isola Nea, posta tra l'Ellesponto e Lenno. Teocrito ha detto che fu morduto stando a contemplare il sepolcro di Troilo ucciso da Achille, il qual sepolcro era nel tempio di Apollo Timbreo. Alcuni finalmente hanno negato che fosse morduto da un serpente, ma bensì che fosse ferito per la caduta di una delle saette di cui era depositario.(3) Tante misteriose virtù dagli antichi attribuite ai sacerdoti di varie divinità, studiando bene i frammenti della storia, potrebbonsi spiegare naturalmente. In Lenno eravi quella che diciamo terra sigillata, la quale è un astringente utilissimo nella cura di ferite e di piaghe; e Galeno che si portò ad osservarla sul luogo la dice buona anche pel morso della vipera e di altri animali velenosissimi. E facile dunque credere che i sacerdoti di Lenno l' applicassero a tali bisogni e ne facessero con impostura un utile mercimonio.

 

Capitolo XV.

Come Diomede ed Ulisse si concertarono insieme per assassinare Palamede; e come vi riuscirono. Dei funerali che gli vennero fatti.

Nello stesso tempo Diomede ed Ulisse s'intesero insieme per toglier di mezzo Palamede, secondo che porta l'umana indole, la quale fa  che gli animi deboli e pieni d'invidia non soffrano d' essere sopraffatti dai migliori. Quindi avendo finto di voler dividere con essolui un tesoro, che dicevano trovarsi in un certo pozzo, allontanato ogni altro, proposero a lui che discendesse per primo; dove, siccome non temeva di andare, si fece calare con una corda: ma appena fu al fondo, che tolti a gran furia de' sassi, ch' erano sparsi all'intorno, là giù l'oppressero. E in tale maniera quell'ottimo uomo, carissimo a tutto l'esercito, il cui consiglio e la cui virtù non furono vani giammai, ingannato e tradito da chi meno il doveva, indegnamente perì(1). E fuvvi chi tenne Agamennone di quel complotto, perché Palamede amava assai il soldato ed era assai amato dall'esercito, la massima parte del quale desiderava che n'avesse egli il comando, e parlavasi già apertamente di deferirglielo. Tutti i Greci presero parte al suo funerale come a cosa pubblica e dopo che il suo cadavere fu abbruciato gli avanzi furono sepolti in un'urna d'oro.

(1) Altri in diversa maniera hanno raccontata la morte di Palamede. Dicesi che mandato Ulisse in Tracia per mettere insieme frumento, essendone ritornato senza, fu aspramente rimproverato da Palamede; e che volendosi Ulisse giustificare della taccia datagli di negligenza, dicendo che ne tornerebbe senza anche Palamede se vi fosse come lui andato, Palamede v'andò e riportò copiosissima provvigione(2).Con ciò crebbe l'odio di Ulisse contro di lui; il quale per vendicarsi inventò una lettera di Priamo a Palamede, nella quale lo ringraziava di certo tradimento concertato e ricordava una somma d'oro mandatagli. Ulisse consegnò la lettera ad un prigioniero, che fece ammazzare per istrada, mentre secondo la direzione datagli andava a ricapitarla. Le guardie trovando il cadavere presero la lettera e la portarono ad Agamennone, il quale non mancò di farla leggere nell'assemblea de' Principi. Ivi Ulisse fingendo di assumere la giustificazione di Palamede disse altamente che se si credesse alla cosa potevasi fare una perquisizione nella tenda dell' imputato e vedere s'egli avesse oro. Si andò e si trovò una somma d'oro che Ulisse medesimo aveva fatto mettervi di notte tempo, avendo guadagnato i servi di Palamede: e questi fu lapidato. Del resto che con Ulisse a’ danni di Palamede fosse d'accordo Diomede, lo dice anche Pausania: e che d'accordo con Ulisse e Diomede fosse Agamennone, lo ripete Tzetze e lo Scoliaste di Euripide. (2) Di questa cagione dell'assassinamento di Palamede parlano Filostrato e Costantino Manasse, dicendo che Achille e Palamede furono amicissimi; che andarono insieme a dare il guasto alle città limitrofe a Troja; e che da ciò prese Ulisse occasione di accusare Palamede presso Agamennone, come facesse partito per far eleggere Achille comandante supremo dell' esercito, onde richiamato al campo fu lapidato. — Altronde vedi Darete.

 

Capitolo XVI.

Come anche Achille sì mosse contro i circonvicini popoli amici de’ Trojani, e devastò varj paesi, e prese alcune città con molto bottino; e con altre fece trattati. Un re degli Sciti andò a' Greci con doni.

Achille anch'egli si volse alle città vicine a Troja, le quali credeva che fossero a favor di Trojani ministre di guerra e come loro arsenali. E con alquante navi primieramente assaltò Lesbo(1) e senza difficoltà la conquistò, uccidendo Forbante che n'era re e che fatto aveva molte ostilità contro i Greci; e conducendo via con assai bottino Diomedea(2), figlia del medesimo. Andò poi addosso a Sciro(3) ed a Jerapoli, città opulentissime, cotale spedizione addimandandogli i suoi soldati; e in pochi giorni, niun ostacolo incontrando, le diroccò. Del resto, ovunque andava messe erano a ruba campagne per lunga pace pienissime d'ogni buona cosa, e gli abitanti n'erano da colmo in fondo ruinati: poiché ogni luogo creduto amico de' Trojani veniva senza misericordia spiantato e devastato. Questo fu cagione che i popoli circonvicini corressero a lui pacificamente; e perché i loro fondi non patissero, pattuirono di dare a lui la metà de' frutti; di che diedero e ricevettero promessa e fede a trattato di pace. Così pieno di gloria e di preda ritornò poscia all' esercito; ed in quel tempo un re degli Sciti, avendo inteso l' arrivo de' Greci nella Troade, andò a loro con molti doni.

(1) Isola dei mar Egeo in faccia alla Troade. Prima chiamavasi Issa. (2) Onero la chiama Diamene. (3) Generalmente si legge Firn: ma é errore. Piotisi però che non é già Pisola di tal nome, ma una città della Frigia. Veggasi Omero. Anche Jerapoli era città della Frigia, di cui parlano Vitruvio e .Strabone.

 

Capitolo XVII.

Come Achille andò ancora contro i Cilici; e come col bottino portò via Astinome ed Ippodamia, il padre della quale s’ impiccò.

Né fu Achille contento della mentovata spedizione; che di più si voltò contro i Cilici;(1) e prima assaltata Lirnesso, in pochi giorni oppugnandola se ne fece padrone; poi andò contro ad Eetione, che regnava anch'egli in que' luoghi, e l’ uccise; ed empiute le sue navi di doviziosissimo bottino, condusse seco Astinome, figliuola di Crisio, che era sposata al re. Di là sollecito andò a Pedaso ed incominciò a combattere quella città de' Lelegi(2). Ma Brise re di quel popolo veggendo la ferocia che nell' assedio i nostri mettevano e pensando niuna forza poter reprimere i nemici, niuna difendere i suoi, disperando di fuga e di salvezza, mentre gli altri erano intenti contro i nostri, ritiratosi nel palazzo s'impiccò. Né tardò molto la città ad essere presa, dove parecchi restarono morti, e fu portata via la figliuola del re, chiamata Ippodamia(3).

(1) I popoli della Cilicia erano a quel tempo divisi in due Provincie, di una delle quali era re Mirteto, che risiedeva in Lirnesso; dell'altra era re Eetione, e Teba chiamavasi ia sua capitale. Astinome da Omero é detta Criseide. (2) Si narra che i Lelegi, popolo vicino alla Cilicia, vedendo il loro paese devastato da Achille passarono nella Caria e si stabilirono vicino ad Alicarnasso.(3) Questa é la famosa Briseide di Omero.

 

Capitolo XVIII.

Come Ajace andò nel Chersoneso di Tracia  e pattuì con Polinnestore, che gli consegnasse Polidoro, figliuolo di Priamo, oltre gran quantità e d’ oro e d’ altre cose; e come andato contra i Frigj ammazzò in duello Teutrante e ne portò via Tecmessa.

Come Achille, Ajace Telamonio si mise in corso anch' egli, infestando in ogni maniera il Chersoneso di Tracia; e gli avvenne di avere a patti Polinnestore(1), re di quella regione: perciocché vedendo questi il valore e la gloria di Ajace né fidandosi delle proprie forze, spontaneamente si diede a lui. Ben é vero che quel principe comprò la pace colla nefandità di consegnare al greco capitano Polidoro, figliuolo di Priamo, che questi aveva dato nascostamente in cura a Polinnestore  affinché glielo allevasse. E costui dovette ancora sacrificare quantità d' oro e donativi di molte specie fatti ad ognuno per conciliarsi il favore de' nemici; e promise di dare ogni anno frumento per l' esercito, incominciando a riempierne le navi da trasporto che Ajace aveva seco; ed aggiungere nel rinunciare all' amicizia di Priamo spergiuri ed esecrazioni: a tai patti comprando la pace e la fede. Di là Ajace si mosse contro i Frigj, e penetrando nel loro paese uccise in duello Teutrante(2), che n'era il re; e presa ed arsa la città né portò via ricchissime spoglie ed insieme Tecmessa figliuola di Teutrante.

(1) Polinnestore era genero di Priamo, avendo sposata Ilione figliuola di quest' ultimo. (2) Alcuni libri lo chiamano Teutandro e Sofocle nell’ Ajace lo dice Trinità. Molle cagioni hanno potuto indurre varietà ne' nomi di persone e cose antiche. Sofocle fa dire a Tecmessa che suo padre s' ammazzò da sé; ma in Tecmessa ognuno vede la ragione di cosi dire, ancorché il fatto fosse accaduto diversamente.

 

 

Capitolo XIX.

Come Achille ed Ajace tornano colle spoglie nemiche al campo, e sono applauditi dai Greci; e come fu divisa la preda che portarono.

Così Achille ed Ajace, devastati ed espugnati tanti paesi e rendutisi chiari e magnifici per gran nome, da diversi luoghi quasi d' accordo ritornarono nello stesso tempo all' esercito. Quindi a voce di banditore radunati soldati e capitani ed entrati nel campo, ognuno d'essi venne esponendo in cospetto di tutti quanto aveva fatto ed ottenuto. Del che ebbero dai Greci applausi e lodi senza fine e furono in mezzo all'esercito solennemente incoronati con ghirlande di olivo. Cominciossi poscia a pensare di distribuire la preda; e ne fu dato il carico a Nestore e ad Idomeneo, uomini estimatissimi; e consentendo tutti dalla preda di Achille, eccettuatane Astinome, moglie di Eetione, che dicemmo figliuola di Crisio, una parte fu offerta ad Agamennone, in riverenza della regia sua dignità; ed Achille oltre la figliuola di Brise, Ippodamia, tenne per sé anche Diomedea(1), per la ragione che essendo della medesima età e pasciute alla medesima tavola, non senza sommo loro cordoglio potevansi separare; e già s' erano gittate a piedi di lui, con grandi prieghi scongiurandolo che non volesse che si distaccassero l'una dall'altra. Il rimanente poi della preda fu distribuito a ciascheduno secondo i meriti particolari. Ulisse e Diomede, così pregati da Ajace, fecero recare in mezzo la preda che questi aveva fatta, della quale tanto oro ed argento fu dato al re Agamennone quanto parve bastare; poi fu conceduta ad Ajace per merito degli egregj suoi fatti la figliuola di Teutrante, Tecmessa; e, divise per testa le altre cose, il frumento fu distribuito all' esercito.

(1) Mad. Dacier domanda come potevano essere queste due donne state educate insieme, se una veniva di Lesbo e l'altra di Lirnesso? Non si è essa certamente avveduta che Ditti non dice che fossero state educate insieme, ma semplicemente ejusdem censu et alimonia. Il che in uno scrittore vago di ricercati modi basta ad esprimere ch'erano state insieme, dacché erano fatte preda d' Achille: nè vuolsi di più per giovinette infelici a contrarre fra loro amicizia, consolandosi de' comuni infortunii.

 

Capitolo XX.

Come narrato gli ebbe Ajace il trattato con Polinnestore, i Greci mandano una imbasceria a Priamo per cambiare con Polidoro Elena, e le donne e le cose portate via di Sparta; e come andato anche Menelao parlò ai vecchi; e della impressione che a questi fece il discorso di Menelao.

Dopo ciò Ajace venne riferendo il trattato con Polinnestore e la consegna fattagli di Polidoro. Su di che fu comune opinione che Ulisse e Diomede andassero al re Priamo e ricevendo Elena e le donne e le cose con quella tolte in  Sparta, gli consegnassero questo suo figliuolo. Andando costoro con tale commissione, volle aggiungersi loro per terzo Menelao, giacché il passo che facevasi era tutto a riguardo suo. Andarono dunque a' Trojani tenendo in mezzo a loro il giovinetto. I quali tosto che il popolo vide e conobbe essere uomini di grande affare, presto fece radunare tutti i vecchi di cui solea comporsi il consiglio; ma i figliuoli ritennero Priamo, onde non intervenisse. Menelao intanto, presenti tutti gli altri, fra’ Greci prese a parlare dicendo essere quella la seconda volta che per la stessa cagione si presentava; e rinnovare le sue querele per l'assenza della moglie, riguardando tanto le molte ingiurie ch' egli e la sua casa aveva ricevute per quel fatto quanto i continui gemiti di una tenera figlia(1) obbligata a piangere veggendosi priva della madre; e tutte queste calamità ed offese venivangli da uomo stato una volta suo amico ed ospite; né certamente da lui meritate. Ora que' vecchi la dolente querela udirono lacrimando e tutto ciò che Menelao diceva approvarono, come se sentissero eglino medesimi l' ingiuria ch' egli aveva sofferta.

(1) Questa era Ermionte, che Menelao aveva avuta da Elena.

 

Capitolo XXI.

Come dopo Menelao parlò al consiglio de' vecchi di Troja Ulisse; e delle cose che loro dichiarò.

Dopo di che saltò su Ulisse; e fece il seguente discorso. « Io credo, o Principi trojani, che ottimamente sappiate non essere soliti i Greci a pigliare alcuna impresa a caso né senza prima assai maturarla: che certamente, siccome da' loro maggiori fu fatto in addietro, cercano essi che ogni loro intraprendimento ed azione risulti in loro lode; e non che debba loro cadere in biasimo. E per tacere delle antiche cose ben consultate, abbiatevi per esempio questo, che essendo poc’anzi la Grecia stata in sì notabil modo ingiuriata e vilipesa da Alessandro, non é subito corsa né alla violenza, né alle armi, come guida a fare la collera; ma posatamente consultando volle, se ben vi ricorda, che noi venissimo con Menelao ambasciadori per ricevere Elena. Né però intanto alcuna soddisfazione avemmo da Priamo e da' suoi figliuoli; ma solo ci fu risposto con superbe minacce, e tese ci furono occulte insidie. Non essendosi dunque fatta ragione alcuna alle giuste nostre istanze, uopo fu che si prendessero le armi; e che colla forza si cercasse quella ragione, che per amichevole mezzo non poté impetrarsi. Ma venuti qua con sì grande esercito raccolto da tutta quanta la Grecia e con tanti e sì egregj capitani, non reputammo ancora di dovere risolverci a decisivo combattimento; ma piuttosto seguendo il costume e la modestia solita, veniamo a voi per la seconda volta a farvi l’istanza che facemmo già. Siate voi, o Trojani, arbitri della cosa. Né a noi rincrescerà d' avervi dato luogo a ben consigliarvi, se d' uomini di sano giudizio é proprio correggere con salutare risoluzione le risoluzioni cattive dapprima prese. E per quanto riverite gli Dei immortali, priegovi che vogliate considerare le stragi, e dirò la pestilenza, che questo esempio può recare al mondo. Imperciocché qual saravvi quind'innanzi uomo di alcun affare, che ricordandosi di quanto ha fatto Alessandro, non sia costretto ad avere in ogni cosa sospetto il suo amico, e non debba temere in esso lui un insidiatore? Qual fratello si fiderà più di ricevere il fratello in casa sua? Chi non riguarderà omai l'ospite e il più stretto parente se non come un nimico da fuggire? E se mai foste per approvare, il che io non credo, il fatto di cui ci quereliamo, dovrete volere che tra Greci e gli altri popoli sia per sempre tolta ogni concordia, ogni patto, ogni principio di mutua pietà. Per la qual cosa, o Trojani, giusto é ed é utile che i Greci, restituito loro tutto ciò che per violenza fu loro tolto, siano amichevolmente mandati a casa; né fare che due regni tra sé concordi ed in amicizia pienamente uniti abbiano a venire alle mani. Le quali cose mentre io considero, non posso a meno di non trovare dolentissima la sorte vostra, mentre innocenti e senza alcuna colpa vittima della libidine di pochi sarete costretti a pagare il fio dell'altrui scelIeraggine! E siete voi soli a non sapere come sieno state trattate già le città vostre amiche e vicine a voi? o cosa già si prepari a quelle che vi restano ancora attaccate? Polidoro é prigione de' Greci, e da essi ogni sua sorte dipende: il quale potrà inviolato restituirsi a Priamo, se almeno ora ci si darà Elena con quanto insieme con essa fu portato via da Sparta. Se ciò non fia, non più oltre si differirà la guerra; né alla guerra si darà fine, se tutti i capitani, ognuno de' quali basta a distruggere la vostra città, non restino morti; o se, come spero che succeda, preso ed incendiato Ilio, non lascisi a' posteri l'esempio della vostra empietà. Onde, finché avete tempo, sapientemente provvedete a’ vostri casi. »

 

Capitolo XXII.

Come al discorso di Ettore risposero Panto ed Antenore; e del secondo discorso che tenne Ulisse essendo entrati in consiglio gli amici e gli stipendiati di Priamo. Conclusione de' vecchi; chi contraddicesse; e del rapporto ordinato a Priamo.

Come Ulisse ebbe finito di parlare, tutti aspettavano in gran silenzio, conforme suole avvenire in simili congiunture, che altri esponesse il suo parere; ognuno per sé non tenendosi da tanto in sì grande argomento. Se non che sorto Panto(1) ad alta e chiara voce disse: Tu hai, Ulisse, parlato ad uomini, i quali non possono alle cose usare rimedio, che col buon volere. E dopo lui soggiunse Antenore: Tutte le cose, che voi avete rammentate, noi conosciamo pienamente, e prudentemente comporteremo: né a ben deliberare mancaci il buon volere; ma ci sono tolte le forze; le quali, siccome vedete, stanno in mano di coloro che hanno l'imperio, e che alla utilità pubblica i loro particolari appetiti prepongono. Dette le quali cose egli fece introdurre per ordine tutti coloro i quali o per amicizia per Priamo od assoldati da lui condotto avevano truppe ausiliarie. Ai quali venuti dentro Ulisse parlò con un secondo discorso, tutti chiamandoli iniquissimi, né dissimili da Alessandro; perciocché toltisi da ciò che é giusto ed onesto, si facean seguaci dell' autore di una pessima scelleratezza. Né alcuno doveva ignorare che quando venisse approvata l' atroce ingiuria, datosi agli uomini sì mal esempio, anche i meno lontani commesso avrehbero tali e peggiori delitti. Che intanto come trattavasi di cose sì turpi tutti ne sentivano tacitamente nell' animo loro il giusto valore; ed abborrendo un tanto fatto ne prendevano lo sdegno che meritava. E poiché i vecchi secondo l’usanza ebbero esposto il loro parere, per consenso comune restò concluso che Menelao era stato indegnamente offeso; e Antimaco(2) fu il solo che in grazia di Alessandro dicesse contro l'opinione di tutti gli altri. Si nominarono due, i quali andassero ad informar Priamo di quanto si era deliberato; e questi ebbero per commissione di riferirgli ciò che concerneva Polidoro.

(1) Panto, secondo che abbiamo nella storia di Darete, era figliuolo di Euforbo. Fu sacerdote di apollo Delfico; e dicesi che il figliuolo di Antenore lo rapisse da Delfo, ove Priamo lo aveva mandato, e lo conducesse in Ilio ed ivi pure attese alle cose sacre. Sposò Pronome, figliuola di Clitio, e n'ebbe Polidamante, celebrato sovente da Omero come uomo distinto per prudenza e per la preveggenza delle cose future. Virgilio chiamò Panto ortriade. (2) Ditti pare l'unico che faccia menzione di questo Antimaco, del quale non avendosi altra notizia é venuto in testa a Madame Dacier di dubitare e di confonderlo con Archemaco, uno de' figliuoli di Priamo. Potrebbe però essere che nel passare il libro di Ditti per tante mani vi si fosse introdotto anche questo errore. Madama Dacier dice essere falso che il solo Antimaco parlasse contro la proposta di restituire Elena, mentre dello stesso sentimento furono Eleno, Deifobo, Polidamante ed altri. Egli é evidente che Ditti non dice che Antimaco fosse il solo che stesse per ritenere Elena, ma il solo , che nella congiuntura di cui si traita in questo capitolo parlasse in tal senso: cosa ben diversa.

 

Capitolo XXIII.

Come il re Priamo udisse i sensi de' Greci, e quanto riguardava Polidoro; e come i suoi figli gli impedirono di portarsi al Consiglio. Ivi Antimaco fa proposizioni combattute da Antenore, e per le quali é cacciato fuori.

Priamo, udito ch'ebbe queste cose, costernato massimamente per ciò che riguardava il figliuolo, alla presenza di tutti cadde tramortito a terra. E posciaché da chi era presente fu sollevato e ripigliò le forze, il primo suo pensiere fu di andare in consiglio: ma i figliuoli ne lo impedirono; e abbandonato il padre corsero essi con impeto violento là ove ancora stavano consultando i vecchi; e giunsero nel momento, in cui Antimaco seguitava a vomitare improperi contro i Greci, altamente protestando che allora soltanto sarebbesi lasciato partire Menelao, quando Polidoro fosse stato restituito; ed in ogni caso dover essere la medesima la sorte dell'uno e dell' altro. Incontro a queste cose, tacendo tutti, si fece animosamente Antenore, in ogni maniera ingegnandosi d'impedire che si adottasse tale risoluzione. E siccome dopo essersi acremente disputato prò e contro si veniva a' fatti, tutti quelli che trovavansi presenti proclamando Antimaco per un inquieto e turbolento uomo lo cacciarono fuori della curia.

 

Capitolo XXIV.

Come Panto con molte ragioni cercasse d’indurre Ettore a far restituire Elena; e la proposta che fece Ettore di dare a Menelao una figliuola di Priamo.

Ma usciti che furono gli altri figliuoli di Priamo, Panto prese da parte Ettore e vivamente, siccome tra que' principi era creduto e per valore e per consiglio uom buono, si pose ad esortarlo e a pregarlo che prima di tutto amichevolmente si restituisse Elena, giacché i Greci erano venuti supplichevoli a dimandarla. Né già era mancato tempo ad Alessandro di soddisfare al suo amore con lei, se per avventura ne avesse avuto; e dovere ognuno badare che i re greci erano presenti; e considerare gl'insigni loro fatti e la gloria tuttora recentissima che s'erano acquistata nel distruggere tante città amiche di Troja; e come per 1' orrore del commesso mal esempio Polinnestore avea spontaneamente consegnato Polidoro a' Greci. Dal che sorgere fondato timore, che tali sentimenti non entrassero eziandio nelle città circonvicine; e non si dessero a risoluzioni funeste a Troja. Né esservi di che fidarsi; anzi ogni cosa doversi avere per piena di contrarietà e d'insidie, se avvenga che si stringa l' assedio. Le quali cose, se tutti si porranno a riguardare nel vero loro aspetto, né più a lungo riterrannosi senza conclusione gli ambasciadori; e rimandando Elena amichevolmente, maggiore e più stretto vincolo di amistà stringerassi fra i due regni. Udite Ettore queste cose, sulla ricordanza del misfatto di suo fratello si fece alquanto tristo, né poté ritenere le lagrime. Però non pensava ch' Elena si dovesse tradire; perciocché ella in casa supplicato l' avea di proteggerla, ed egli vi si era colla sua parola impegnato. Disse nondimeno, che se provato si fosse che con lei altre cose fossero state tolte, d' esse doveasi fare restituzione; e che in fine per Elena data si sarebbe in isposa a Menelao con reali doni o Cassandra o Polissena; quella delle due, che gli ambasciatori sceglierebbono.

 

Capitolo XXV.

Come rispondesse Menelao alla proposta di Ettore e come Enea il ribattesse. Ulisse conclude; e il popolo si sdegna del discorso di Enea, e ne augura male.

A questo discorso di Ettore atrocemente irato rispose Menelao:” E bel trattamento invero sarebbesi questo, che ci verrebbe fatto, se spogliato del mio, altro matrimonio venissi obbligato a fare a tutta voglia de' miei nemici!”. Incontro a cui disse Enea: Ma né pure questo ti sarà conceduto, finché possiam parlare io e quanti siamo parenti ed amici, che le cose di Alessandro abbiamo a cuore(1): perciocché né manca, né mancherà mai gente, che la casa e il regno difendano del re Priamo; né se fia, che il re Priamo perda Polidoro, starassi egli orbo di prole, tanti e tali figliuoli restandogli. Ed é poi forse de' soli Greci il privilegio di tai ratti! e quello di trar da Sidone Europa, e di portarla in Creta; e quello di rapire da questi paesi nostri e da questo imperio Ganimede !.... E che poi dirò di Medea? Ignorate voi ch'essa da Colco fu portata tra’ Jolchi in Messenia? Né tacerommi pur qui quel primo famoso ratto, quando Io da' lidi sidonj fu obbligata a girsi ad Argo. Fin qui con voi s' é trattato in parole: or vi avviso, che se presto non isgombrate con tutte le vostre navi da questi lidi, vedrete di che polso sieno le armi trojane; perciocché a mercé grande degl' Iddii abbiam gioventù numerosa, che sa fare la guerra ed ogni giorno rinforzi ed ajuti ci arrivano. — Come Enea ebbe finito di parlare così, Ulisse con tranquillo tuono soggiunse: per ciò che veggo, non é più in poter nostro il differire le ostilità. Date dunque il segnale della guerra; e come da voi vennero le prime ingiurie, anche la guerra incominci da voi: noi provocati risponderemvi. — Gittate invano dall' una e dall' altra parte queste parole, gli ambasciatori si ritirarono. Il popolo appena seppe quanto contro loro avea detto Enea, s'alzò in tumulto, gridando che per cagione di lui andrebbe a ruina tutta la casa di Priamo, perciocché aveva coperto di tanta odiosità il suo regno  e sì mal partito aveva scelto.

(1) Enea ed Alessandro erano consobrini: perché, essendo nati da Troilo ed Assaraco, Ilo fu padre di Laomedonte, avo di Alessandro, ed Assaraco fu padre di Capi, avo di Enea. Madama Dacier anche qui oppone all' autore che Enea sempre operò per la restituzione di Elena; e porta in prova l'autorità di T. Livio. Noi la riguardiamo della stessa forza che quella di Virgilio. Però vedi Darete.

 

Capitolo XXVI.

Come gli ambasciadori ritornati al campo riferirono l’esito della loro missione, e come si decretò e fu eseguita sotto le mura della città la morte di Polidoro, il cui corpo però si diede ai Trojani(1). Spedizioni felici di Ajace Telamonio.

Gli ambasciadori ritornati all'esercito riferirono a tutti i capitani quanto contro d'essi i Trojani detto avevano e fatto. Laonde per prima cosa si determinò che in cospetto di tutti e sotto le mura stesse della città Polidoro fosse trucidato. Né si tardò a dare esecuzione a sì crudo fatto: imperciocché condotto in mezzo al campo, veggenti dalle mura moltissimi de' nemici, fu lapidato, vittima della empietà de'suoi fratelli. Dopo di che un banditore fu mandato a Trojani per annunciar loro che potevano dimandarne il cadavere, onde dargli sepoltura; e di fatti venne Ideo con alcuni servi del re a prenderlo tutto rotto ed insanguinato qual' era, e lo portò innanzi ed Ecuba sua madre. Intanto Ajace Telamonio, perché nulla fosse in quiete ne' paesi vicini a Troja ed amici di quella città, andò ad assaltarli ostilmente; e prese Botira e Cilla(2), ambe città nobilissime per ricchezze, nè contento di questo si voltò a saccheggiare Gargaro, Arisba, Gergeta, Scepsi e Larissa; il che fece con celerità mirabile. Indi avvisato dagli abitanti del paese, molti bestiami d'ogni genere essere sul monte Ida, andò colà speditamente con truppa ed ammazzati i custodi degli armenti e delle greggie  condusse via quanti animali egli volle; e poiché nissuno gli faceva fronte, volti già in fuga tutti ovunque egli capitasse, con immenso bottino ritornò a' suoi.

(1) Madama Dacier per convincere di falsità Ditti allega l' autorità di Virgilio e di Euripide, i quali dicono che Polidoro fu ammazzato da Polinnestore. Confessa poi che Omero ha detto una altra cosa, mentre ha asserito che Polidoro fu ammazzato da Achille. Ecco la logica dei commentatori! (2) Forse dovrebbesi leggere All'ira, città posta tra Lampsaco ed Abido, non lungi da Antandro. Botira non trovasi in nessuna parte. Cilla era nella Troade, non lungi da Tebe. Gargaro era sulla sommità del monte Ida. Arisba verso Abido nella Troade sul fiume Se Unite.Gergeta era nell'agro Lampsaceno.Scepsi altramente detto Palescepsi, o Scepsi antica, sul fiume Cebrene, situata sul più alto del monte Ida, poi trasportata in basso.  Larissa era sul Sigeo, dirimpetto a Tenedo. Nissuno de' commentatori avverte che di Cilla ha detto già nel cap. XIII che fu espugnata dai Greci. O là dehbe leggersi il nome d' altra città o qui debbesi supporre che Cilla avesse dato nuovo motivo ai Greci di andarle sopra un' altra volta.

 

 

Capitolo XXVII.

Come Crise andò ad Agamennone col simulacro d'Apollo e con doni per riscattare Astinome, che i Greci commossi giudicarono doversegli rendere senza riscatto.

In questo medesimo tempo Crise, che già dicemmo essere sacerdote di Apollo Smintéo, saputo che sua figliuola Astinome era presso Agamennone, fidato nel carattere che gli dava la religione di quel nume andò alle navi, portando in mano il simulacro del Dio e certi ornamenti del tempio(1), per più facilmente commovere colla mostra della divinità presente i re a portargli riverenza. E messi fuori assaissimi doni d’oro e d' argento, chiese di riscattare la figliuola, invocando che si facesse il debito onore alla immagine del Dio che seco veniva a pregare pel suo sacerdote. Espose ancora quanta persecuzione soffriss'egli ogni giorno più da Alessandro e suoi parenti a cagione che permesso aveva a’ Greci poco innanzi di far sacrifizio ad Apollo. Udite le quali cose tutti concordemente convennero che si restituisse al sacerdote la figliuola né doversi accettare alcun riscatto(2); perciocché egli era nostro fedele amico; e di più gli si dovea avere grande riguardo servendo egli al culto di Apollo, a cui. e per le prove che se ne avevano e per la fama che n'era sparsa tra paesani, destinato già avevano di rendere ossequio in ogni cosa.

(1) Questi ornamenti consistevano in una corona d' alloro e in uno scettro d'oro. (2) Madama Dacier seguitando il suo sistema di giudicare dello storico opponendogli l'autorità del poeta osserva a questo passo che i Greci, secondo che dice Omero, convennero bensì che Crise, reverendo sacerdote di Apollo, dovesse riavere la figliuola domandata, ma che s'avesse poi ad accettare il riscatto che ne offriva.

 

Capitolo XXVIII.

Come Agamennone con mali modi cacciò via Crise; e i Capitani dell’ esercito ne furono indispettiti ed Achille gli disse villanie.

Ma a questa deliberazione comune si oppose Agamennone, il quale acceso in volto d'ira minacciò al sacerdote la morte, se presto non si ritirasse; e in questa maniera atterrito e mal sicuro, senz' altra conclusione, fu quel vecchio cacciato del campo. I capitani però andarono ad Agamennone ad uno per uno e molte aspre cose gli dissero, come a quegli che per innamoramento di donna schiava sì mal conto faceva di sé stesso e, quello ch'era peggio, di un sì grande Iddio; e quindi con esecrazione il lasciarono: tanto più che ben rammentavansi come non senza consiglio suo Diomede ed Ulisse avevano a tradimento ammazzato Palamede, uomo sì caro ed accetto a tutto l' esercito. Achille fece di più, mentre in faccia di tutti coprì di contumelie lui e Menelao.

 

Capitolo XXIX.

Come ritornatosi Crise a casa sorse una orribile pestilenza nell’esercito de' Greci, e come l’ indovino Calcante interrogato disse procedere per lo sdegno d'Apollo, e doversi restituire Astinome al padre.

Crise carico di tanta ingiuria si ritirò in casa sua: né passarono molti giorni, che o fosse accidente o, come da tutti si credea, sdegno di Apollo, una malattia gravissima attaccò l'esercito. Incominciò essa dagli animali, di poi a poco a poco crescendo si sparse per gli uomini, de' quali miseramente gran numero moriva, dopo che da quella pestifera infermità erano stati tormentati. Ma nissuno de' re fu morto di quel male né in alcuna maniera da esso tocco. Bensì vedendo come sempre più crescea nella violenza ed ogni giorno multiplicavansi le morti, si unirono a consiglio tutti insieme, paventando di restar infine vittima anch' essi di tanto flagello; e domandarono a Calcante, che dicemmo già essere indovino, onde la cagione esplorasse e dicesse di sì grande calamità. Al che egli rispose vedere ottimamente quale ne fosse l'origine; ma non essergli permesso di favellarne per non incorrere nella disgrazia di potentissimo re. Le quali cose sentendo Achille, parlò a ciascuno de' capitani, inducendoli a giurare con sacramento che non sarebbesi tenuto offeso qualunque cosa Calcante avesse detta. Ed al solo Achille, che giurasse di ajutarlo colle parole e coll'opera. Il che avendo Achille giurato di fare, Calcante parlò. È facile, vedere cosa sia più verosimile.

(i) Omero dice a questo proposito , che Calcante dimandò allora costui, come fu assicurato di ciò, altamente indicò lo sdegno di Apollo: imperciocché irritato Co' Greci per l'ingiuria fatta al suo sacerdote, voleva soddisfarsene sull'esercito. E cercando Achille qual dunque fosse il rimedio al male, Calcante soggiunse a ciò solo poter giovare la restituzione della donzella.

 

Capitolo XXX.

Come Agamennone per sicurezza di sé armò i suoi; e come Achille fece fare un monte di cadaveri, onde render sensibile l’ atrocità di Agamennone, dichiarando di volere ammazzarlo se persisteva. E i Capitani andarono ad Agamennone riferendogli tale risoluzione, ed egli stette ancora ostinato.

Agamennone intanto, congetturando quello che poi accadde, uscito taciturno del consiglio diede ordine che tutti quegli che avea seco si armassero. Il che osservato da Achille, mosso a sdegno per questo fatto e addolorato in veggendo la ruina del travagliato esercito, fece raccorre da ogni parte i cadaveri de' morti, miseramente luridi e mal conci com' erano, e gittarli in faccia a tutti nel luogo del congresso. Colpì gravemente questo spettacolo i re e tutti gli altri, a modo che si deliberò di andare in corpo da Agamennone con alla testa Achille, che promosse la cosa; e che disse che quando Agamennone si fosse ostinato nel primo pensiere, se ne sarebbe fatta vendetta colla morte di lui. E così fu detto al re; ma o per l'animo suo pertinace o per accecata passione che avesse per la schiava, disposto a venire ad ogni estremità, per nulla si rimosse dal suo proposto.

 

Capitolo XXXI.

Come i Trojani prevalendosi della triste situazione de Greci vennero fuori coll’ esercito e si combattè sino a sera.

Poiché i Trojani videro dall' alto delle mura tanto spesso abbruciar di cadaveri e tanti seppellimenti e furono informati che anche gli altri erano assai indeboliti dal fiero morbo, fattosi animo, diedero mano alle armi ed accrescendo le loro forze con ausiliari uscirono fuor delle porte contro il nemico. Nel che fare divisero, subito che furono alla campagna, in due corpi il loro esercito, mettendosi alla testa de' Trojani Ettore e Sarpedone alla testa degli ausiliari. Allora i nostri, vedutisi venir contro i nemici, prese le armi e postisi in ordinanza composero un corpo di fronte semplice(1), al cui destro corno fu messo Achille con Antiloco, al sinistro Ajace Telamonio con Diomede; e nel centro Ajace Oileo e il nostro Idomeneo; e così marciarono al nemico. E come si fu per venire alle mani, ognuno confortò i suoi e si cominciò a combattere: nel che procedendosi, moltissimi dall'una e dall'altra parte caddero, distinguendosi in quella battaglia dal canto de' Trojani Ettore e Sarpedone  e da quello de' Greci Diomede e Menelao. La notte che sopraggiunse fece cessar dalla pugna, chiamando gli uni e gli altri al riposo; e ritirati gli eserciti, ognuno abbruciò i cadaveri de' suoi e li seppellì.

(1) Pare che con ciò voglia dire, che non vi fu corpo di rinforzo né di riserva.

 

Capitolo XXXII.

Come Agamennone pauroso di perdere il primato dichiarò di voler restituire Astinome, ma di volere in cambio Ippodamia. E Achille tacque, e mentre Astinome fu mandata a Crise, i littori condussero Ippodamia ad Agamennone, non resistendo nessuno. E come fu spedita a Filottete la sua parte del bottino.

Dopo questo fatto i Greci deliberarono fra loro di costituire re sopra tutti Achille, avendo in considerazione la distinta sollecitudine che mostrata aveva in tutti gli avversi loro casi. Ma Agamennone avendo paura di perdere il grado supremo di cui era investito parlò in consiglio dicendo: la salute dell' esercito stargli a cuore sommamente; né volere differir oltre la restituzione di Astinome al padre; massimamente se per tale restituzione potevasi l' istante ruina evitare, che pareva minacciata. Non dire egli né cercare di più; perché in luogo di Astinome, a cambio di quanto per la onorificenza sua perdeva, gli si desse Ippodamia, che viveva presso Achille. La qual cosa, quantunque come indegnissima facesse dispetto a tutti, pure nulla dicendo in contrario Achille che avuta l' aveva per premio di tanti egregj suoi fatti, fu eseguita. Tanto poté l' amore verso l' esercito  e la cura del ben comune nell' animo di quel giovinetto! Onde a contraccuore di tutti, sebbene niuno palesemente si opponesse, Agamennone, come se la cosa fosse universalmente accordata, ordinò ai littori(1) di levare Ippodamia dalla tenda di Achille; ed essi tosto ubbidirono al comando. Dall' altra parte i Greci mandarono al tempio di Apollo Astinome per mezzo di Diomede e di Ulisse con grandissimo numero di vittime. Dove fatto il sacrifizio parve che la pestilenza a poco a poco si mitigasse; che altri non ne venissero più attaccati e che quelli che n'erano già tocchi, quasi per divino ajuto, migliorassero: così che infine poco tempo andò che la sanità e il vigor solito rinnovaronsi per tutto quanto l' esercito. Fu in questo tempo che si mandò(2) a Filottete, il quale era a Lenno, la sua porzione della preda stata fatta da Ajace e da Achille e che già erasi distribuita, siccome s' é detto.

(1) Omero riferisce i nomi di costoro , dicendo che furono Taltllio ed Euribate. Omero dice di pi* , che beo altramente che tacendosi si stette Achille a tale sopraffazione di Agamennone. (2) Omero nomina in questa commissione il solo Ulisse.

 

Capitolo XXXIII.

Come Achille punto della toltagli donna deliberò di non più comunicare co' Greci, e si serrò nelle sue tende coi soli Fenice, Patroclo, e Automedonte.

Achille però sentendo in cuore tutta la sofferta ingiuria stabilì di ritirarsi da ogni pubblica radunanza, massimamente per l'odio che aveva contro Agamennone; e di dar bando all'amore che aveva avuto pe' Greci, giacché questi avevano potuto sopportare che sì vituperosamente gli fosse tolta Ippodamia, che stavagli per premio di tante vittorie e tanti fatti. Ed oltre ciò  non volle più ricevere presso di sé nissuno di quanti capitani venissero a lui; né perdonò a veruno degli amici, che abbandonato l’ avevano quando pur dovevano difenderlo contro le contumelie di Agamennone. Standosi adunque così ritirato, soli teneva presso di sé Patroclo e Fenice, suo ajo questi e l’altro suo carissimo amico; ed oltre loro Automedonte(1), ch'era il condottier del suo carro.

[ocr errors](1) Automedonte era figliuolo di Diore.

 

Capitolo XXXIV.

Come i confederati e gli stipendiati de Trojani pensarono di ritornare alle loro case; e come Ettore di ciò accortosi fece star tutti in armi; e poi li condusse contro i Greci a battaglia. Esposizione de' re  alleati, ed amici de' Trojani.

In Troja intanto sì l'esercito de' confederati che quelli che condotto avevano a soldo truppe ausiliarie, vedendo che la guerra non avanzava, fosse per tedio o fosse per tenerezza de' loro, desideravano di ritornarsi alle loro case. Di che avvedutosi Ettore, pressato dal pericolo, diede ordine che i soldati stessero in armi e che lo seguissero tosto che avesse fatto dare il segnale. Laonde subito che gli parve tempo opportuno e che fu certo tutti essere pronti, comandò che uscissero della città ed egli si mise alla loro testa. Sembra conveniente l' esporre quali fossero i re, gli alleati e gli amici di Troja e quali i presi a soldo come ausiliarii dai diversi paesi attaccati all' imperio di Priamo. Primo ad uscire dalle porte fu Pandaro di Licia(1), figliuolo di Licaone; poi Ippotoo e Pileo da Larissa(2)de' Pelasgi; poi Acamante(3) e Piro di Tracia. Quindi seguirono Eufemo trezenio(4), signor dei Giconii, Pilemene paflagone, glorioso per avere avuto Melio per padre; Odio ed Epitrofo  figliuoli di Minosse re degli Alizoni(5); Sarpedone figliuolo di Xanto e capitano de'Licii, proveniente da Solimo; Naste ed Amfimaco di Caria(6); Antifo e Mestle, meonii(7), figliuoli di Pilemene; Glauco(8) d' Ippoloco licio, che Sarpedone s'era fatto compagno di guerra, perché fra tutti distinguevasi nel suo paese per prudenza e valore; e Forci ed Ascanio di Frigia; e Gromi di Midone di Misia; e Pirecme peonio, nato sull'Assio; ed Amfio ed Adrasto, nati da Merope e venuti dalla contrada Adrastina; ed Asio d'Irtaco da Sesto, ed un altro Asio, figliuolo di Dimante, fratello di Ecuba, dalla Frigia(9). E tutti questi avevano seguito di molta gente ed erano di costumi rozzi e di favelle diverse, usi a combattere senza alcun ordine  e senza disciplina.

(1) Omero pone due Licie, una prossima alla Caria, di dove erano Sarpedone e Glauco, e l'altra nella Troade sotto al monte Ida. (2)Tre erano le Larisse, una in faccia d'Ilio, una non lungi da Smirne, una prossima ad Efeso. Si crede che qui si parli della seconda. (3) Questo Acamante era figliuolo di Easso re, per conseguenza diverso da due altri dello stesso nome, uno de' quali era figliuolo di Antenore e l'altro di Asio. Piro aveva per padre Imbraso. (4) Questo Eufemo era figliuolo di Trezenio e di Ceo. I Ciconii erano popoli della Tracia. (5) Questi Alizoni, che secondo alcuni degli antichi erano della Scizia europea e secondo altri della Misia, secondo Strabone prima chiamavansi Calibi ed erano in Patagonia verso la Colchide. (6) Erano figliuoli di Nominne. (7) I Meonii, di cui qui si parla, furono poscia detti Lidii. (8) Questo Glauco era nipote di Bellerofonte; ed era parente di Sarpedone, la cui madre, Laodamìa, era sorella d'Ippoloco. (9) La Frigia qui nominata era la così detta minore, molto lontana da Troja.

 

Capitolo XXXV.

Come i Greci si misero in buon ordine per sostenere l’incontro de' Trojani, toltone Achille, che aveva nuova ragione di disgusto; e come restati qualche tempo in faccia l'uno dell'altro gli eserciti si ritirarono senza essere venuti al fatto d’armi.

Il che osservato dai nostri, messisi in campagna disposero il corpo di battaglia secondo le regole militari, sotto la direzione e magisterio di Mnesteo ateniese, distinguendo le truppe per ciascuna nazione e per ciascun paese, restato in disparte Achille co' suoi Mirmidoni. Imperciocché mentre era sdegnato della ingiuria sofferta da Agamennone e della toltagli Ippodamia, nuovo motivo aveva inoltre avuto dall' altro fatto, che avendo Agamennone invitati tutti gli altri capitani a cena Achille solo per isprezzo aveva trascurato. Intanto per questa volta, mentre l'esercito era in ordinanza e tutto pronto al combattimento, niuno né da una parte né dall' altra ardì moversi: sicché dopo essersi i soldati per alcun tempo tenuti fermi, come quasi d'accordo, di qua e di là fu sonato a raccolta.

 

Capitolo XXXVI.

Come Achille si mosse inaspettatamente per vendicarsi de' Greci e come gli andò fallito il colpo, avendo i Greci per opera di Ulisse potuto armarsi; e come Ettore, volendo sapere cosa fosse il disordine osservato nel campo nemico, mandò un esploratore  che fu preso ed ucciso.

E già i Greci erano tornati alle navi ed incominciavano a metter giù l'armi e a ridursi ai luoghi ove per costume dovevano prender cibo, quando Achille smanioso di vendicare le ingiurie avute cercò nascostamente di assaltare i nostri, ignari di tal suo intendimento e lontanissimi del sospettarne. Ma Ulisse rendutone inteso dalle guardie, che della cosa ebbero qualche sentore, si mise a correre dappertutto, ad alta voce chiamando i capitani ed esortandoli, che dato di piglio alle armi si ponessero in difesa, manifestando ad ognuno il disegno e l' attentato di Achille. Per la qual cosa s' alzò da ogni parte un grande clamore, tutti volgendosi in furia alle armi e ciascuno a parte prendendo le misure opportune per la propria sicurezza. Ciò fece che Achille trovandosi scoperto e vedendo tutti in armi non potesse più tentar altro e ritornasse senza alcun costrutto alle sue tende. Intanto però i nostri capitani, dubitando che a quel subito rumore dei Greci potessero quelli d' Ilio macchinare qualche impresa, mandarono i due Ajaci, Diomede ed Ulisse a raddoppiare le guardie; e questi dì fatto si divisero pe' varj luoghi, pe' quali i nemici avrebbero potuto penetrare. Né la misura fu inutile, imperciocché Ettore desideroso di sapere la cagione del tumulto, che scorto si era nel campo de' Greci, aveva mandato Dolone, figliuolo di Eumede, ad esplorare la cosa, a ciò allettatolo con grandi premj e promesse. Ma costui venuto non molto lungi dalle navi per somma curiosità d' apprendere ciò che non sapeva e in tal maniera servire a chi lo mandava, capitò nelle mani di Diomede; il quale insieme con Ulisse faceva in quel luogo la guardia; e confessato tutto fu ucciso.

 

Capitolo XXXVII.

Come pochi giorni dopo i Trojani e ì Greci uscissero in campo per combattere.

Accadde poi dopo alquanti giorni d' ozio che dall'una e dall'altra parte si pensò a mandar fuori gli eserciti; e divisosi il campo, che si stendeva in mezzo fra la città e le navi, come parve tempo di combattere, tutte le truppe ben armate, e trojane e greche, incominciarono ad avvicinarsi. E quando fu dato il segno, strette nelle fronti le squadre attaccarono il fatto d'armi, colla differenza che i Greci ordinati nelle loro file eseguivano ogni comando de' loro capitani, laddove al contrario i Barbari senza disciplina e senza ordine abbandonavansi al loro impeto.

 

Capitolo XXXVIII.

Come nella battaglia, in cui molti soldati morirono e restarono feriti molti capitani, fuggendo Alessandro da Menelao fu da Ettore e Deifobo obbligato a ritornare indietro e a sfidare Menelao; il che fece.

Molti perirono da un lato e dall' altro; perciocché né si voleva da alcuno cedere il luogo al nemico, e cercavasi da altri di eguagliarsi nella gloria ai più valorosi ch' eran d' appresso e che davano esempio. Molti de' capitani essendo rimasti feriti furono obbligati ad abbandonare il campo. Fra i Barbari così fecero Enea, Sarpedone, Glauco, Eleno, Euforbo e Polidamante; fra i nostri Ulisse, Menelao ed Eumelo. Menelao avendo per avventura veduto Alessandro gli corse addosso con grande impeto, che quegli scansò; ma non avendo ardire di più a lungo sostenere l'incontro, prese le fuga. Il che da lungi osservatosi da Ettore, accorrendo alla volta di lui con Deifobo, amendue lo investirono con aspre ed ingiuriose parole, costringendolo a mettersi nel folto dell' azione e a sfidare Menelao onde venisse a misurarsi corpo a corpo stando gli altri a vedere. Tornato dunque Alessandro alla battaglia e fermatosi d'innanzi alle squadre, che era il segno di sfida, appena Menelao il vide da lungi, che pensando di aver finalmente opportuna occasione di assaltare nemico tanto a lui odioso, e lusingandosi di potere una volta spegnere nel sangue di lui tutte le ricevute ingiurie, con gran coraggio gli si mosse contro. E subito che l'uno e l'altro esercito li vide prossimi ad azzuffarsi, ad un segnale dato si ritirò.

(1) Madama Dacier avverte che Omero non fa entrare da quella. (2) Un'altra avvertenza di Madama Dacier. Omero scrive che i Greci e i Trojanì pattuirono che quale dei due campioni viucesse s'avrebbe Elena, e le robe portate con essa. Non ha ella con tutta la sua il olii ina pensato  che il poeta e lo storico non possono andare per la stessa via. Uno vuol colpire con bui quadri, l'altro non ha che da narrare le cose come furono.

 

Capitolo XXXIX.

Come Alessandro e Menelao incominciarono il combattimento; e Menelao avendo ferito Alessandro gli correva addosso colla spada per ammazzarlo, ma Pandaro ferì lui con una saetta ed Alessandro fu portato via da' suoi.

S'erano già avvicinati l'un l'altro di gran passo quanto sia il trarre di un dardo, quando Alessandro desideroso d’essere il primo a dar l'assalto e lusingandosi di trovar luogo a ferire, lanciò contro Menelao l'asta, la quale percotendo lo scudo agevolmente strisciò via. Lanciò poscia Menelao la sua con grande impeto e con effetto non molto dissimile; perciocché essendo già preparato il nemico a schivare il colpo ed avendo per ciò declinato della persona, l'asta andò a piantarsi in terra. Si mise quindi mano a' dardi dall'uno e dall'altro, e tornarono per ferirsi; sinché da ultimo Alessandro rimasto colpito in una coscia cadde a terra. E perché non fosse dato a Menelao di trarre con somma sua gloria la tanto sospirata vendetta, con pessimo esempio gli fu messo impedimento: imperciocché al momento in cui tratta fuori la spada egli correva per ucciderlo, fu nel suo impeto ritenuto per una saetta, che scagliatagli di nascosto da Pandaro lo ferì. Laonde si alzò da' nostri un clamor grande misto a sdegno, perché mentre i due, in grazia de' quali facevasi quella guerra, stavano per decidere tra loro ogni querela, da' Trojani fossero stati interrotti. Un drappello di Barbari con molta furia si fece innanzi e portò via Alessandro(1).

(1) E’ inutile dire come Madama Dacier ha notato tutte le circostanze diverse che in questo comhattimento Omero accenna.

 

Capitolo XL.

Come Pandaro, che seguitava ad ammazzare molti Greci col suo saettamento, fu morto da Diomede e come di nuovo azzuffatisi ì due eserciti si batterono sino a notte. Poi restarono un poco accampati e finirono a cagione della stagione col ritirarsi; e fu seminata parte del campo; ed Ajace andando a fare scorrerie in Frigia ne riportò molto bottino.

Nella confusione che nacque allora, mentre i nostri sovrappresi esitavano, Pandaro da lontano ne ferì molti di saetta; né dal saettamento suo micidiale finì se non quando, commosso Diomede dall'atrocità del fatto, venendogli vicino lo stese morto a terra con un colpo di dardo. E così colui che violato aveva le ragioni della guerra ed ammazzati molti, finì pagando il fio dell' iniquissimo modo suo di militare. Fu però il suo cadavere portato via da' suoi e i figli di Priamo lo fecero abbruciare e consegnarne gli avanzi a suoi compagni, i quali li recarono in Licia, seppellendoli nel suolo suo patrio. Nuovamente intanto si diede il segnale per combattere ancora; e si combatté dall' uno esercito e dall' altro con somma gagliardia e con incerta fortuna sino al cadere del sole. Sopraggiunta poi la notte i re d'ambe le parti, raccolte le loro genti a non molta distanza le une dalle altre, assicurarono gli eserciti con buone guardie: nella quale situazione restossi da tutti aspettando qualche occasione di attaccarsi di nuovo, tenendo i soldati sempre sotto le armi. La qual cosa però riuscì vana: imperciocché cominciando a venire l'inverno e la campagna empiendosi d'acqua per le copiose pioggie, i Trojani si ritirarono in città; e i nostri non vedendo più i nemici nel contorno presero il partito di andare alle navi, delle cose occupandosi che sono proprie dell'inverno. Dippoi compartendo il terreno che rimaneva non opportuno alla battaglia, si cominciò ad ararlo ed a seminarvi frumento ed a preparare quanto la stagione concedeva. Ajace Telamonio, messi in ordine i soldati che avea condotti seco ed alcuni anche avendone di quelli ch' erano nelle truppe d' Achille, con essi entrò nel paese di Frigia, ne devastò molti luoghi, prese varie città; e dopo pochi giorni carico di preda vittorioso ritornò al campo.

 

Capitolo XLI

Come Ettore fa una improvvisa sortita e sorprendendo i Greci penetra sino alle navi e vi fa metter fuoco; e come i Greci vanno ad implorare il soccorso di Achille.

Circa que' giorni stessi, mentre i nostri per l'inverno tenevansi quieti né sospettavano di ostilità, i Barbari prepararono una forte sortita, avendo Ettore per incitatore e capo. Uscì egli adunque sul primo albeggiare fuor della porta con tutte le truppe ben armate; e a gran corso le diresse immantinente alle navi, ordinandone l'attacco. I Greci ch' erano dispersi pel campo e non aspettavansi tale ventura, turbati per tanta forza che sì all' improvviso veniva loro addosso e nel tempo stesso dai primi de' loro, che assaltati dal nemico eransi volti in fuga, avendo impedimento ad armarsi, restarono in buon numero morti. E così tolti tutti quelli ch'eran di mezzo, Ettore penetrò fino alle navi; e già incominciato aveva a mettere fuoco alle prore e le fiamme dappertutto si alzavano, niuno de' nostri avendo ardimento di resistere; che anzi atterriti e per l'improvviso tumulto disanimati corsero a mettersi alle ginocchia d' Achille, implorando soccorso da lui che pure ostinatamente il negava. Cotanta mutazione di cose era sopraggiunta tra i nemici ed i nostri!

 

Capitolo XLII.

Come Ajace accorse ed incontratosi con Ettore lo ferì con un sasso; e come feriti molti de' capitani di Troja tutto l’esercito con grande sua rovina si volse in fuga e da Ajace fu fatta strage alla porta della città con morte di varj campioni.

Fortuna volle che sopravvenisse Ajace Telamonio in tale congiuntura; il quale udito Ettore presso alle navi, con grosso corpo d' armati si fece innanzi e molestando gagliardamente i nemici con gran pena infine arrivò a cacciarli delle navi e dello steccato. E poiché vide che cedevano, incalzandoli più fieramente vennero a trovarsi ov'era Ettore, che contro lui animosamente si volgeva(1); e con un grosso sasso tal colpo gli scagliò, che questi cadde a terra assai mal concio. Accorsero per altro pronti i suoi da ogni parte e col numero gli fecero barriera, così togliendolo alla battaglia e alle mani di Ajace; e il portarono mezzo morto in città: sì tristo fine per lui avendo avuta una sì ben cominciata sortita! Ma furibondo Ajace per vedersi tolto di mano sì bel trionfo, presi seco Diomede, Idomeneo e l' altro Ajace, si gittò addosso gagliardissimamente ai Trojani dispersi; e i fuggiaschi o da lontano col dardo facendo cadere od abbrancati da vicino ammazzando colle armi, niuno fu che a quella parte scampasse. In tanta trepidazione de' nemici Glauco d'Ippoloco, Sarpedone ed Asteropeo fecero per alcun tempo fronte al nemico per impedirgli d'inoltrarsi; ma poi coperti di ferite dovettero dar luogo. Al ritirarsi de' quali i Barbari, pensando di non avere più scampo perché restati senza capitani, disordinatamente spargendosi si ritirarono con grande furia verso la porta della città; ove impedito l'ingresso per la moltitudine di quelli che volevano entrare e l'uno sopra l'altro precipitandosi ruinosamente, furono sopraggiunti da Ajace e dagli altri, ch'erano seco. Grande fu il numero d'essi, che in tanta angustia restarono o feriti o morti e fra gli altri v'ebbero Antifo, Polite, Pammone e Mestore, figliuoli di Priamo; ed Eufemo trezenio, egregio capitano de' Ciconii.

(1) Anche a questi due capi Madama Dacier seguita a riferire ciò ohe di diverso ha scritto Omero. Il che certamente non può essere per provare che Ditti ha copiato il poeta, sebbene questo sia il suo tema principale.

 

Capitolo XLIII.

Come i Greci ritornati vittoriosi furono convitati da Agamennone ed Ajace fu da lui e da tutti gli altri commendato; e si restaurarono le navi a cui i Trojani avevano messo il fuoco e i Greci si riposarono.

Per tal modo i Trojani, che dianzi erano vittoriosi, mutata la fortuna delle armi alla venuta di Ajace  e volti in fuga i loro capi, scontarono la pena del loro disordinato modo di combattere. E poiché venuta sera si suonò a raccolta, lieti i vincitori ritornarono alle navi; ed Agamennone poco dopo gl' invitò a cena. Ivi egli molto lodò Ajace e di molti doni l'onorò, né delle sue inclite gesta tacquero gli altri; che anzi tutti ne encomiarono altamente la virtù, rammemorando le grandi imprese e le tante città della Frigia da lui distrutte ed il bottino trattone; e finalmente il gagliardo combattimento da lui sostenuto contro Ettore presso le navi e queste liberate dal prossimo incendio. Né alcuno dubitò che in quel tempo, attese le tante e sì grandi sue imprese, in lui non istessero tutte le speranze e tutto il vigor della guerra. Epio intanto in pochi dì restaurò le prore di due navi(1), alle quali il fuoco avea distrutta soltanto quella parte; e i Greci, tenendo per sicuro che dopo tanta rotta i Trojani non avrebbero pensato ad altra impresa, senza paura si misero a riposare.

(1) Queste due navi erano di quelle di Ajace e di Protesilao.

 

Capitolo XLIV.

Come per diligenza di Diomede e di Ulisse vedutosi arrivato sotto Troja Reso, che vi conduceva soccorso, furono le guardie di lui trucidate e lui stesso pur morto e se ne portarono via il carro e i cavalli; e come la mattina l’esercito greco fu pronto a ricevere l’ assalto de’ Traci, che volevano vendicare il loro re(1).

Se non che un altro fatto accadde, e fu questo. Reso, figliuolo di Eione, amico di Priamo e condotto a soldo da lui, s'era messo in cammino con gran numero di Traci. Egli al cader della sera fermatosi alcun poco presso una lingua di terra posta innanzi alla città ed attaccata al continente della medesima, circa alla seconda vigilia entrò ne'campi trojani e piantate le tende aspettò ivi il giorno. Il che di lontano veduto da Diomede e da Ulisse, i quali a quella parte facevano la guardia, pensarono tosto che quella fosse gente mandata da Priamo a scoprir terreno; sicché prese le armi e diligentemente considerato tutto all' intorno, mossero a quella volta. E poiché trovarono addormentate le guardie, come quelle che del fatto cammino erano già stanche, facilmente le ammazzarono; ed andati oltre sorpresero nelle tende il re stesso ed ammazzarono anche lui. Né credendo di dovere azzardare di più, presero il suo carro(2) e i cavalli nobilissimamente bardati e condussero tutto alle navi: il rimanente della notte ritiratosi poi ciascun d'essi a riposare ne' proprii alloggiamenti. E venuta la mattina riferirono agli altri capitani ciò che avevano fatto; e come si stimò che i Barbari entrati in furore per la morte del loro re avrebbero potuto assalirli, fecero che tutti i soldati stessero pronti colle armi ed aspettassero il nemico.

(1) Che avremo guadagnato udendo Madama Dacier ricordare  che Omero ed altri mettono l' arrivo di Reso prima dell' incendio delle navi e in quella notte stessa in cui fu preso Dolone? E i testimoni di Madama Dacier sono sempre poeti.(2) Si noti, che Madama Dacier dice risolutamente essere falso che i Greci conducessero via il carro di Reso, per la ragione che Minerva presso Euripide dice a Diomede non avere essi un luogo ove metterlo. Mi sarebbe paruto più convincente se Euripide avesse fatto dire a Minerva che Diomede non poteva condur via il carro di Reso, poiché Reso non aveva carro!!! Del resto Virgilio ha detto che Diomede fu sollecito di condur via i cavalli di Reso perche era stato pronunciato che se potevano bere l' acqua del Xanto e gustare il fieno di Troja, Troja sarebbe stata inespugnabile. Si sa che secondo i poeti la presa di Troja dipendeva da un centinajo di Se.

 

Capitolo XLV.

Come i Traci la mattina veduto morto il re assaltarono i Greci, ma furono esterminati; e i Greci presero ogni loro cosa.

E i Traci infatti tosto che risvegliati dal sonno videro ucciso il loro re e tutto manomesso entro le tende e i segni del carro e de' cavalli condotti via, tumultuariamente e senza nissun ordine, ma come il caso li univa insieme, a grave furia volavano verso le navi. I quali veduti in lontananza da' nostri, questi si strinsero tosto con buona disciplina onde sostenerne l'incontro; e i due Ajaci furono quelli che animosi si scagliarono addosso ai Traci e li ruppero. Poi si avanzarono gli altri capitani secondo l'ordine che tenevano ed incominciarono a farne strage; e dove i Traci erano in due o in più uniti insieme, li sbandavano con impeto e gli sbandati uccidevano, a tanto che nissuno sopravvanzò al macello. Dopo di che senza perdere tempo i Greci dato il segnale corsero alle tende, dove i pochi ch' erano rimasti alla guardia, vedutosi venir contro i nemici e miserabilmente dal terrore avviliti, perduto tutto corsero a rifuggirsi sotto le mura della città. Allora i nostri invadendo ogni cosa presero armi, cavalli ed ogni prezioso arredo e il tesoro del re e tutto quanto venne loro alle mani.

 

Capitolo XLVI.

Come i Trojani non diedero alcun ajuto ai Traci, e gli avanzi di questi fecero trattato coi Greci; e come Crise venne a ringraziare i Greci della figliuola restituita e la diede ad Agamennone; e come Filottete ritornò da Lemno.

In questa maniera i Greci, distrutto avendo i Traci e il loro re, vittoriosi con gran trionfo ritornarono carichi di preda alle navi: intanto che i Trojani, veduta la ruina de' loro alleati, non che a favor loro si fossero pur mossi, entro le loro stesse mura trepidavano. Quelli de' Barbari ch' erano restati per tanta sciagura abbattuti mandarono ambasciadori ai Greci per una tregua; e poco dopo colla solennità di un sacrifizio fu fatto tra essi e i nostri un trattato. Quasi nel tempo medesimo Crise venne all'esercito a render grazie ai nostri di quello che cortesemente si era fatto nel restituirgli la figliuola; ed avendola condotta seco, in considerazione delle magnifiche cose mandate e del liberal trattamento che udito aveva essersi fatta alla medesima, la diede ad Agamennone. Né guari andò ancora, che Filottete ritornò da Lenno con quelli che gli avevano portata la sua porzione di bottino; ma debole ancora di salute e mal reggentesi in piedi(1).

(1) Ditti accenna con molta semplicità il ritorno di Fitotlete e non ne dà la ragione. Ad onta di ciò Madama Dacier ricorda, che tutti gli altri universalmente dicono che i Greci mandarono ambasciadori a Lenno per farlo ritornare, non considerando che quelli i quali gli avevano portata la sua porzione di bottino potevano avere avuto questo incarico. Essa aggiunge che Igino dice quegli ambasciadori essere stati Ulisse e Diomede; che Ovidio nomina Ulisse solo; che Pausania nomina solo Diomede; che Sofocle accenna Pirro ed Ulisse. Tutto ciò le poteva più agevolmente far credere che nessuno di questi vi fosse andato.

 

Capitolo XLVII.

Come Ajace Telamonio propose di mandare oratori ad Achille onde riconciliarlo coi Greci; e come invitò Agamennone a prestare in ciò l’opera sua, al che egli acconsente; e vi sono spediti Ulisse, Ajace e Diomede.

Fattosi poi consiglio tra Greci, Ajace Telamonio avendo preso a parlare disse(1) doversi mandare ad Achille oratori che in nome de' capitani e dell' esercito lo pregassero a deporre gli sdegni e a ritornar in buona amicizia come prima con essi. Perciocché non era da trascurare un tanto uomo, spezialmente ora che andando bene le cose de' Greci e stati di fresco vittoriosi, avrebbe potuto capire, non farsi tale officio con esso lui per bisogno che se ne avesse, ma bensì per dimostrargli stima e per rendergli onore. E nello stesso tempo aggiunse che si pregasse anche Agamennone, onde coll' opera sua e di buona volontà coadiuvasse all' intento. Fece egli osservare che le circostanze volevano che da tutti si mirasse al bene comune, poiché si era lontani da casa  e in altrui paese e nemico, né con altra cosa meglio che colla concordia  poter essi, in tanta guerra e circondati da tanti pericoli per ogni verso, restarsi in sicurtà. Tutti, finito ch'ebbe di parlare, lodarono il suo proposto, non saziandosi di predicarlo come uomo che più d' ogni altro distinguevasi per forza di braccio e d'ingegno. Agamennone però disse, avere assai prima mandati molti per riconciliare Achille, e niuna cosa anche al presente stargli più a cuore. Quiudi ei pregò Ulisse ed Ajace onde volessero assumersi il carico di andare a nome di tutti ad Achille; massimamente che v' era da sperare che, essendo Ajace stretto parente di lui, più facilmente potrebbe riuscir bene. Accettarono essi la commissione promettendo di fare tutto ciò che potessero e Diomede di moto proprio dichiarossi pronto ad andare con loro.

(1) Io prego chi legge a fare le sue considerazioni sul ragionamento che Madama Ducier fa a proposito del discorso di Aiace. Chiunque, dic' essa, attentarnente leggerà quest'obbliquo discorso, sono certa che troverà in esso una meravigliosa inconseguenza. I Greci dicono che non per bisogno ch' abbiano di lui, ma per dimostrargli stima e per rendergli onore cercano l’amicizia di Achille: ma però lo pregano vivamente che voglia unirsi alla impresa lor , singolarmente in un tempo in cui lontani dalle loro case e in altrui paese e nemico, soltanto per la concordia possono restarsi in sicurtà. E finisce: a stento posso contenere le risa! lo non metto una parola del mio.

 

Capitolo XLVIII.

Come Agamennone fatto un solenne sacrifizio giurò che Ippodamia era inviolata e che pronto a restituirla offriva ad Achille in matrimonio una delle sue figlie con gran dote; e come Patroclo, udite sì liete novelle, andò a riferirle ad Achille.

Ciò concluso, Agamennone fece per mano di littori condurre la vittima per un sacrificio(1); e mentre due dai lati la tenevano sospesa, egli sguainata la spada la tagliò pel mezzo e la fece esporre al cospetto dei suoi. Quindi colla spada in mano ancora insanguinata passò in mezzo all' un pezzo e all' altro della vittima così consecrata. Udendo quanto si preparava, Patroclo sopraggiunse; ed allora appunto avendo Agamennone compiuto il rito ultimo, dichiarò giurando aver egli sino a quel dì ritenuta Ippodamia inviolata; né per cupidigia o per astio avere egli offeso Achille, ma unicamente per ira; che pur troppo suole essere cagione di molti mali. Ed aggiunse desiderare inoltre, se cosi piacesse ad Achille, di dargli in matrimonio quella delle sue figlie che a lui fosse più gradita(2), colla decima parte di tutto il suo regno e con cinquanta talenti per dote. Le quali cose udendo quelli che erano in consiglio, non cessarono di ammirare la magnificenza del re; e Patroclo spezialmente, il quale colla proposta di tante ricchezze e più ancora colla protesta che Ippodamia era intatta, andò ad Achille e tutte le dette e fatte cose gli narrò.

(1) Presso Omero non si parla che di aver fatto portare dell'acqua colla quale dopo lavate le mani s' era fatta libagione a Giove. (2) Tre figliuole aveva Agamennone, che Omero nominando comprende in un verso solo: Crisotemi, Laodìce  e Ifianassa od Ifigenia. Presso Omero parlandosi della dote offerta ad Achille dicesi di sette sole città e sarà ben meraviglia, se queste non oltrepassino la decima parte del regno di Agamennone. Omero non parla di cinquanta talenti; ma dice che darà dieci talenti d'oro, venti tripodi, venti grandi vasi, dodici cavalli e sette lesbiote: cosa che potrebbero avvicinare le somme, se ciò fosse necessario.

 

Capitolo XLIX.

Come gli oratori vanno ad Achille e sono ben accolti. Indi Ajace ed Ulisse gli parlano tanto delle cose passate quanto delle presenti offerte di Agamennone.

Avuta contezza Achille di tutto, incominciò a pensare in sua mente; e frattanto ecco giungere Ajace coi compagni, i quali entrati e benignamente salutati da Achille furono invitati a sedere, e volle Ajace accanto a sé. Il quale, colta l'opportunità di parlargli famigliarmente, con molta franchezza gli fece sentire il torto che aveva; perciocché in così gravi pericoli de' suoi non aveva voluto in alcun modo placarsi, avendo avuto cuor di soffrire la strage dell'esercito, quantunque tanti amici e parenti gli si fossero venuti a raccomandare inginocchioni. Dopo Ajace parlò Ulisse dicendo le cose accadute essere state di volontà degl' Iddìi; e passando poi ad esporre quanto in consiglio erasi deliberato e quanto promesso avesse e giurato Agamennone ed infine pregando che rigettar non volesse le preghiere comuni né rifiutare le offerte nozze: ed annoverò infine ad una ad una tutte le cose che gli si esibivano.

 

Capitolo L.

Come Achille rispose agli oratoti lamentandosi non tanto di Agamennone . quanto di tutti i Greci; e come variò Diomede; e Fenice e Patroclo si adoperarono perchè egli facesse pace.

Achille in risposta fece un lungo discorso. Incominciò dal ricordare tutto quello che egli aveva fatto ed operato. Poi i travagli sostenuti per comune utilità e le città prese nel tempo in cui tutti gli altri tenevansi in ozio; ed egli solo sollecitavasi giorno e notte inteso alla guerra, non avendo mai risparmiato né i suoi soldati né la persona sua e dando poi il bottino, onde a comodo comune fosse diviso. Eppure in ricambio a lui solo essersi fatto sì indegno smacco; e lui essere stato vilipeso a segno che se gli era strappata da' fianchi Ippodamia sua, prezzo di tante fatiche sostenute. Né di ciò essere del solo Agamennone la colpa; ma spezialmente essere degli altri Greci, che dimentichi de' benefizj erano passati tacendo sopra a tanta contumelia usatagli. Dopo ch' egli ebbe fatto fine al parlare, Diomede rispose. Delle passate cose, diss' egli, non giova tener conto; né l’ uom prudente deve ricordarle, poiché a far che non sieno accadute niun desiderio vale. E intanto Fenice e Patroclo si misero a baciare e le guancie e tutto il volto e le mani d' Achille e ad abbracciargli le ginocchia, scongiurandolo che volesse dar bando finalmente alla collera e far pace tanto per amore di coloro ch' erano venuti a pregarlo, quanto per amore di tutto l'esercito, che tanto era di lui benemerito.

 

Capitolo LI.

Come Achille si lasciò piegare, e andò all’adunanza de' Greci; ed Agamennone lo complimentò, e l’invitò cogli altri a cena, ove mentre tutti erano in festa, Agamennone diede Ippodamia a Patroclo perché la conducesse alla tenda d’Achille. Durando l’ inverno era una specie di tregua tra Greci e Trojani.

Achille colpito dalla presenza di sì prodi personaggi, dalle preci de' suoi famigliari e dalla considerazione che l' esercito era innocente, si lasciò finalmente piegare; e rispose che fatto avrebbe la loro volontà. Indi ad istanza di Ajace, allora per la prima volta dopo che s'era abbandonato alla mala collera, unito ai Greci andò in consiglio, ove fu da Agamennone salutato come re. Al quale atto acclamando gli altri, tutto poi fu pieno di lietissima contentezza. Agamennone inoltre tenendo Achille per mano condusse lui e gli altri capitani a cena; e non tardò molto, che mentre nel banchetto invitavansi l'un l' altro con lieti brindisi, Agamennone incaricò Patroclo di condurre alle tende di Achille Ippodamia con tutti quegli ornamenti che le aveva dati, e Patroclo eseguì volentieri l'incarico. Durando ancora l'inverno, i Greci, e i Trojani, o ad uno ad uno o più insieme, come l’ accidente comportava, mescevansi senza timore  o sospetto alcuno nel bosco di Apollo timbreo(1).

(1) Questo bosco era presso il fiume Scamandro.

 

 

 

LIBRO TERZO.

 

Capitolo Primo.

Come durante l’ inverno i Greci si esercitavano nelle cose della guerra; e i Trojani stavano in ozio; e come gli uni e gli altri andavano senza sospetti a far sacrifizi ad Apollo timbreo; ed erasi saputo, che le città dell Asia s'erano tolte dalla ubbidienza ed amicizia di Priamo.

Intanto differita per tregua ad altro tempo la guerra, i Greci attendevano diligentemente a tutte le cose che la buona disciplina militare richiedeva. Quindi dai capitani si andavano esercitando in tutti i modi i soldati; e distribuiti gli offici ad ognuno, nelle varie maniere di guerreggiare e di combattere tutti s'istruivano, chi maneggiando dardi fatti a guisa di aste, per lunghezza e peso alle aste non inferiori, chi pali abbruciati alla punta, non avendo dardi; e chi l'arco e le saette, e chi i sassi: in tutte queste cose occupati il più delle giornate. E tra i saettatori distinguevansi sommamente sopra gli altri Ulisse, Teucro, Merione, Epio e Menelao; tra quali però non é da mettere in duhbio che il più valente non fosse Filottete, egli che possedeva le saette d' Ercole, meraviglioso nel trarre a segno. Ma i Trojani e i loro ausiliari marcivan nell'ozio, non avendo disciplina militare né badando punto ad esercitarsi; e come si é detto già sovente, e Trojani e Greci senza alcun timore d'insidie o sospetto andavano a far sacrifizj ad Apollo timbreo. E fu in que' giorni, che venne nuova qualmente quasi tutte le città dell'Asia abbandonarono la causa di Priamo e ruppero ogni amicizia con essolui; essendo i Trojani venuti in sospetto a tutti pel fatto di Alessandro, da loro sostenuto di non avere alcun rispetto alle leggi della ospitalità; e saputosi inoltre  che in tutti i combattimenti i Greci erano restati vittoriosi e molte città da questi essere state prese e diroccale. Infine comune erasi fatto l' odio contro i suoi figliuoli e la sua dominazione.

 

Capitolo II.

Come portatosi Achille a vedere un sacrifizio, che Ecuba faceva ad Apollo, osservata Polissena se ne innamorò gagliardamente e mandò a domandarla ad Ettore; e che risposta questi gli desse.

Ora accadde che andando per avventura un dì Ecuba a far sacrifizio ad Apollo, venne desiderio ad Achille di vedere i riti e le costumanze dei Trojani; e con pochi compagni si portò sul luogo. Moltissime matrone erano con Ecuba; mogli de' principali di Troja e de' suoi figliuoli, le une per corteggiare la regina, le altre per pregare a grado de' proprii desiderj. E v' erano pure le due figliuole d' Ecuba stessa non ancora maritate, cioé Polissena e Cassandra, sacerdotesse di Minerva e di Apollo, vestite con ornamenti barbarici ed aventi sparsi sulle spalle di qua e di là i capegli; e Polissena medesima aveva suggerito l' apparato del sacrifizio che si voleva fare. Voltò gli occhi Achille per caso verso Polissena, e fu preso della bellezza di quella vergine donzella; e tanto forte fu il desiderio che di lei concepì, che partitone e ritornato alle navi il bollente affetto non si diminuì in esso lui alcun poco. E come furono passati parecchi giorni e l' amor conceputo durava e cresceva anzi più vivo, chiamato a sé Automedonte e comunicatogli l'innamoramento suo  il mandò ad Ettore perché gli ricercasse la donzella. Ma Ettore rispose essere bensì pronto a concedergli la sorella in matrimonio, ma volere che Achille gli desse in mano tutto l'esercito de' Greci.

 

Capitolo III.

Come Achille ricusate le prime condizioni di Ettore altre ne fece che furono rigettate da Ettore; ed Achille giurò di volere uccidere Ettore al primo fatto d’armi che succedesse. Come intanto incominciò a delirare d’ amore, e finalmente raccontò ad Agamennone e a Menelao il trattato. Su di che essi gli assicurarono in breve il possesso di Polissena, facendogli considerare lo stato di Troja.

Achille offrì invece che avendo Polissena in matrimonio farebbe che si finisse tutta la guerra: ma Ettore insistette in volere che o s'impegnasse a dargli in mano l'esercito od almeno gli desse morti i figliuoli di Plistene ed Ajace: senza di che non avrebbe più né detta né sentita parola sul proposito di quel matrimonio. Udito ciò Achille, preso da grande sdegno, esclamò che tosto che fosse venuto il tempo di combattere, al primo fatto d'armi avrebbe ucciso Ettore. Indi preso da somma agitazione d'animo ora delirando vagava incerto qua e là, ed ora ruminava nella sua testa come mai riuscir potesse nel divisato suo intento. Automedonte, vedendolo tormentato da tanta inquietudine ed ogni giorno più accendersi nel primo desiderio e girar la notte come pazzo fuor delle tende, concepì timore che si lasciasse andare a qualche eccesso o verso sé medesimo o contro i sopraddetti re. Quindi manifestò la cosa tanto a Patroclo quanto ad Ajace. Ambedue i quali, senza dar segno di nulla, si posero a stargli d'attorno. E non tardò molto che un giorno, rinvenuto a sé, chiamati Agamennone e Menelao, tutta significò loro la cosa e quanto cioé aveva fatto e qual era il desiderio suo; dai due re ottenendo in risposta che stesse di buon animo; perciocché non andrebbe guari, che sarebbe padrone di ciò che pregando non aveva potuto impetrare: nel che egli medesimo pose fede, mentre le cose de' Trojani declinavano già al loro tramonto. Imperciocché le città dell' Asia, che abbandonata avevano 1' amicizia de' figliuoli di Priamo, spontaneamente venivano offrendo di dare ajuto a noi e a prendere con noi parte alla guerra; e i nostri capitani anzi erano costretti a rispondere ad esse, che di uomini avevasi già il bisogno né occorrere ausiliarj; accogliere essi però l'amicizia che si esibiva; e la buona loro volontà non potere non essere grata a tutti. Il che non dicevano senza rammentare che labile é la fede; e poco da apprezzarsi né senza sospetto d' inganno un sì subito cambiamento degli animi.

 

Capitolo IV.

Come venuta la primavera i Greci e i Trojani vennero a campo, e fattasi battaglia Diomede e ldomeneo fecero molta strage de' nemici; ed Ettore corse in ajuto de’ suoi.

Ma già passato l' inverno e giunta la primavera, fu pubblicato presso i Greci l' ordine che ogni soldato fosse sull' armi; e dato quindi il segnale fu messo a campo l' esercito. Né fecero meno i Trojani. Onde presto usciti in ordine di battaglia gli uni e gli altri trovaronsi a fronte non distanti più che un trarre di dardo; e collocata la cavalleria nel mezzo, onde potesse per la prima muoversi, essendosi da ognuno per una parte e per l'altra aringato si venne alle mani. I principali tanto de'nostri quanto de' nemici montarono su loro carri per combattere ed ognuno era provveduto di un valente auriga per guidare i cavalli. Il primo che così andasse innanzi tra nostri fu Diomede, che con un colpo d' asta ammazzò Pirecmone re de' Peonii; quindi gli altri de' quali a cagione del lor valore quel re s' era circondato e che stretti insieme facevano resistenza, in parte da lontano a furia di dardi dissipò ed in parte schiacciò ed arruotò sotto il suo carro. Altrove Idomeneo, che aveva per condottiere de' suoi cavalli Merione, rovesciò Acamante re de' Traci e subito gli fu addosso e l' uccise(1). Ettore, che combatteva in altra parte, subito che seppe che i suoi nel centro erano in rotta, lasciati in suo luogo alcuni assai valorosi si voltò a portare ajuto colà, seco menando Glauco, Deifobo e Polidamante: né v'é dubbio che ivi i Trojani sarebbero stati distrutti, se col suo arrivo egli non avesse obbligato i nostri ad arrestarsi e i suoi a non fuggire. Laonde i Greci impediti a più oltre far macello degli altri, a piè fermo si misero a menar le mani contro i sopraggiunti.

(1) Omero suppone, che questo re fosse ucciso da Merione; qui la ragioue dell’equivoco é manifesta.

 

Capitolo V.

Come Ettore fece molte prodezze; e ferì vari Capitani greci; e come Achille andando contro lui uccise il re Pilemene.

Saputosi a un tratto da tutto l'esercito dove il forte dell' azione erasi ridotto, tutti gli altri capitani, avendo provveduto a quanto abbisognava nel luogo in cui erano, corsero a quella volta. Per conseguenza ivi si fece grande massa di gente e la battaglia diventò più gagliarda. Ettore, tosto che vide aver presso gran numero de' suoi e si credette sicuro, prese assai animo; e a gran voce chiamando ciascuno a nome, li eccitò a battersi arditamente; ed intanto procedendo innanzi nella mischia venne a ferire Diore, Polisseno(1) ed Epio, che pur si battevano con valore. Ma quando Achille lo vide tanto valido contro i nostri, desiderando da un canto di soccorrere quelli che Ettore combatteva e dall' altro inviperito del rifiuto fattogli di Polissena, gli andò contro; e per primo colpo, entrato in mezzo alla folla, rovesciò di fronte Pilemene(2), re de' Paflagoni, poiché faceva impedimento al suo inoltrarsi. Pilemene passava per consanguineo de' Priamidi, poiché tenevasi per uno di quelli, i quali ripetevano la loro origine da Fineo(3), figliuolo di Agenore, da cui era venuta Olizone, data in matrimonio a Dardano.

(1) Omero suppone che Diore fosse ucciso da Piroo imbraside e non parla della morte di Polisseno. Darete dice uccisi Diore e Polisseno da Ettore. (2) Omero suppone Pilemene morto per mano di Menelao. (3) Ditti é il solo che racconti questo aneddoto. Apollodoro parlando di Fineo lo dice bensì figliuolo di Agenore, ma gli dà per moglie Idea nata di Dardano, anzi che avess' egli data per moglie a Dardano sua figliuola Olizone.

 

Capitolo VI.

Come Ettore scappò per Achille, che gli uccise l’auriga; e come punto Achille della fuga di Ettore ammazzò molti Trojani; e come Eleno ferì lui in una mano; onde finì di combattere.

Ma Ettore, vedendo tanta furia di gente venirgli contro e pensando alle cagioni dell' odio che gli portava Achille, non ebbe ardimento di affrontarne l'impeto e si sottrasse. Achille però l’inseguì quanto l'affollamento de' combattenti gliel permetteva; e non potendo raggiungerlo gli tirò da lontano un dardo che ne colpì e stese morto l' auriga(1), dappoiché Ettore sceso del carro erasi già fuggito verso altra parte. Ma quanto fu Achille punto vedendosi tolto dalle mani l'uomo che più di ogni altro teneva per nemico altrettanto diventò più accanito; e cavato del corpo dell' auriga il dardo col quale l'aveva ucciso, incominciò a dare addosso a tutti quelli che gli si presentavano e ad atterrarli e a calpestarli e a farne scempio di ogni maniera. Mentre così da ogni parte il terrore faceva fuggirli d' innanzi la gente, Eleno lo adocchiò e cercando ove poterlo sicuramente ferire, tenendosi dietro a qualch' uno, gli tirò da lungi una saetta la quale andò a passargli una mano(2). E così quel tanto valoroso campione, pel cui arrivo sul luogo Ettore era fuggito e molti erano stati uccisi insieme coi loro capitani, per tal cagione in quel giorno restò di combattere.

(1) Questo auriga chiamavasi Cebrione , ed era un bastardo di Priamo. Omero suppone ch'egli fosse morto da Patroclo con una pietra aguzza. (2) Tolommeo Efestione dice che Eleno aveva avuto quella saetta da Apollo. La invulnerabilità di Achille non era dunque che una favola immaginata da' poeti Perciò Omero non parlò di questa ferita.

 

Capitolo VII.

Come Agamennone e Menelao combattendo in altra parte uccisero molti figliuoli di Priamo; e come Patroclo si batté con Sarpedone e lo trasse a morte.

Mentre queste cose seguivano, in altra parte Agamennone e i due Ajaci facendo crudel macello della turba volgare incontrarono parecchi figliuoli di Priamo e li uccisero. Agamennone uccise Arreto, Dejopite, Archemaco, Laodaco e Filemone; Ajace Oileo e il Telamonio misero a terra Melio, Astigono, Doriclo, Ippotoo e Ippodamante(1). Non era meno viva in altra parte la battaglia, dove Patroclo e il licio Sarpedone(2) collocati ne' corni e rimasti lontani dagli altri combattenti vennero in disparte a duello fra loro. I quali, dopo che s' ebbero reciprocamente tratto i dardi senza ferirsi, scesero dei carri loro e, messa mano alle spade, si azzuffarono insieme. E già da molto tempo battevansi senza che alcuno d'essi fosse rimasto ferito, quando Patroclo vedendo necessario un ardito colpo, strettosi nelle armi e ben coperto si buttò addosso al nemico e colla destra lo ferì alla gamba in modo, che tagliati i nervi, non potendo più reggersi, Sarpedone vacillò, cadde e fu ucciso.

(1) Si sono rettificati alcuni di questi nomi col testo di Apollodoro alle mani, giacché come corrono nelle edizioni di Ditti non corrispondono al complesso dei documenti che si hanno. (2) Omero descrive questo combattimento tra Patroclo e Sarpedone in diversa maniera. Dic’ egli che Patroclo avendo scagliata l'asta pel primo ammazzò Trasimede, auriga di Sarpedone; e che questi aveva ammazzato coll' asta sua Peduso, cavallo da maneggio di Patroclo: che poi pel movimento inopportuno de'cavalli essendo andato a vuoto il secondo colpo d'asta di Sarpedone, Patroclo fatto impeto contro di lui lo aveva ferito ai precordi.

 

Capitolo VIII.

Come i Trojani si volsero contro Patroclo; ed egli ferì Deifobo e gli ammazzò un fratello; e come Ajace ammazzò e disperse i Trojani ch' erano intorno a Patroclo; e venuto ivi Ettore la battaglia si fece più forte, ma non si decise; e giunta sera gli eserciti cessarono di combattere.

Vedendo tal fatto i Trojani, ch' erano presso, alzarono dolentissime strida ed usciti degli ordini ad un segnale che fu dato si volsero contro Patroclo, tenendo perduto tutto per la morte di Sarpedone. Ma Patroclo avendo preveduta la cosa presto levò di terra il suo dardo e ben fermo nelle armi con grande ardimento si piantò saldo per resistere. E come gli stava sopra Deifobo coll'asta, avendolo sotto il colpo lo ferì nella tibia e l' obbligò a lasciare il campo; ma prima gli aveva ammazzato il fratello Gorgizione(1). Di lì a poco sopraggiunse poi Ajace, e quanti nemici erano ancora lì presso furono dispersi. In questo mentre avvisato Ettore di ciò che era accaduto arrivò a quel luogo e richiamati i suoi tosto in buona ordinanza, gridando a' capitani, fece voltar faccia agli altri: così che per la presenza sua vennero a prendere coraggio tutti; e la battaglia si ripigliò. E allora dall'una e dall'altra parte fattosi cuore per opera de' capi dell' esercito fieramente si combatté con varia fortuna, gli uni incalzando i fuggiaschi, gli altri ritornando sostenuti da chi entrava fresco nella zuffa. Dell' uno e dell' altro partito moltissimi furono morti, senza che l' esito della battaglia si decidesse. E poiché si fu durato per molta parte del giorno ed ognuno era già stanco, avvicinandosi la sera, conforme ognuno desiderava il combattimento cessò.

(1) Omero suppone che questo Gorgizione fosse ucciso da Teucro in un altro fatto d'armi. Di questo Gorgizione parla anche Apollodoro.

 

 

Capitolo IX.

Come in Troja si fece gran piagnisteo per la moria di Sarpedone; e i Greci andarono a visitare Achille e gli altri feriti; e come, quando questi furono risanati, si ripresero le armi.

Allora portato in Troja il cadavere di Sarpedone fu universale piagnisteo e delle donne massimamente che di lutto e di disperazione empivano tutta la città, alle quali la morte de' figliuoli di Priamo non sarebbe stata di tanto affanno; perciocché in Sarpedone ponevasi ogni speranza e mancato lui non credevasi di poterne aver più. I Greci dall'altro canto, ritornati che furono ai loro alloggiamenti, prima d' ogni cosa andarono a vedere Achille, ricercando che fosse della sua ferita; e vedendo che non se ne doleva lietissimi si posero a raccontare le valorose imprese di Patroclo. Indi si mossero a visitare in giro gli altri feriti; e poscia ognuno si ritirò alla sua tenda. Achille molto lodò Patroclo quando questi ritornò, forte animandolo onde anche in seguito, memore delle belle cose già fatte, più gagliardamente e valorosamente si diportasse contro i nemici. In questa maniera fu da Greci passata quella notte; e venuto poi giorno da ogni parte si andò a raccogliere i cadaveri de' suoi e si abbruciarono e seppellirono. E dopo alquanti giorni, risanati già quelli che erano stati feriti, si diede mano di nuovo alle armi e si posero i soldati in ordine di battaglia.

(1) Omero dice che i Trojani non poterono portar fuori del campo il cadavere di Sarpedone, ma che lo lasciarono in potere de' Greci, i quali lo spogliarono. E dice che Apollo avendolo unto con ambrosia e vestito di abiti immortali lo consegnasse alla Morte ed al Sonno, affinché lo portassero in Licia ove da suoi fu seppellito.

 

Capitolo X.

Come i Trojani misero fuori l'esercito prima del tempo, sorprendendo i Greci, e molti di questi restarono o morti o feriti; e come accorso Patroclo fu ucciso da Euforbo ed Ettore voleva portarne via il cadavere, impeditone poi da Ajace; e viene ammazzato Euforbo.

Ma i Barbari, secondo la pessima loro costumanza, non tenendo conto della buona disciplina e fidando soltanto nel disordine e nelle insidie, tacitamente e prima del tempo uscendo a campo,  anticiparono la battaglia; e come ruinoso torrente con altissimo clamore e con dardi e saette assaltarono i nemici, che trovavansi ancora senz'armi e senza ordine(1). Quindi vennero morti assai de' nostri, fra quali furono Arcesilao beozio e Schedio crisseo(2), entrambi ottimi capitani: gli altri per la massima parte furono feriti; e tra essi Mege ed Agapenore, l' uno comandante nelle Echinadi, l'altro in Arcadia. Nella quale luttuosa angustia de' Greci, volendo Patroclo vincere la fortuna della guerra, mentre fa coraggio a'suoi e dà addosso ai nemici con più ardore che non s' usa in guerra, cade al suolo trafitto da un dardo di Euforbo(3); ed Ettore volandogli sopra immantinente l' opprime e lo copre in ogni parte di ferite; quindi tenta di trarlo fuori della battaglia, per farne spettacolo di ludibrio alla insolenza de' suoi(1). Ma di ciò avvedutosi Ajace, lasciato il luogo in cui combatteva, corse ratto e coll'asta fece forza, onde quel cadavere non fosse strascinato via siccome s'incominciava a fare. Intanto Menelao e l'altro Ajace circondarono Euforbo, che ucciso aveva quel giovin guerriero, e gliene fecero scontare la pena. Venendo sera la battaglia ebbe fine, con danno e disonore de' nostri, ch' ebbero tanta gente uccisa.

(1) Madama Dacier si ride di Ditti, che chiama pessima costumanza quella di assaltare i nemici in tempo, in cui non sono preparati. Io credo che ciò mostri piuttosto il carattere dello storico. (2) Omero suppone Arcesilao ucciso da Ettore, e non con Schedio, ma con Stichio, compagno di Mnesteo. In quanto a Schedio lo suppone ucciso parimente da Ettore,. ma accanto al cadavere di Patroclo. (3) Anche Omero attribuisce la morte di Patroclo ad Euforbo, dicendo che gli conficcò l' asta in mezzo alle spalle; e che poi Ettore correndogli addosso gli aprì colla sua il fianco. In quanto appartiene alla morte di Euforbo, Omero l'attribuisce a Menelao.

 

Capitolo XI.

Come tutti i re Greci finita la battaglia vanno a condolersi con Achille, ch’era inconsolabile per la morte di Patroclo e per la qualità delle ferite.

Separatisi gli eserciti ed i nostri ridotti in sicuro, tutti i re furono ad Achille, contraffatto pel tanto piagnere e come morto per la forza del suo dolore; al quale non potendo resistere, non trovando quiete siffattamente s'era abbandonato, che ora vedevasi prosteso per terra, ora buttato sul cadavere(1). E tanto lo stato suo colpì gli animi degli astanti, che Ajace, il quale erasi mosso per consolarlo, finì egli stesso con piangere amaramente. Né era tanto la morte di Patroclo che a tutti recasse sì grande angoscia, quanto il considerare fin dove la rabbia de' nemici lo avesse voluto offendere, le più sacre parti del corpo suo veggendosi crudelmente traffitte(2). Ed era questa la prima volta che tra gli uomini vedevasi uno scempio di tale maniera, per l'addietro ignoto a' Greci. Adunque i re con molte preghiere e con ogni specie di conforto fecero che Achille s' alzasse di terra; indi lavato il cadavere fu coperto con una veste, massimamente per coprir le ferite, le quali per la singolare loro quantità non potevano mirarsi senza eccitare gemito in tutti.

(1) Omero dice che Achille si bruttò di nera polvere. (2) Omero non parla di questo genere di ferite.

 

Capitolo XII.

Come per consiglio di Achille si mettono guardie perché i nemici non assaltino il campo mentre si fanno i funerali di Patroclo; e come con molta pompa il cadavere di lui viene abbruciato.

Fatte queste cose Achille ricorda la necessità di mettere buone guardie, onde i nemici, vedendo i nostri intesi ai funerali, non intraprendano secondo il loro uso d'assalire il campo. E diffatti furono a tale uopo distribuiti gli uomini opportunamente; ed accesi qua e là i fuochi tutta la notte si stette sull' armi. Venuto poi giorno fra i capitani si scelsero cinque, i quali andassero sul monte Ida a far legna per abbruciare il cadavere: imperciocché era stato per universale consenso determinato che se gli farebbe un funerale pubblico. Andarono dunque Jalmeno, Ascalafo, Epio, Merione e l'altro Ajace. Poi Ulisse e Diomede stabilirono il luogo in cui s'aveva a fare il rogo, che fu lungo quanto comportano cinque aste, e largo egualmente(1). Quindi portata la legna si costrusse il rogo, e messovi sopra il cadavere se gli diede fuoco. Il cadavere era stato adorno regalmente con ogni sorta di preziosissime vesti, di tale faccenda essendosi incaricate lppodamia e Diomedea, la quale seconda era stata al giovine singolarmente carissima.

(1) Omero dice che il rogo di Patroclo fu di cento piedi per ogni verso.

 

Capitolo XIII.

Come i Trojani alcun tempo dopo improvvisamente vennero una mattina a dardeggiare i Greci sin sotto i ripari e infine furono messi in fuga.

Passati pochi giorni e ristorati i capitani dalle fatiche di tante veglie, una bella mattina di assai buon'ora fu messo in campo l'esercito tutto armato e vi stette la giornata intera aspettando che i Barbari si presentassero. Ma essi stettero a contemplarli dalle mura e rimisero la battaglia ad altro giorno. Dunque i Greci al tramontar del sole ritornarono alle navi. Ma la susseguente mattina i Troiani credendo di trovare ancora i Greci in disordine saltarono repentinamente con molta petulanza ed audacia, com'erano soliti, fuori delle porte; ed avvicinatisi allo steccato di circonvallazione cominciarono a gara a far piovere loro addosso un nembo di dardi; non però con un esito corrispondente, poiché i nostri seppero porsi in misura per ripararsene; e fu questa la cosa sola che potessero fare. Gran parte della giornata consumarono i Barbari in questa opera e stanchi già vedevansi nè più veementi come prima: onde preso quel contrattempo i nostri uscirono fuori da un lato ed urtandogli gagliardamente sul fianco sinistro li ruppero e li misero in fuga; né guari andò  che fecero la stessa cosa dall' altro fianco coll'esito stesso.

 

Capitolo XIV.

Come molti de’ Trojani in questo fatto et anni furono morti, e furono morti ancora o feriti alcuni de’ Greci; e come essendosi presi vivi parecchi de’ primi e due figli di  Priamo, furono dati ad Achille  che gli fece scannare sul rogo di Patroclo e diede ai cani i corpi dei due Priamidi, giurando di non cessare di dormir sulla terra finchè non si fosse vendicato di Ettore.

Così gran numero de' Barbari, ignominiosameme voltate le spalle e come vigliacchi inseguiti, fu rotto e fracassato. E fra i più distinti che in quella occasione caddero, furonvi Asio(1), figliuolo d'Irtaco, e Pileo(2) ed Ippotoo; questi due signori de' Larissei, il primo di Sesto. E Diomede in quel dì ne prese dodici vivi(3), ed Ajace cinquanta; ed oltre questi furono presi Iso ed Evandro(4), ch' erano figliuoli di Priamo. De' Greci poi restò ucciso Guneo(5) re di Cifo; e Idomeneo, capitano nostro, restò ferito. I nostri, quando i Trojani si furono chiusi in città e tutto all'intorno fu quieto, spogliarono i cadaveri de' nemici e portatili in riva al fiume di là li precipitarono nell'acqua; il che fecero in vendetta dell' insolenza che poc'anzi i Trojani usata avevano con Patroclo: i prigionieri furono consegnati ad Achille. Aveva Achille spento già il fuoco del rogo con molto vino, e le reliquie raccolte del suo amico, volgendo in mente o di riportarle alla patria ritornando o, se altro di lui la sorte facesse, di farle unire alle sue in un medesimo sepolcro; sì cara avendo egli sopra tutto la memoria di quell'amico carissimo. Adunque i prigionieri offertigli fece condurre là ov' era il rogo di Patroclo, insieme coi due figliuoli di Priamo; ed ivi un poco lungi dalle brage li fece scannare, dedicandoli ai mani del morto: de' reali giovani dando poscia i cadaveri da straziare e divorare a' cani; e che Achille trovatili sul monte Ida li fece prigioni e li mandò con riscatto. (6)

(1) Omero suppone Asio ucciso da Idomeneo. (2) Darete dice che Pileo fu ammazzato da Achille. (3) Omero attribuisce questo fatto ad Achille. (4) Apollodoro mette Evandro fia i figliuoli di Priamo; ma Omero non ne fa menzione. Egli nomina soltanto Iso come bastardo; ed auriga di Antifo , uno dei figliuoli legittimi di Priamo; e dice, giurando, che non avrebbe cessato di passare tutte le notti sul nudo suolo, fin tanto che non gli fosse riuscito di vendicarsi col sangue dell' autore di tanto suo lutto. (5) Omero parla di Guneo, ma non dice che fosse ammazzato. (6) Omero , che come si é detto , fa menzione di dodici prigionieri fatti da Achille , li dice abbruciati sullo stesso rogo con Patroclo. Presso Omero Achille aveva già ucciso attore quando fece i funerali a Patroclo.

 

Capitolo XV.

Come Achille sorprende Ettore al passaggio di un fiume, mentre questi andava incontro alle Amazoni, e lo ammazza con tutti i suoi, e fa tagliare le mani ad un altro figlio di Priamo e poi lo manda a Troja; e come attaccato il cadavere di Ettore pei piedi al carro, lo strascina a gran furia al campo.

Ma non passò molto, che seppesi come Ettore con pochi armati era ito ad incontrare Pentesilea, regina delle Amazoni(1), la quale non si sa se per soldo o per solo desiderio di far prove di sé  venisse in ajuto di Priamo. Erano queste Amazoni donne bellicose, formidabili a' loro vicini e celebri nel mondo pel valore nelle armi. Achille pertanto presi seco alcuni suoi fidati con assai prestezza andò a mettersi in agguato e a tagliare la strada al nemico non sospettoso di ciò. Così avvenne(2) che mentre Ettore incominciava a entrar nel fiume per passar oltre, fu ad un tratto circondato; e così, tanto egli quanto tutti quelli ch'erano con esso lui, ignari delle insidie, furono improvvisamente colti ed ammazzati; e ad un altro figliuolo di Priamo, preso vivo, vennero tagliate le mani e in quella figura mandato a Troja a dar la nuova di quello ch' era succeduto. Achille inferocito dalla stessa morte del maggior suo nemico e dalla memoria del tanto dolore che gli aveva cagionato lo spogliò delle armi e legatolo pei piedi(3) lo attaccò al suo carro: poscia salì su questo; ed ordinò ad Automedonte che lasciasse sciolte ai cavalli le redini. In tal maniera strascinollo a tutta corsa per la campagna, sicché potea vedersi da tutti lo strazio miserabile che faceva del suo nemico; e fu questo un genere quasi nuovo di pena e miserabilissimo.

(1) Molti altri scrittori hanno detto che le Amazoni andarono in soccorso di Troja. È meraviglia che Omero non abbia parlato dì esse. Madama Ducier dice che credette indegno del suo poema il mescervi donne. A me pare che lo avrebbe abbellito di più. Né certamente Marfisa, Bradamante, Clorinda pregiudicano al Furioso e alla Gerusalemme. Mad. Dacier, che riguarda Omero considerino rigoroso almeno quanto felice poeta, aggiunge che le Amazoni non sono che un soggetto favoloso. Ma di Amazoni é piena la storia dell’ Asia, dell' Africa e dell' America; ed é più inverisimile che tante nazioni fra esse lontane per lingua, per tempi e per luoghi si sieno accordate in queste finzioni, di quello che sia inverosimile l’esistenza di donne guerriere, viventi abitualmente senza uomini ed usando con alcuni soltanto a certe epoche per averne figliuole. Veggansi le lettere americane del Carli. (2) E’ noto a tutti che Omero racconta la morte di Elitre in assai diversa maniera. (3) Questo crudele costume fu proprio dei Tessali, che strascinavano i corpi degli uccisori de' loro amici sul sepolcro di questi. Dicesi che il primo a darne l'esempio fosse certo Simone di Tessaglia, che così fece col cadavere di Euridamante, figliuolo di Mìdio, il quale aveva ammazzato Trasuno, fratello d'esso Simone.

 

Capitolo XVI.

Come alla nuova della morte di Ettore i Trojanì caddero in inesprimibile dolore, e disperarono delle loro cose.

Quando dalle mura di Troja si videro le spoglie d Ettore che i Greci per ordine di Achille misero in mostra, e l'altro figliuolo di Priamo, conciato come s'é detto, arrivò colà e raccontò il fatto, sì grande fu per ogni parte della città il lutto e tanto forti s'alzarono le strida, che si credette che gli stessi uccelli dal rumore cadessero a terra tramortiti: molto più che alle strida dei dolenti Trojani s' aggiunsero i clamori insultanti di tutto l'esercito nostro. Immantinente gli usci di tutte le case furono chiusi e le botteghe ed ogni altro luogo; e la corte mutò gli abiti; e di squallore e tristizia tutto si empì, non riconoscendosi più Troja per dessa. E come appunto al divulgarsi pessime nuove accade, di subito grandi crocchi di gente si videro per le strade e le piazze; e di subito questi sciogliersi, ponendosi gli uomini in una specie di fuga e facendo solitarj i luoghi dianzi pienissimi di gente. Poi s' udivano spessi gemiti; poi succedere tristissimo silenzio: né ben sapendosi come la cosa fosse, e massima però essere la calamità, molti temettero che alla notte i Greci sarebbero venuti ad assaltare le mura e a diroccar la città, se erano sicuri della morte di tal capitano. Alcuni tenevano inoltre per cosa certa che Achille avesse tratto a sé l' esercito che Pentesilea conduceva in ajuto di Priamo. Ed infine, morto Ettore, ripudiavasi tutto come già perduto; già i nemici padroni della città; già tutte depredate le ricchezze; già niuna speranza più di salvamento; poiché Ettore solo era quello che sempre bilanciando la vittoria aveva combattuto contro tante migliaja di soldati e di capitani nemici, famosissimo presso le nazioni come guerriero, in cui erano del pari forza e consiglio.

 

Capitolo XVII.

Come i Greci all' opposto confortatisi fecero grandi giuochi in onore di Patroclo; e dei premj che ebbero Eumelo , Diomede e Menelao.

Al contrario, ritornato che fu Achille alle navi e il cadavere di Ettore esposto alla vista di tutti, il dolore per la sorte di Patroclo venne alquanto mitigato nei Greci, vedendo in fine morto il più formidabile loro nemico e di ciò concependo naturale allegrezza. Quindi, poiché non s' aveva timore d' essere disturbati, fu comune piacere che ad onore di Patroclo si facessero solenni giuochi, come era costume. Non però lasciossi di provvedere che tutti quelli dell' esercito i quali non prendessero parte ne' certami  stessero in armi e fossero pronti ad ogni congiuntura, caso mai che il nemico, quantunque abbattuto, con qualche insidia com' era solito fare, pensasse ad alcuna sortita. Fu poi pensiero di Achille che si destinassero ai vincitori premj, che a lui parevano maggiori. Il che fatto e data ogni altra disposizione necessaria, invitò i re tutti a prender posto per assistere allo spettacolo; ed egli si stette nel mezzo seduto più alto degli altri. Il primo ad essere proclamato vincitore fu Eumelo, che corse colla quadriga. Diomede ebbe il primo premio della biga e Menelao il secondo(1).

(1) Omero non parla che di bighe; e furono cinque, secondo lui, i contendenti. cioé Eumelo, Diomede, Menelao, Antiloco e Merione. Vinse Diomede, dopo lui Antiloco, terzo Menelao, Merione il quarto ed ultimo Eumelo, il quale sarebbe stato il primo, se Minerva non gli avesse spezzata la biga!!

 

Capitolo XVIII.

Come Merione ed Ulisse ebbero il premio del tirare a segno; e come Filottete si ebbe uno doppio per una sua maggiore virtù in tal genere(1).

Vennero poscia le prove di quelli che erano più valenti nel trarre a segno; e Merione ed Ulisse piantarono due alberi, dall' uno all' altro de' quali tirarono di traverso un sottilissimo filo di lino ben assicurato ad ambi i capi; e in mezzo al medesimo fu attaccata una colomba, che il vincitore doveva colpire. I molti che provaronsi  mandarono a vuoto le freccie: Ulisse e Merione furono quelli che ferirono la colomba.

(1) Secondo Omero, Achille piantò un albero a cui con una fune legò una colomba, la quale chi colpisse sarebbe il vincitore; e da meno sarebbe chi colpisse la fune. Sorse, dic'egli, Teucro e torse Merione. Teucro tirò pel primo la saetta e tagliò la fune precisamente nel punto in cui teneva legati i piedi alla colomba la quale liberata volò per aria. Merione le tirò mentre s'alzava alle nubi e la ferì sotto l'ala, di modo che ritornò a posarsi sull' albero, allungò il collo, stese le ali e cadde. Ai quali mentre tutti applaudivano, sorse Filottete, il quale si proferse di colpire non la colomba attaccata al filo, ma il filo medesimo: e poiché l'impresa parve ai re difficilissima, Filottete vi si accinse; e non meno felicemente che accortamente riuscì nell' intento, così che rotto il filo videsi cader giù la colomba con infiniti evviva de' circostanti. Ebbero Ulisse e Merione i premj destinati alla prima prova; e per la seconda Achille ne diede straordinariamente a Filottete uno doppio.

 

Capitolo XIX.

Come altri ebbero i premj per altri giuochi: come non fu dato premio per quello della lotta; e come Achille oltre a premj distribuì anche dei doni onorevolissimi a tutti.  

Nella corsa distesa fu vincitore Ajace Oileo(1); e il secondo Polipete(2). Della doppia ebbe il premio Macaone; e della semplice l' ebbe Euripilo. Al salto vinse Tlepolemo: al cesto Antiloco. Nissuno ottenne il premio della lotta(3), perché Ajace avendo abbrancato a mezzo il corpo di Ulisse cacciandolo a terra, questi nel cadere lo imbarazzò nelle gambe e tanto strinse, che impedito di tal maniera, nell' atto ch' era per rimanere vittorioso, cadde a terra anch' egli. Ma Ajace ebbe la palma nel giuoco dei cesti(4) e in ogni altro di mani. Diomede riportò da ultimo il premio per la corsa colle armi in dosso(5). Distribuiti poscia che furono tutti i premj, Achille presentò il primo dono, che a lui parve onoratissimo, ad Agamennone(6); il secondo diede a Nestore ed il terzo ad Idomeneo: quindi altri ne distribuì a Podalirio e a Macaone e agli altri capitani a proporzione del loro merito; ed altri in fine ne offrì pe' loro compagni morti in guerra, onde, quando fosse venuto il tempo, li portassero ai parenti di quelli. Finite le prove e la distribuzione dei premj, essendo già venuta sera, ognuno si ritrasse alle sue tende.

(1) Secondo Omero Ajace Oileo precedeva già Ulisse ed Antiloco; ma nell'atto ch'egli era ornai alla meta, cadde sopra una massa di letame bovino, onde Ulisse potè corrergli avanti ed ottenere il premio. (2) Omero dice che Polipete vinse al cesto. (3) Ecco come Omero racconta il fatto. Ajace ed Ulisse per quanti sforzi avessero fatto, nissuno d'essi poteva, non che mettere a terra l'altro, nemmeno smoverlo del posto. Finalmente il Telamonio disse: Ulisse generoso, o alza me o lascia che io alzi te; ed alzò egli per primo Ulisse; ma Ulisse gli ferì il di dietro della coscia e così lo cacciò a terra a pancia in su e gli andò sopra. Poi ambedue si drizzarono in piedi. Allora U/iise abbrancò alla meta del corpo Ajace e mentre cominciava ad alzarlo di terra, l’altro colle ginocchia lo imbarazzò e caddero entrambi. Volevano fare il terzo tentativo, quando Achille li separò, dichiarando che erano vincitori ambedue.(4) Omero scrive che Epeo vinse nel pugillato.(5) Omero suppone che Ajace si battesse con Diomede non alla corsa, ma a duello vero, cioè a chi farebbe il primo far sangue al suo avversario.(6) Secondo Omero Achille aveva proposto il premio per chi meglio saettasse; Agamennone e Mertone s' alzarono per mettersi alla prova; e Achille diede il premio ad Agamennone perché per universale consenso superava tutti in forza e in abilità nel saettare.

 

Capitolo XX.

Come Priamo si mosse per andare ad Achille, e della comitiva che aveva seco; e come incontrato dai re Greci fosse trattato da Nestore e da Ulisse; e come Achille mandasse Automedonte a riceverlo.

Ma appena sorta l'alba(1) Priamo coperto di lugubre vesta, non più pel dolore avendo segno alcuno della maestà di re né vestigio del nome e della fama, di che in addietro era sì grande, colle mani piegate e supplichevole in ogni suo atto venne a trovare Achille, accompagnato(2) da Andromaca, che non faceva minore pietà di Priamo: tanto era per ogni maniera contraffatta! e seco erano Astianatte, ch' altri chiamano Scamandro, e Laodamante(3), piccoli suoi figliuoli, presi per far valere di più le preghiere del re, il quale dal dolore egualmente che dalla vecchiezza indebolito sostenevasi appoggiato alle spalle di Polissena sua figliuola. Venivano poi dietro ad essi alquanti carri carichi d'oro, d' argento e di mobiglia e suppellettile preziosa(4). I Trojani dalle mura vedevano questa comitiva, la quale giunta all'esercito greco grande ammirazione e silenzio universale cagionò. E i re curiosi di sapere la cagione di tal venuta gli si mossero incontro. Priamo, tosto che li vide presso, cadde boccone per terra; e sparso di polvere e d'ogni altra sordida cosa il capo, si pose a pregarli, perché commiserando la cattiva sua fortuna volessero seco lui venire ad intercedere presso Achille. Nestore rammentando i bei tempi e la prospera fortuna di Priamo n'ebbe pietà. Al contrario Ulisse si pose a dirgli villanie, commemorando ciò che in Troja nel consiglio prima che s'intraprendesse la guerra egli aveva detto agli ambasciadori. Portato l'annunzio della venuta del re ad Achille, questi mandò a riceverlo Automedonte; ed egli prese in grembo l'urna contenente le ossa di Patroclo.

(1) Omero dice che Priamo andò alle navi di sera, avendo trovato Achille a cenare. Servio dice che Priamo trovò Achille a letto; ed aggiunge che lo risvegliò dal sonno, onde pregarlo a dargli il cadavere del figlio, quando poteva ucciderlo, sebbene Omero per vergogna di Achille abbia ciò taciuto. (2) Omero non dà altri compagni a Priamo fuori d' Ideo, suo banditore, che guidava il carro. Vi aggiunge poi Mercurio, onde farlo entrare nel campo e nella tenda d'Achille senza essere veduto dalle guardie. Ma questa é poesia.(3) È notabile questo secondo figlio di Ettore, Laodamante. Ornero non gliene ha dato che uno, e questi fu Animane, ossia Scamandro. Anassicrate gliene dà due; ma mentre ne indica uno col nome di Scamandro, all'altro dà quello di Amfìneo. (4) Omero suppone tutto il convoglio di Priamo fatto di un carro solo, in cui sedeva egli; ed in esso era posto quanto portava ad -Achille. Se per avventura Ditti avesse finto tutto ciò che dice, sarebbe qui più poeta di Omero stesso e forse anche più conseguente..

 

Capitolo XXI.

Come entrato Priamo ad Achille gli fece una dolentissima orazione.

Entrato insieme co'nostri capitani, Priamo abbracciando le ginocchia d'Achille gli disse: « Di questa mia fortuna non se' tu la cagione; ma bensì un qualche Dio, il quale mentre dovea aver pietà di questi miei ultimi anni, ne ha cacciato in tante disgrazie, consumando gli avanzi della mia vita col lutto di tanti figli. Essi fidando nella gioventù e nella potenza del regno e abbandonandosi ad ogni loro desiderio hanno di loro propria mano fatta la loro e la mia ruina. Né v'é dubbio che i giovani hanno a sprezzo la vecchiaja. Che se colla mia morte fia possibile che gli altri riducansi a temperanza, possa pur io morire! e se vuolsi, m'offro a tal pena, poscia ebe ridotto all'estremo delle disgrazie, col debil fiato che mi avanza, mi torrai da tutte le miserie che oggi mi rendono spettacolo infelicissimo all'universo. E son qui pronto né prego in contrario. O se così piacciati, abbimi prigioniero; che già nulla più mi rimane della condizione passata, mentre ucciso Ettore tutta la potenza del regno cadde seco lui. Ma se alla Grecia, quanta essa è, per l'imprudenza de'miei abbastanza si é soddisfatto mediante il sangue de' miei figliuoli e le tante calamità mie, abbi pensiero agli Dei; e moviti a pietà, concedendo almeno a questi fanciulli che te la domandano, non la vita, che non é più in mano di alcuno, ma la salma del loro padre. Vogliti ricordare delle cure e delle vigilie per te sostenute dal genitor tuo; e possa a lui tutto sortire secondo che il cuor suo desidera; ed avere una vecchiezza tutta differente da quella che é toccata a me! »

 

Capitolo XXII.

Come non potendo Priamo per isfinimento di forze parlare di più, destò gran compassione; e di ciò che disse Andromaca e della oltre parole di Priamo poiché sì riebbe.

A mano a mano ch'egli parlava vedevasi mancargli il fiato ed illanguidire le membra; onde non poté più proseguire: e questo miserando spettacolo addolorò tutti quelli ch' erano presenti. Indi Andromaca mise a’ piedi di Achille i piccoli figliuoli d'Ettore; ed essa con doglioso pianto pregò che almeno le fosse dato di vedere il cadavere del marito! In mezzo a sì luttuosa scena Fenice si mosse ad alzare da terra Priamo, insinuandogli di confortarsi. Il quale, ove fu alcun poco riavuto, stando com' era sulle ginocchia e con ambe le mani lacerandosi il capo, disse: ove, ove é essa la misericordia, che tanto grande soleva esser ne' Greci ? Si é ella spenta solamente per Priamo?

 

Capitolo XXIII.

Come Achille fieramente rispose a Priamo; e di ciò che disse sui motivi della guerra fra Greci e Trojani.

E stando tutti dolorosamente commossi Achille disse aver esso Priamo dovuto fin da principio contenere i figliuoli da sì indegne azioni, onde colla sua connivenza non rendersi complice del loro mal fare. E non essere stato dieci anni innanzi tanto dalla vecchiezza consunto, da essere venuto a sprezzo a' suoi. Il desiderio dell' altrui roba averli tentati; né per una sola donna, ma per le ricchezze di Atreo e di Pelope in villana maniera essersi essi costituiti rei di rapina: per lo che bene stavano loro le sofferte pene, ed altre loro sovrastarne maggiori. I Greci fino a quel tempo, usando buona ragione anche in guerra, essere soliti a restituire per dar loro sepoltura i corpi di tutti i nemici morti in battaglia. Ma Ettore al contrario avere oltrepassato questa legge di umanità cercando di portar via dal campo il cadavere di Patroclo per villaneggiarlo e bruttarlo: cosa, che appunto meritava d' essere scontata con giuste pene e supplizi; onde i Greci ed ogni nazione quind'innanzi memori della presa vendetta difendessero le ragioni della condizione umana. Che finalmente non per Elena né per Menelao erasi condotto qua l'esercito, abbandonando il proprio paese e i figliuoli; né per essi tolleravasi con tanto sangue e loro e de' nemici ogni crudo servigio di guerra; ma per sapere se i Barbari od i Greci dovessero prevalere nel mondo; quantunque pur fosse che giustissima cagione di portar qua la guerra aveva potuto essere il fatto della donna: perciocché se di ciò che i Trojani avevano rapito altrui si compiacevano, gravissimo doveva essere il dolore di quelli a cui recato erasi ingiuria e danno. E qui molte maledizioni imprecò ad Elena; e protestò che preso Ilio, primo di tutto, avrebbe fatto a lei scontare col sangue il fio del commesso peccato: in grazia solo della quale lontano dalla patria e dai genitori perduto aveva anche Patroclo, unico suo conforto nella solitudine che soffriva.

 

Capitolo XXIV.

Come i Greci conclusero doversi prendere i doni di Priamo, e dargli il corpo di Ettore: come Polissena commosse Achille; e come Priamo si lasciò indurre ad abbandonare le insegne del lutto.

Quindi s’ alzò per consultare cogli altri capitani: i quali tutti furono della unanime opinione che ricevuti i regali portati si consegnasse il chiesto cadavere; e cosi concluso ognuno ritornò alle sue tende. Poi Polissena, rientrato che fu Achille, buttatasi alle ginocchia di lui spontaneamente esibì di starsi sua schiava, con che egli concedesse il corpo di Ettore. Al quale spettacolo Achille talmente si commosse, che d' inimicissimo ch'egli era per la morte di Patroclo a Priamo ed al suo regno, in considerazione della figliuola e del genitore non poté trattenere le lagrime. Quindi stesa la mano a lei l'alzò di terra, dato prima gli ordini a Fenice onde facesse mettere Priamo in buon assetto. Ma Priamo altamente dichiarò non poter esso dar triegua al lutto e all'angoscia sua. Se non che rispondendo Achille che non avrebbe compiaciuto all'espostogli desiderio suo se prima mutato in meglio d'abito non avesse mangiato in sua compagnia, temendo egli che col suo rifiuto non venisse a torglisi quanto pareva esserglisi ormai conceduto, si propose di fare tutto ciò che si volesse da lui(1).

(1) Niuna cosa dimostra la piccolezza dello spirito di Madama Dacier più della cura che essa ha posto a questo luogo. Le cose, dic'ella, che seguono sino al fine del discorso di Achille mi tembrano inette e futili (inepta et futìlia) E nissun pensiero né più profondo né più bello cadde mai dalla penna di quanti vecchi o moderni scrittori parlarono della guerra di Troja! E i Gìreci furono fortunati ! . . . . perché i Greci ne'grandi cimenti sentirono reamente. Questo passo di Ditti apre l’adito a gtandi considerazioni, a grandi reminiscenze, a grandi rimproveri!

 

Capitolo XXV.

Come Priamo lavato e mondo da ogni squallore fu chiamato alla tavola di Achille insieme co’ suoi; e delle cose che Achille gli domandò.

Adunque nettatisi i capegli dalla polvere e lavato tutto, egli e quanti erano venuti con esso lui furono da Achille invitati a tavola. E dopo che s'ebbe mangiato Achille parlò in questa conformità: « O Priamo! dimmi per tua fé qual motivo siavi stato per cui, mentre a voi ogni giorno andavano mancando le truppe e crescevano le sventure e i danni, pur nondimeno pensaste di dover ritenere fino a questo dì Elena; e non anzi la cacciaste come una peste di cattivo augurio, che pur sapevate avere tradito patria e parenti, e quello che é più notabile, i santissimi suoi fratelli(1), i quali tanto detestavano la condotta di lei che non vollero prender parte a questa guerra con noi per paura di vederla ritornare sana e salva e di passare per averle procurato il ritorno alla patria? Perché dunque considerando ch'essa era entrata nella vostra città per danno di tutti non la cacciaste? Perché piuttosto non l'accompagnaste fuori delle vostre mura colle esecrazioni che meritava? E che dicevano essi que' vecchi, i cui figliuoli perivano ogni giorno ne'combattimenti? E non si accorsero eglino, ch'essa era la cagione di tanti mortorj! A tal segno adunque gli Dei v'hanno tolto il senno, che in sì grande metropoli niuno abbiasi potuto trovare che dolente dell' eccidio della patria non abbia creduto doversi la comune ruina redimere colla ruina di lei? Io a contemplazione della tua età e per le preghiere di codeste donne ti restituirò il cadavere che domandi; né per certo farò mai che ciò che si riprende nei nemici serva ad accusa contro di me.»

(1) Castore e Polluce erano fatti Dii.

 

Capitolo XXVI.

Come Priamo rispose alla domanda di Achille; e di ciò che disse riguardo alle cose di Troja e a sé medesimo.

Priamo tornando dì nuovo a piangere miseramente rispose: non senza decreto degli Dei giungere agli uomini le avversità: essere Dio autor del bene e del male che ad ogni uomo succede; né, finché può uno esser felice, potere sopra di lui la forza e l' inimicizia di qualunque. E così essere avvenuto a lui, che di diverse donne avea avuto cinquanta figliuoli ed era stato tenuto per re sopra gli altri beatissimo fino al giorno in cui nacque Alessandro. Essere stato quello il punto fatale che nemmeno pei presagi degli Dei aveva potuto evitare. Imperciocché ad Ecuba gravida di colui era paruto di partorire una fiaccola, d'onde l’Ida veniva incendiato, e continuando la fiamma vedevansi abbruciati i templi degli Dei e tutta ridotta in cenere la città diroccata, salve soltanto ed inviolate le case di Antenore e di Anchise. Le quali cose gl'indovini avendo detto che annunciavano la pubblica ruina(1), erasi pur anche proposto di ammazzare quel bambino. Ma Ecuba per femminile pietà lo aveva dato di nascosto ai pastori d'Ida a nutrire; e tenne così mano all' inganno fino a tanto che fatto già grande il figlio e saputasi la cosa  non poté partirsi, che quantunque riguardato come nemico perniciosissimo fosse ucciso, mentre egli era sì ben formato e bello, che anzi se gli diede Enone per isposa. Venne poi volontà a lui di veder paesi e regni lontani; e fu in quella occasione che condusse via Elena, certamente per impulso di qualche nume; perciocché tutti gli abitanti della città ed egli pur con essi ne presero allegrezza. Né poi quando ad alcuno accadde di vedersi tolto od un figlio od un parente si cessò di amare d' averla bene accolta e di tenerla; e solo fu contrario in ciò Antenore: il quale, uomo invero in pace e in guerra prudentissimo, fin da principio, subito dopo il ritorno d'Alessandro, cacciò di casa suo figliuolo Glauco, perché era stato compagno a lui nel viaggio. Del resto, giacché le cose di Troja volgono a precipizio, desideratissimo essere per esso lui il fine della natura, che già gli si avvicina, ed avere abbandonato ogni governo ed ogni cura del regno; e solo suo tormento essere il pensiero di Ecuba e delle figliuole, le quali pur troppo, caduta la patria, diventeranno schiave; e chi sa alla superbia di qual padrone destinate!

(1) Licofrone, Apollodoro, Servio dicono che Eleno, figlinolo di Priamo, interprete così il sogno di Ecuba. Un antico poeta citato da Cicerone dice che fu Apollo. Pausania dice che fu la sibilla Jernfilo. Ovidio, Igino e lo Scoliaste di Omero convengono con Ditti.

 

Capitolo XXVII.

Come Achille, ritenuto l’ oro e l’ argento portato da Priamo ed alcune vesti, il rimanente donò a Polissena, e a Priamo che gliela offeriva disse che parlerebbesene in altro tempo; e la rimandò a Troja col padre.

Poscia fa mettere d'innanzi ad Achille tutte le cose che portate aveva pel riscatto del morto figliuolo. Dalle quali Achille ordina che si prenda tutto 1' oro e l'argento ed una parte delle vestimenta; le altre unite insieme dà a Polissena; e poi consegna il cadavere. Ricevuto il quale in riconoscenza della grazia impetrata e sicuro già del figliuolo qualunque accidente sopravvenisse a Troja, abbracciando le ginocchia d' Achille lo prega che voglia ricevere Polissena e tenersela. Ma Achille in altro tempo e luogo di ciò disse potersi trattare; e intanto la fa ritornare col padre. Così ottenuto il cadavere di Ettore e montato sul suo carro, Priamo inviossi alla città con tutti quelli che l' avevano accompagnato.

 

 

 

LIBRO QUARTO,

Capitolo Primo.

Come i Trojani furono meravigliati del ritorno di Priamo dal campo de’ Greci col corpo di Ettore. De' funerali fatti a questo e del gran pianto di tutti.

Quando i Trojani seppero che il re ritornava sano e salvo con tutta la sua comitiva ed aveva ottenuto l'intento, meravigliati si misero ad esaltare sino al cielo la pietà de' Greci; poiché d' altronde avevano fisso nell' animo non potersi sperar d' impetrare il cadavere di Ettore ed anzi andare Priamo  e quanti erano con essolui ad essere ritenuti da' Greci, a cagione che non si era voluto restituire Elena. Poi fattosi il mortorio tutti i cittadini e tutti i confederati accorrendo si misero in altissimo pianto, strappandosi i capegli e lacerandosi il volto; né in tanta moltitudine di popolo fuvvi chi credesse avere in sé virtù alcuna  o potere alimentare alcuna buona speranza, mancato lui, che famoso giustamente presso le nazioni per incliti fatti dì guerra, non minor gloria erasi acquistato anche in pace per distintissima pudicizia. Non lungi dalla tomba dell'antico re Ilo(1) gli venne data sepoltura; al qual momento, che metteva termine alla cerimonia, uu orribile ululato s'alzò, qui delle donne che piangevano con Ecuba, là degli uomini e Trojani e Confederati, i quali Ettore ancora a grandi voci chiamavano. Durarono le esequie per dieci giorni(2), essendo stata accordata a tal fine una tregua; e dal nascere sino al tramontare del sole per tutti quei dieci giorni i Trojani non fecero ehe piangere.

(1) La tomba d'Ilo era alla pianura di Troja presso il Simoenta. (2) Omero dice che i funerali di Ettore durarono undici giorni, cioé nove consecrati al lutto, il decimo alla sepoltura  e l' uudecimo a costruirvi sopra un tumulo.

 

Capitolo II.

Come arrivò a Troja Pentesilea regina delle Amazoni; e come col suo esercito volle dar battaglia ai Greci; e mentre i suoi saettieri ammazzarono gran numero de' nemici, Ajace distrusse tutti i suoi fanti.

In que' giorni appunto(1) sopraggiunse Pentesilea con un grosso corpo di Amazoni e con molti armati popoli circonvicini del paese suo; la quale udito ch' ebbe la morte d'Ettore avea voluto ritornare indietro; ma poi allettata dal molto oro ed argento che proferivagli Alessandro s'era risoluta di fermarsi. Quindi dopo alquanti giorni messe in buon ordine le sue truppe, senza punto mischiarsi co' Trojani perché in sé stessa avea molta fiducia, andò per combattere co' nemici, avendo posto i saettieri nel destro corno, i fanti nel sinistro e gli uomini a cavallo nel centro. E i nostri le si mossero contro, opponendosi a' suoi saettieri Menelao, Ulisse, Teucro e Merione; ai fanti i due Ajaci insieme con Diomede, Agamennone, Tlepolemo, Ascalafo e Jalmeno; e agli uomini a cavallo Achille e gli altri capitani. Così disposte le forze, dall'una e dall'altra parte s' attaccò la battaglia. I saettieri della regina fecero cadere moltissima gente; né diversamente fu combattuto da' Teucri. Ma Aiace e quelli ch'erano seco incominciarono a fare mano bassa sui fanti che avevano d'incontro e ad urtare cogli scudi quelli che facevano testa e quindi a tagliarli a pezzi; né si finì la giornata finché non furono distrutte affatto le schiere de' fanti.

(1) Pare impossibile che, trovando Madama Dacier scorsi ventitre giorni da quello della morte di Ettore all' altro della sua sepoltura, domandi onde mai tanto ritardo di Pentesilea; quando il testo stesso ne accenna sì chiaramente la cagione ! massimamente che nissuno ha detto quanto Pentesilea fosse distante dal luogo , in cui Ettore incamminato verso lei fu sorpreso da Achille

 

Capitolo III.

Come Achille ferì a morte Pentesilea, e i suoi si misero in fuga: e come volendo Achille salvare il cadavere di lei per la sepoltura, Diomede per volere de Greci la gittò nello Scamandro.

Achille, avendo veduta Pentesilea tra la cavalleria, andò ad affrontarla coll' asta e con non più difficoltà che vi sia con una donna la fece piegar sul cavallo; quindi presala pe' capegli, gravemente ferita com’era, la gittò a terra. Il che veduto dai combattenti di lei, nulla più sperando essi nelle armi, si diedero alla fuga. Le porte della città allora furono chiuse; ond'é che i nostri inseguendo i fuggiaschi a mano a mano poterono trucidarli; risparmiando però le donne, per amore del sesso. Nel ritornarsi ognuno de' nostri vincitori dopo avere ucciso chiunque s'era lasciato raggiungere, videro Pentesilea moribonda ed ebbero agio di ammirarne l'aria sua risoluta ed audacissima. Il quale spettacolo avendo ivi chiamati tutti, fu deliberato che mentre ancora le restava qualche fiato di vita, in pena di avere voluto oltrepassare la condizione della natura e del sesso fosse gittata nel fiume o data da sbranare ai cani. Voleva Achille, che l'aveva uccisa(1), darle onorevole sepoltura(2); ma Diomede gliel vietò, imperciocché, domandato ai circostanti cosa se ne dovesse fare, di comune consenso presala pe' piedi la precipitò nello Scamandro, intendendo di trattarla da disperata e da matta. Per tale maniera la regina delle Amazoni, perduto l'esercito che condotto avea in soccorso di Priamo, finì con dare uno spettacolo degno de' suoi costumi!

(1) Licofrone, Quinto Calabro, Tzetze, Eustazio, Servio dicono tutti che Pentesilea fu uccisa da Achille. Darete però la suppone ammazzata da Pirro. (2) Tzetze narra la cose diversamente. Egli dice che Achille ucciso ch’ ebbe Pentesilea si fermò ad ammirarne la robustezza e la bellezza; ed a persuadere i Greci di farle un monumento; che Tersite vi si oppose, dicendo che Achille parlava così perché n' era stato amante: del che Achille srlegnato aveva con un pugno ammazzato Tersite: che Diomede avutosi a male di tal fatto, essendo Tersite suo parente, aveva preso Pentesilea pei piedi e l'aveva gittata nel fiume.

 

Capitolo IV.

Come in ajuto di Priamo Memnone condusse un grande esercito, che si accampò ne' contorni di Troja; e come venendone una parte per la via di mare, essendosi Fala sidonio fermato nell’ isola di Rodi, gli abitanti lo screditarono presso i soldati, talché fu dai medesimi lapidato.

Il dì seguente giunse Memnone, figliuolo di Titono(1) e d'Aurora, con copiose schiere d'Indiani e di Etiopi(2), preceduto da grande rinomanza: il quale menando seco molte migliaja di armati di diverse nazioni, le speranze e i voti aveva superato di Priamo. Uomini e cavalli, che di sé empivano tutta la terra ne' contorni di Troja ed oltre, splendevano d'armi e d'insegne superbamente. Memnone li traeva sullo Xanto dalle rupi del Caucaso. Altri poi v' erano, che venivano per la via del mare sotto la condotta di Fala. Costui era dianzi approdato a Rodi; ma, vedendo che l'isola aveva lega co' Greci, stette con forte sospetto che gli si abbruciassero le navi, se si vedesse ov' egli tendeva; e nel fermarsi ivi divise la sua flotta tra Camiro e Jaliso, ricchissime città. Né i suoi sospetti furono vani, poiché accortisi di lui i Rodiotti incominciarono ad accusarlo come quegli, che sapendo essere stata poco tempo innanzi Sidone sua patria manomessa da Alessandro, desse ajuto a colui dal quale era stato in sì nobile e viva parte offeso; e per muovere gli animi degIi uomini ch'egli conduceva, vennero dicendo che non dissimili dai Barbari dovevansi riputare coloro i quali difendevano un tanto misfatto; e molte altre cose contro lui sparsero, atte a riscaldare le teste del volgo e confacenti al disegno loro; né ciò fecero senza costrutto. Imperciocché i Fenicj, che in gran numero trovavansi in quell' esercito, commossi dalle querele dei Rodiotti o fors' anche dalla cupidigia di far proprie le cose che portavano seco, misero Fala a’ sassi e l' ammazzarono; e distribuiti per le sopraddette città si divisero l'oro e tutta l'altra roba che era sulla flotta.

(1) Quasi tutti gli scrittori convengono di questo. Titono fu fratello di Priamo. Eschilo chiama la madre di Memnone fistia. Virgilio qualifica Memnone per negro. Diore suppone che avesse dieci mila Susiani e dieci mila Etiopi. Vedi Diodoro siculo. (2) Non sembra facile combinare come, se Memnone regnava in Etiopia, conducesse i suoi dal Caucaso. Alcuni hanno detto che regnava in Africa, in India, in Etiopia e rimane sempre la medesima difficoltà. Al tempo in cui si suppone essere vivuto Settimio, la geografia era abbastanta conosciuta per non credere che un falsario studiasse tanto sottilmente gli spropositi. Rispetto a Memnone, chiamato capitano de' Persi da Darete, si vedrà giustificato quell’ autore senza ammettere l' assurdità premiata qui da Ditti. Ma potrebbesi forse levare ogni apparenza di quesia assurdità, se si potesse penetrare nel mistero delle antiche lingue perdute. Egli è probabile che la qualità che fece dare il nome di Caucaso alla catena di montagne che noi chiamiamo così si trovasse anche in qualche altra catena di montagne dell' Africa e che i traduttori abbiano preso per nome proprio un nome puramente comune.

 

Capitolo V.

Come Memnone diede battaglia a' Greci, che furono impauriti pel gran numero de' Barbari; e come i Greci dovettero abbandonare la vittoria a' nemici.

L' esercito condotto da Memnone si accampò nella larga campagna, poiché in città non era sito per tanta moltitudine; e si pose ad esercitarsi secondo gli usi di guerreggiare proprii delle diverse nazioni che lo componevano. Perciò non tutti erano armati ad un modo; e diverse erano le freccie, diversi gli scudi, diversi gli elmi  e così ogni altra cosa; e tanta differenza presentava un orrendo aspetto di guerra. Passati alcuni giorni e i soldati domandando d'essere coudotti al nemico, sul far dell' alba tutto l'esercito dato il segnale fu messo in battaglia; ed uscirono nel medesimo tempo anche i Trojani e i loro Confederati. All' opposto i Greci ben ordinati si misero ad aspettare, perciocché erano essi alquanto intepiditi per la paura di sì numerosi e non conosciuti nemici. Giunti i due eserciti in vicinanza tra loro quanto sia il trar di un dardo, i Barbari con grande fracasso a guisa di ruinoso torrente si slanciano innanzi; e i Greci stretti tra loro con bastante forza sostentano l'impeto violento de' nemici. Ma poiché le schiere furono allargate e poste in nuova ordinanza, un grande saettamento incominciò dall'una e dall'altra parte di freccie e dardi; e molti furono i morti d' entrambi gli eserciti. Né si finì la giornata che Memnone raccolti intorno a sé i più valorosi del suo esercito saltò col suo carro in mezzo ai Greci, rovesciando e ferendo quanto gli si facesse incontro. Ond'é che uccisi i primi de'nostri, vedendo i capitani tal rovescio di fortuna e la sola fuga dare scampo, abbandonarono la vittoria ai nemici. In quel giorno tutte le nostre navi sarebbero rimaste abbruciate e distrutte, se sopraggiunta la notte a dar rifugio agli stanchi rattenuto non avesse gl' impetuosi nemici dal procedere oltre: tanta era in Memnone la forza e la perizia nel combattere, e tanta la sfortuna de' nostri!

 

Capitolo VI.

Come i Greci consultano sul modo di meglio combattere Memnone, e tirano a sorte chi abbia a misurarsi con lui, toccando la sorte ad Ajace; e come dopo che Memnone ebbe ucciso Antiloco fu sfidato da Aiace, il quale foratogli lo scudo il fece voltare di fianco, ed Achille coll’ asta lo ferì al collo, e l’ammazzò.

I Greci, poiché furono in quiete, sbigottiti ancora e dubitando di sé e delle cose loro impiegarono la notte in seppellire quelli che nel combattimento avevano perduti. Indi postisi a consultare come potessero rinnovar con frutto la battaglia contro Memnone, fu parere comune che si traesse a sorte il nome del capitano che doveva battersi con lui. Allora Agamennone volle eccettuare Menelao; e Idomeneo fece così di Ulisse(1). La sorte poi cadde sopra Ajace Telamonio con piena soddisfazione comune. Dopo di che rinforzati tutti col cibo, il resto della notte passarono riposando. Venuta la mattina e ben armati ed ordinati, i Greci uscirono in campo; né fu Memnone meno di loro diligente e con esso tutti i Trojani. Quindi da una parte e dall' altra disposto l’ esercito si venne alla battaglia; nella quale moltissimi d'entrambi gli eserciti o furono morti o gravemente feriti dovettero ritirarsi. In questa battaglia Antiloco, figliuolo di Nestore, incontratosi con Memnone fu da lui ucciso. Quindi Ajace, quando credette essere giunto il momento opportuno, spintosi tra le squadre dell' un partito e dell' altro si mise a provocare il re, intesosi prima con Ulisse, con Idomeneo e cogli altri  che badassero a guardargli le spalle. Memnone intanto, veduto che si cercava di lui, sbalzato giù del suo carro si mise a battersi a piedi con Ajace; il che pose in timore ed aspettazione l'uno esercito e l'altro. Il nostro capitano col dardo di gran forza gli passò lo scudo; indi spingendogli addosso con impeto veementissimo lo fece voltar di fianco. Il che osservatosi dai compagni del re, questi si mossero ratti per disturbare Ajace. Ma quando Achille vide come i Barbari s'interponevano, si fece innanzi e preso dì mira Memnone al collo non più coperto dallo scudo con un colpo d'asta lo trafisse.

(1) Anche Cedrano noia questo fatto. (2) Anche Omero suppone Antiloco ucciso da Memnone. Pindaro scrive che Nestore investito da Paride ( Alessandro ) e ferito già un cavallo del suo carro, chiamò suo figlio Antiloco in ajuto. Il quale mentre resisteva a Paride fu ucciso da Memnone.

 

Capitolo VII.

Come morto Memnone i suoi si misero in gran disordine; e ne fu fatto macello, e come molti distinti Troiani, e figliuoli del re furono uccisi.

Per tale maniera contro ogni speranza ucciso Memnone, gli animi de' nemici mutaronsi e ne' Greci la fiducia crebbe. E già le squadre degli Etiopi voltavano faccia e i nostri premendoli ne ammazzarono parecchi. Perloché volendo Polidamante rinnovare il combattimento, dopo alcune prove circondato infine dai nostri cadde(1) per mano di Ajace, che lo ferì all' anguinaglia; e Glauco(2), figliuolo di Antenore, mentre era per battersi con Ajace, fu con un dardo buttato morto a terra da Agamennone. Ed allora avresti veduto qui gli Etiopi e i Trojani senz' ordine e disciplina fuggirsi dal campo e per la moltitudine e la furia imbarazzarsi tra loro, cadere e dai cavalli loro proprii che dappertutto trascorrevano conculcarsi e schiacciarsi: là i Greci, ripigliato coraggio, inseguirli, tagliarli a pezzi raggiugendoli nella corsa e tagliarli a pezzi parimente, se li trovavano caduti e imbarazzati. Tutta all' intorno la campagna era piena di sangue, di morti, di moribondi e d' armi. In questo fatto molti figliuoli di Priamo restarono uccisi; Arejo(3) ed Echemone per mano di Ulisse; per mano d'Idomeneo Driope, Biante e Coritone(4); Ajace Oileo ammazzò Ilioneo(5) e Filemone; Diomede ammazzò Tieste e Telesia; l'altro Ajace ammazzò Antifo, Agavo, Agatone e Glauco(6); ed Asteropeo cadde sotto i colpi di Achille. Non ebbe fine la stragge se non quando i Greci furono stanchi del macello.

(1) Omero non ha parlato in nissun luogo della morte di Polidamante. (2) Fuvvi un altro Glauco, figliuolo d' Ippolito, che si azzuffò con Diomede: riconosciutisi, in riverenza d'antica ospitalità, barattarono le armi e si lasciarono. Alcuni hanno detto, che Glauco, di cui qui si parla, fu ucciso da Diomede e non da Agamennone. (3) Egli non parla di questo Arejo, che Apollodoro ha chiamato Arreto. Di Echemone parla Omero. Egli però dice essere stato ammazzato da Diomede. (4) Driope e Biante vengono da Apollodoro annoverati tra i figliuoli di Priamo. Omero suppone Driope ucciso da Achille. Non si sa chi fosse Coritone. Seguendo Madama Dacier si potrebbe leggere Gorgizione, quantunque uno di tale nome siasi già detto ucciso, come qui pure é un Antifo, sebbene un altro Antifo, sia stato dato altrove per morto. Non vi é difficoltà ad ammettere che diverse persone abbiano avuti gli stessi nomi, specialmente ove non trattasi di persone eminentemente insigni. (5) Dicesi non trovarsi un figliuolo di Priamo con questo nome: si suppone che questo Ilioneo sia precisamente quello che in Apollodoro é detto, forse per errore di scritiura, linmeneo  e la supposizione ha un grado maggiore di probabilità considerandosi che tra le figlie di Priamo era una lliona. Fors'anche Ditti intende qui Ilioneo, figlio non di Priamo, ma di Forbante, che Omero dice ucciso da Menalo. (6) Omero nomina Antifo, Agatone e Glauco ed Apollodoro dice che Antifo fu ucciso da Agamennone, ma non parla della uccisione di Agavo, di Glauco e di Agatone. Omero dice anch'egli che Asteropeo fu ucciso da Achille.

 

Capitolo VIII.

Come si raccolsero e si abbruciarono i morti da entrambe le parti; e le reliquie di Memnone furono messe a parte in un’ urna, e date a' suoi, perché le portassero al loro paese; e come mentre i Greci tripudiavano per la vittoria i Trojani caddero in grande disperazione.

Poscia che i nostri ritornarono agli alloggiamenti, da Troja presentaronsi loro araldi venuti a chiedere di poter dar sepoltura ai morti. Ognuno quindi raccolse i suoi e secondo l' usanza del suo paese li abbruciò. Fu fatta a parte questa funzione a Memnone; e le sue reliquie si misero in un' urna e si consegnarono a' suoi parenti, onde le portassero alla patria(1). I Greci per parte loro presero il cadavere di Antiloco, lo lavarono e fattegli le esequie convenienti lo consegnarono a Nestore, confortandolo a soffrire con rassegnazione i colpi della fortuna e della guerra. Quindi per ricrearsi molta parte della notte passarono mangiando e bevendo ed empiendo tutto di acclamazioni e di evviva ad Ajace e ad Achille. Ma in Troja, poscia che s' ebbe data sepoltura ai morti, altamente si fece sentire non il dolor solo per Memnone, ma il terrore della ruina e la disperazione; perciocché la morte di Sarpedone da un canto, dall' altro la strage di Ettore ogni speranza avevano tolta; e non si aveva più nemmeno quel filo d'essa, che colla venuta di Memnone la fortuna parea avere offerto. In tanta massa di disgrazie s' era da ognuno perduto sino la voglia di rimettersi in forze.

(1) Eliano ha lasciato scritto che Aurora tolto il corpo del figliuolo lo portò a casa e gli fece erigere un monumento.

 

Capitolo IX.

Come venuti i Greci a sfidare i Trojani, questi usciti, invece di attaccare la zuffa, fuggirono, e fu fatta di loro grande strage; e come Achille indispettito contro Priamo fece scannare due de' figli di quel re presi nel combattimento.

I Greci alcuni giorni dopo venuti a campo di bel nuovo si misero a provocare i Trojani onde uscissero a battersi; ed Alessandro cogli altri fratelli mise in ordine le schiere e venne fuori. Ma prima che s’appiccasse la zuffa, anzi prima che fosse tratto un solo dardo, i Barbari in gran disordine si diedero a fuggire; e perciò moltissimi d'essi furono o tagliati a pezzi o precipitati nel fiume; poiché da tutte le parti i nemici li circondarono né poterono avere scampo. Furono presi Licaone e Troilo, due figliuoli di Priamo, i quali condotti in mezzo all' esercito, Achille fece scannare, indispettito contro Priamo perché nulla avea fatto di ciò ch'erasi detto(1). Il che vedutosi dai Trojani, alzarono essi grida di pianto e con lugubre clamore orrendamente deplorarono il caso di Troilo, che di tal maniera periva nel primo fior della età. Eglì fin da primi anni mostrato erasi verecondo e buono, come amabile e caro a tutti era eziandio per le belle forme del corpo.

(1) Omero suppone che Licaone fosse ucciso da Achille combattendo; e lo stesso suppone Virgilio di Troilo. Così dice anche Darete. Tzetze scrive che Troilo s'era rifuggito nel tempio di Apollo Timbreo, dove Achille, non potendolo far uscire di là, l'uccise accanto all’ altare. Onde poi simile ventura accadde a lui,

 

Capitolo X.

Come per la festa di Apollo Timhreo fattasi triegua, Priamo mandò ad Achille pel matrimonio di Polissena, e i Greci ebbero sospetto che Achille volesse tradirli; e Diomede ed Ulisse andarono al bosco d’ Apollo per parlargli.

Non molto dopo venne la festa d'Apollo Timbreo; e fu fatta triegua. L'uno esercito e l'altro attese dunque a far sacrifizi; e Priamo prese quel contrattempo per mandare ad Achille Ideo con commissioni riguardanti Polissena(1). Ma perché fu osservato che Achille erasi ritratto alle navi negoziando con Ideo, entrò ne' Greci sospetto che quel capitano volesse alienarsi da loro; e dal sospetto essi passarono allo sdegno: perciocché la voce del tradimento, da principio vaga e leggiera, facilmente diventò comune e ferma, come se avesse fondamento sicuro di verità. A mettere calma negli animi così esasperati sorsero Diomede ed Ulisse, i quali portaronsi al bosco d' Apollo  e fermatisi d' innanzi al tempio stettero ivi aspettando per vedere se Achille ne uscisse e riferirgli lo stato delle cose; ed in caso anche per mettergli paura, se mai di nascosto trattasse co' nemici.

(1) Pare che qui vogliasi alludere alla cacciata di Elena; se non se forse ad un trattato di nozze di Polissena, come potrebbesi argomentare dal seguente capitolo.

 

Capitolo XI.

Come Alessandro e Deifobo ammazzarono a tradimento Achille nel tempio di Apollo Timbreo; e come accorsi Ulisse ed Ajace, questi gli parlò; e cosa Achille gli rispose; poi Ajace ne portò via il cadavere.

In questo mezzo, concertata la cosa con Deifobo, Alessandro munito di pugnale entrò accostandosi ad Achille, come se volesse confermargli quanto Priamo prometteva; e per non dargli sospetto di tradimento si mise innanzi all'altare tenendo a lui volte le spalle. Poi, quando parve tempo, Deifobo si mosse abbracciando Achille, che nel sacrario d'Apollo, nulla temendo d'ostile, era senz'armi; e baciandolo e congratulandosi seco lui sopra ciò che s'era trattato, da lui non distaccavasi; né parole e modi ometteva di affetto. Prese quel momento Alessandro; e slanciatosi d'improvviso addosso ad Achille, col pugnale gli diede due colpi nel fianco e il trapassò(1). Il che fatto e vedendolo già cader morto, egli e il fratello ratti s'involarono per altra parte da quella, per la quale erano venuti, rendendosi alla città lieti di una impresa che nissuno dei Trojani aveva mai sperata. Ulisse al vederli: non é senza perché, disse, che di codesta maniera turbati e trepidanti sì repentemente essi fuggono. Ed entrato con Ajace nel bosco e guardando intorno, loro si presenta alla vista Achille strammazzato a terra, esangue e moribondo. A cui volgendosi Ajace: é ben vero, disse; e tutti il sanno, che niuno te poteva superare in valore; ma eccoti dalla irriflessiva tua temerità tradito! Achille raccogliendo allora il poco fiato che rimauevagli: a tradimento, rispose, Deifobo ed Alessandro mi hanno colto per cagione di Polissena; ed intanto lui spirante i capitani abbracciarono con grande gemito, e baciato lo salutarono per 1' ultima volta. Ajace poi si mise il morto sulle spalle e lo portò via dal bosco.

(1) Altri dissero che Achille fu ucciso con una freccia, lanciatagli da Alessandro, che si era appostato di dietro alla statua di Apollo. D'onde nacque fama che Apollo stesso aveva diretto il colpo. Darete narra che Achille insieme con Amtiloco si battè lungamente cogl' insidiatori, ma che entrambi restarono morti.

 

Capitolo XII.

Come i Trojani vollero levare il corpo d'Achille, ed uscirono a tal effetto fuori e si fece grande combattimento con molta ruina loro.

E i Trojani, che lo videro, uscirono tutti delle porte della città a gran furia, facendo ogni sforzo per togliergli quel cadavere e portarlo entro le loro mura, bramosi di fargli ignominia secondo il loro uso. Se non che avvertiti i Greci prese le armi accorsero; e a poco a poco messe in ordinanza le schiere incominciò da ambe le parti un aspro combattimento. Ajace, consegnato a quelli ch'erano seco quel cadavere, caldo d'astio si volse a’ nemici; e il primo che incontrò stese a terra; e fu questi Asio, figliuolo di Dimante e fratello di Ecuba(1). Poi altri moltissimi ferì, secondo che venivano sotto a' suoi colpi; fra quali furono Naste ed Amfimaco, signoreggianti nella Caria. A lui si unirono e l'altro Ajace e Stenelo, che molti ammazzarono e molti misero in fuga. Laonde i Trojani, morti assaissimi de' loro, restando senz'ordine e senza speranza di resistere, dispersi d'ogn' intorno corsero precipitosi verso le porte della città, entro le mura soltanto credendo di potersi salvare. E ciò fu cagione che grande moltitudine di loro dai nostri, che gl’ inseguivano, restasse trucidata.

(1) Omero, Igino, Ovidio, ed altri dicono che Ecuba fu figliuola di Dimante. V'ha però altri che la dicono figliuola di Cisseo : e questi fanno Asio suo fratello uterino. In Omero non leggesi che Asio fosse ucciso.

 

Capitolo XIII.

Come la morte di Achille recò dolore ai Capitani e poco o nulla dispiacque agli altri fanti; e come gli furono fatti i funerali, a ciò essendosi sopra gli altri distinto nella cura Ajace.

Quando chiuse le porte della città fu finita la strage, i Greci recarono Achille alle navi; e compianto molto si fece dai capitani pel tristo fine di sì grand’uomo. Ma la maggior parte de' soldati non si dolse, né quanto almeno comportava il caso parve commossa; perché credevasi che Achille spesso avesse pensato di tradire l'esercito e darlo a' nemici. Morto però lui, di grande appoggio restava priva la parte de' Greci e molto era tolto all' onore della milizia, oltre che a campione sì illustre nella guerra vedevasi negata l'onorevol morte di che pure era degno, una avendone dovuto soffrire propria di uomo oscuro. Intanto fu tosto dal monte Ida raccolta grande quantità di legna; e s' alzò il rogo nel sito medesimo in cui erasi abbruciato Patroclo e, messovi sopra il cadavere ed abbruciato, tutta la solennità delle esequie si compì. Del che più d' ogni altro si diede grande cura Ajace, il quale per tre giorni vegliando continuamente non riposò mai, finché non ne fossero tutte raccolte le reliquie. E fu egli fra tutti quegli che sopra ogni umano modo si mostrò costernato per la morte di Achille, cui più di ognuno aveva riverito ed amato e come amicissimo e parente e come superiore a tutti di gran lunga in valore.

 

Capitolo XIV.

Come i Trojani festeggiarono la morte dì Achille; e come in loro soccorso arrivò con esercito Euripilo figliuolo di Telefo.

I Trojani all'incontro menavano gran festa e facevano tripudio per la morte di colui che più d’ogni altro nemico temevano; e non cessavano di altamente commendare l'astuzia di Alessandro, che fatto aveva colle insidie un colpo il quale in aperta battaglia non avrebbe avuto ardimento nemmeno d'immaginare. Così stando le cose, ecco giungere a Priamo un messo, il quale gli portava la nuova, come veniva dalla Misia Euripilo(1), figliuolo di Telefo, che dianzi con molti presenti e in ultimo colla offerta delle nozze di Cassandra era stato da Priamo indotto a portargli soccorso. Dicesi che tra le altre bellissime cose mandategli quel re avesse aggiunta una certa vite d' oro(2), di tal lavoro fatta che era la meraviglia di tutti i popoli. Ed Euripilo, già chiaro per valore e possente per le legioni di Misia e d' altri paesi che seco conduceva, fu con sommo plauso e con allegrezza ricevuto dai Trojani poiché in lui solo omai stavano tutte le speranze de' Barbari.

(1) Molti hanno detto che Priamo aveva con doni sedotta la moglie di Euripilo, perché questi si movesse a soccorrerlo; ed Omero ne dà un cenno, ove parla della morte di questo principe. (2) E curioso il vedere come i popoli dell'Oriente si dilettassero di codeste viti d'oro e di pietre preziose. Giuseppe Flavio fa menzione di quella che Pompeo ebbe da Aristobulo re de' Giudei. Eustazio parlando della vite di Priamo dice essere fama che Giove la desse a Troo, padre di Ganimede, in compenso di quel ragazzo, che Priamo l’aveva avuta per successione e la promise ad Asttoca, sua sorella, che era madre di Euripìlo, se mandato avesse d figliuolo in ajuto de' Trojani, mentre Euripilo diceva che l’andata sua colà dipendeva da lei.

 

Capitolo XV.

Come si seppelliscono insieme le ossa di Achille e di Patroclo, ed Ajace fa a sue spese costruire un sepolcro; e come giunto al campo de' Greci Pirro Neottolemo, figliuolo di Achille, fa terminare quell’ opera e si dichiara volere compiere cogli altri la distruzione di Troja.

I Greci intanto chiuse in un'urna le ossa d'Achille e messevi insieme quelle di Patroclo le seppellirono nel Sigeo; ed Ajace pagò del suo gli abitanti del luogo  perché ne costruissero il sepolcro, sdegnato dei Greci che per la perdita di sì grande eroe niuna cosa avevano fatta degna del dolore che dovevano sentire. Circa quel tempo, e mentre il sepolcro era per la massima parte costrutto, giunse Pirro, chiamato Neottolemo(1), figliuolo di Achille e di Deidamia, il cui padre fu Licomede(2). Domandò egli conto della morte del genitore; e poiché intese il fatto, volto ai Mirmidoni, valorosissima gente ed inclita in guerra, nel coraggio e nell'armi li confermò; e dato a Fenice l'incarico di terminare 1' opera del sepolcro, andò alle navi e tende del padre, ove alla custodia delle cose d'Achille trovò stare Ippodamia. Colà, saputo il suo arrivo, accorsero tutti i capitani, i quali complimentandolo molte cose gli dissero per confortarlo; ed egli benignamente rispose dicendo: non ignorare, che tutto ciò che gli Dei fanno debbesi sostenere con forte animo; né essere dato a veruno di vivere oltre i termini destinati: essere turpe cosa pe' valorosi e detestabile la vecchiezza: e doversi desiderare soltanto dagl'imbelli. Del resto alcun temperamento ricevere il dolor suo per l'accaduto, che non combattendo e nella luce delle battaglie Achille non sia morto; perciocché né prima né allora erasi dato uomo più valoroso di lui, eccettuato il solo Ercole. Aggiunse però essere stato Achille l'uomo solo a quel tempo, per le cui mani doveva Troja distruggersi: ma poiché suo padre aveva lasciata imperfetta tale opera, non ricusare di unirsi a’ circostanti per mettervi fine.

(1) Fu dato a Pirro questo soprannome di Neottolemo volendosi significare ch'egli era stato mandato giovanissimo alla guerra, avendo appena dodici anni. (2) Licomede era re di Sciro; e alla corte di lui era stato Achille mandato dalla madre, onde tra le figliuole di quel re stesse nascosto e non andasse alla guerra di Troja.

 

Capitolo XVI.

Come Pirro fu ben trattato alla cena di Agamennone; e come la mattina dopo Diomede ed Ulisse andarono a dirgli che prima di dar la battaglia a' Trojani si era pensato di far riposare i suoi soldati.

Finito ch' ebbe Pirro di parlare, si stabilì che il giorno seguente sarebbesi data battaglia. E quando fu venuto il tempo, tutti, secondo il solito, andarono a cena da Agamennone; ed Ajace, Diomede, Ulisse e Menelao presero posto con Neottolemo. Nel banchetto poi molte delle belle e grandi imprese di Achille vennero commemorate e molto si lodò il suo valore: di che Pirro fu lietissimo; e caldo di tanto esempio dichiarò che ogni sforzo avrebbe fatto per non mostrarsi indegno di sì gran padre. Poscia ognuno andò alle sue tende. Alla mattina alzatosi il giovine di buon' ora ed uscito fuori, trovò Diomede ed Ulisse, i quali dopo averli salutati addimandò della cagione di loro venuta; ed essi gli dissero essersi pensato, che i soldati di lui avessero bisogno di alcun poco di riposo, poiché il lungo viaggio di mare doveva averli defatigati, né altrimente avrebbero avuto tutti  usata loro forza in combattere.

 

Capitolo XVII.

Come i Trojani sentendo presente Pirro ebbero paura; ma Euripilo li confortò e li trasse alla battaglia, nella quale egli uccise Peneleo e Nireo; ma poi fu ucciso egli da Pirro; e i Barbari fuggenti soffrirono grande strage.

Fu dunque secondo il loro parere differito per due giorni, passati i quali ogni capitano e re mise in ordinanza i suoi soldati; e li condussero alla battaglia. Ed essendo toccato a Pirro il luogo nel centro, egli mise intorno a sé i Mirmidoni ed Ajace, che come parente suo teneva in cambio di padre. I Trojani furono colti da grande paura udito ch'ebbero presente Pirro; nondimeno ad esortazione di Euripilo presero le armi; ed egli unito ai figliuoli di Priamo condusse fuor della porta le sue schiere miste alle Trojane, e disposto l'esercito si collocò nel centro del medesimo. Enea però, e fu questa la prima volta, restossi in città, esecrando il misfatto da Alessandro commesso contro Apollo, del cui santuario era egli principal custode. Intanto fu dato il segnale della battaglia e si venne alle mani e con grande valore si combatté da entrambe le parti; e fuvvi uccisione di moltissimi. Euripilo avendo per caso incontrato Peneleo(1) lo rovesciò coll'asta e l'ammazzò: indi con maggiore veemenza attaccò Nireo e l'ammazzò parimente; se non che Neottolemo vedendo il fatto s' avvicinò rapidissimo; e come Euripilo era saltato giù del carro, saltò giù del suo anch' egli e fattoglisi sopra colla spada l' uccise: il cui cadavere immantinente preso da' suoi fece portare alla navi. Il che veduto dai Barbari, che tutta la loro speranza avevano in Euripilo, senza regola e senza scorta abbandonarono la battaglia e ritiraronsi in città, molti però rimanendo estinti nell' atto stesso della fuga.

(1) Peneleo fu figlinolo d' Ippoloco: Omero non dice che tosse ucciso.

 

Capitolo XVIII.

Come i Greci fanno i funerali ad Euripilo e ad alcuni altri  e come sono avvertiti da Crise, qualmente Eleno scappato di Troja si é rifuggito nel tempio d'Apollo, onde gli mandano messi. Dichiarazioni di Eleno ai Greci(1).

I Greci, ritornati alle navi, di comune accordo abbruciato il cadavere di Euripilo ne raccolsero l'ossa e riposte entro un' urna le mandarono al padre di lui m memoria de' benefizj avuti e dell'amicizia loro con esso. Furono abbruciati anche quelli di Nireo e di Peneleo, ciascuno a parte. Il giorno dopo seppesi da Crise che Eleno, figliuolo di Priamo, preso d'orrore per l'atroce fatto di Alessandro, fuggendo di Troja erasi ricoverato da lui nel tempio: il che inteso furono mandati colà Diomede ed Ulisse ai quali Eleno si diede, pregando in prima che alcun paese gli venisse conceduto, in cui potesse vivere il rimanente de' giorni lontano dagli altri. Fu egli condotto alle navi ed indi ammesso al consiglio, dove premesse molte cose: non per paura della morte, diss' egli, avere abbandonato patria e genitori, ma costretto dall' avversione degli Dei, i cui templi da Alessandro violavansi; né tanta scelleratezza essersi potuta soffrire da lui e da Enea; il quale temendo l'ira de' Greci erasi rifuggito presso Antenore col vecchio suo genitore Anchise, dal cui oracolo aveva uditi i disastri imminenti a Troja; e che non perciò tralasciava di ricorrere supplichevole a loro. Essendo i nostri ansiosi di couoscere quest' oracolo, Crise fece cenno che tacessero; ed egli condusse Eleno seco, dal quale avendo udito tutto venne poi a riferirlo; aggiungendo come il tempo della ruina di Troja era giunto; e che Enea ed Antenore avrebbero dato mano. Ricor- dandosi allora i Greci di quanto aveva detto Calcante, capirono tutto essere omai verificato.

(1) Intorno a questo passo di Eleno abbiamo varj ragguagli. Tzetze dice che Eleno, figliuolo di Priamo ed indovino, spontaneamente si rifuggì fra’ Greci, siccome riferiscono Orfeo e Trifiodoro; oppure, come dice Sofocle, che fu da Ulisse preso fraudolentemente e detenuto. Coitone dice che morto Paride, Eleno e Deifobo, figliuoli di Priamo, vennero tra loro a contrasto per isposare Elena: che vinse per forza e per ricchezza Deifobo, quantunque minore di età: sdegnato Eleno dell' ingiuria andò a ritirarsi sul monte Ida, ove a suggestione dì Calcante i Greci che assediavano Troja lo presero con insidia: che egli parte per minacce, parte per inganni o piuttosto per odio di Troja, indicò ai Greci come i destini avevano stabilito che Troja dovesse essere presa da un cavallo di legno: e di più quando gli Achivi avessero preso il Palladio di Minerva caduto dal cielo ec.

 

Capitolo XIX.

Come i Greci desiderando di finire la guerra nella battaglia che di nuovo si appiccò deliberarono che i capitani si battessero corpo a corpo; e come Filottete sfidò Alessandro a combattere seco colle freccie, e l’ uccise.

Il giorno dopo tornarono da ambe le parti gli eserciti in campo; e i più de'morti furono nella parte massima della giornata quelli di Alessandro. I nostri pressavano nell' azione più vivamente che mai, perciocché desideravano di por fine in ogni modo alla guerra: al qual' effetto si stabilì che fra loro si battessero a petto a petto l' uno l’altro i capitani; e dato il segnale s' incominciava già quando Filottete fattosi innanzi sfidò Alessandro, onde vedere se ardisse di fare seco lui un duello a freccie. Al che Alessandro annuendo, Ulisse e Deifobo fissarono il terreno pel combattimento. Alessandro fu il primo a tirare; e il colpo gli andò fallito. Tirò in seguito Filottete e gli passò da parte a parte la mano sinistra, e mentre pel dolore della ferita gridava, con altra freccia gli forò l’ occhio destro: dopo di che essendosi egli posto in fuga, con una terza freccia gli trafisse entrambi i piedi; onde mal potendosi di poi reggere l' uccise(1). Erano quelle freccie state tinte nel sangue dell' Idria; né ferivano mai senza portare la morte(2).

(1) Quasi tutti dicono che Alessandro fu ucciso da Filottete: però Darete lo dice ucciso da Ajace e Tolommeo Efestione Io suppone morto da Menelao. (2) E Dotp ciò che riguarda l’ Idra della palude lernea, avente nove teste ed ammazzata da Ercole. Non nel suo sangue, ma nel suo fiele voglionsi bagnate le freccie famose, che poi Ercole lasciò a Filettete.

 

Capitolo XX.

Come i Trojani presero il corpo di Alessandro, e si volsero disordinatamente in fuga con grande esterminio de' loro; e come Ajace fattosi sotto le mura della città sostenne una grande tempesta di sassi e terra, che i Trojani gli gettavano addosso; e la notte sola impedì che i Greci non entrassero in Troja.

I Trojani veduto Alessandro cadere con gran forza vennero dov'egli era per portarlo via; e quantunque Filottete ne ammazzasse molti, pure ottennero l’ intento loro e sel recarono in città. Ajace Telamonio si pose ad inseguire i nemici sino alle porte, ove molti perdettero la vita, a ciò la folla e la confusione operando al par de' nemici. Accadde poi che parecchi di quelli che erano scappati pei primi, andati sulle mura, a furia di sassi e di terra gittata sopra Ajace cercarono sia di opprimerlo sia di farlo ritirare; ma egli riparandosi collo scudo e da sé scotendo terra e sassi che gli piovevano sopra, resistette fieramente; e intanto Filottete da lontano colle sue freccie incominciò a tempestare coloro ch'eran lassù e ne uccise molti. Né meno felicemente menarono le mani i Greci, ch'erano in altra parte; ed in quel giorno le mura stesse della città sarebbero state rotte e rovesciate se la notte sopraggiungendo non avesse rimossi i nostri dalla incominciata impresa. I quali ritornati alle navi alle belle imprese di Filottete applaudendo e lui con somme lodi celebrando s'empirono di nuova e assai fondata fiducia. Ed egli poi la seguente mattina, presi seco gli altri capitani, andò ancora per dar battaglia a' nemici; ma essi erano presi da tanto timore  che appena si credettero sicuri entro le mura.

 

Capitolo XXI.

Come Pirro andò a piangere al sepolcro di suo padre; e come i figliuoli di Antimaco essendo andati a persuadere Eleno acciò si riconciliasse co' suoi, ritornando a Troja furono presi da Greci e lapidati; e come portato il cadavere di Alessandro ad Enone, questa morì di dolore e fu sepolta insieme col marito.

Neottolemo intanto, poiché vide fatta vendetta contro l'autore della morte di suo padre, ito al sepolcro dì questo incominciò il funereo pianto che gli doveva; e con Fenice e con tutto l'esercito de' Mirmidoni depose su quel sepolcro le chiome ed ivi vegliò la notte. Nel tempo medesimo i figliuoli di Antimaco, del quale si parlò già, affezionati alle cose di Priamo vennero a trovar Eleno ed a pregarlo che tornar volesse in amicizia co' suoi: il che non avendo potuto ottenere e ritornandosi in città, s'imbatterono a mezza strada con Diomede e coll' altro Ajace, dai quali presi e condotti alle navi furono dimandati e chi fossero e perché fossero venuti. E ricordandosi i nostri del padre loro e di quanto detto e macchinato avea, li consegnarono all' esercito, che messi in faccia de’ Trojani li ammazzò a furia di sassi. Il cadavere di Alessandro introdotto in città, siccome si é detto, per altra parte della porta fu da' suoi parenti recato ad Enone, da lui già sposata prima ch' egli rapisse Elena, e dicesi che Enone vedutolo sì fortemente ne fu commossa, che perduto ogni senso istupidì e a poco a poco, per la tristezza mancando di forze, lasciò la vita. Laonde fu sepolta poi insieme con Alessandro(1).

(1) È questo presso gli Eruditi un passo di Ditti importantissimo perciocché dove qui dicesi che Enone pel dolore mori svenuta, nel testo greco dicendosi che s'impiccò, argomentano che né la storia latina sia stata tradotta dalla greca, né la greca dalla Iatina. Quasi sia impossibile che nel ricopiarsi tante volte un testo greco non possa insinuarvisi una parola, od una frase, che alteri il senso, e guidi a diversa lezione!!!

 

Capitolo XXII.

Come i pìncipali di Troja vedendosi in angustia vollero trattare co’ Greci, e rimandare Elena; e come Deifobo se la tolse per moglie. Priamo poi acconsentì che andasse Antenore a trattare; e costui ordì il tradimento, ingannando i suoi nella relazione che ritornato fece.

Come poi in Troja si vide che il nemico attaccava fieramente le mura né più restava speranza di resistere e mancavano di fatto ognor più le forze, tutti i principali si ammutinarono contro Priamo e i suoi figliuoli; e chiamato Enea e i figliuoli di Antenore stabilirono che si conducesse a Menelao Elena con quanto insieme con essolei era stato levato di Sparta. Ma Deifobo, inteso ciò, fattasi andare Elena a casa se la fece moglie. Intanto entrato Priamo in consiglio, dopo essersi sentite dire da Enea molte contumeliose parole, ad ultimo col parere di tutti fece che a' nemici andasse per trattare di pace Antenore, il quale, indicata dalle mura la sua commissione e datogli da' nostri cammin sicuro, venne alle navi. Ivi fu egli benignamente salutato ed accolto, come quegli della cui fede e benevolenza verso i Greci aveasi prova; e massimamente ciò venne ratificato da Nestore, ricordando come salvato aveva coll' opera sua e de' suoi figliuoli Menelao dalle insidie tesegli da' Trojani: del che, distrutta Troja, venivagli promesso che insigne retribuzione otterrebbe. Laonde gli si fece animo affinché alcuna cosa suggerisse degna di memoria a favore de' suoi amici contro gente sì perfida. Antenore allora incominciò un lungo discorso, e disse che sempre i Principi trojani furono dagli Dei puniti pe' loro imprudenti consigli. E qui ricordò i famosi spergiuri di Laomedonte ad Ercole(1) e la seguitane sovversione del regno di colui: nella quale congiuntura Priamo, allora assai giovinetto ed innocente di ciò che fatto si era, ad istanza di Esione era stato messo in trono(2): che Priamo, fin d'allora mal cervello, tutti s'era avvezzo a perseguitare, o ammazzando od ingiuriando; parco del suo e cupido dell'altrui: al cui cattivissimo esempio allevati i suoi figliuoli come con peste contagiosa eransi essi poi accostumati a non rispettare cosa alcuna né sacra né profana! Essere lui medesimo della stessa stirpe di Priamo(3); ma da Priamo per sentimenti sempre alieno e congiunto a' Greci: che Plejona, figliuola di Danao, era stata madre di Elettra, dalla quale nato era Dardano, che sposo di Olizona figliuola di Fineo, ne aveva avuto Erittonio, e da questo era venuto Troo, da Troo Ilo, Ganimede, Cleomestra ed Assaraco; e da questo Capi, padre d' Anchise: che Ilo era stato padre di Titono e di Laomedonte; e Laomedonte di Ittaone, di Clizio, di Lampo, di Timete, di Bucolione e di Priamo; e ch' egli poi era figliuolo di Cleomestra e di Esiete: che del resto Priamo conculcando tutte le leggi dell' affinità, co' suoi principalmente erasi mostrato pieno di superbia e d’ odio. Le quali cose posciaché ebbe finito di dire, domandò che essendo stato dai maggiorenti mandato per trattare di pace volessero nominare alcuni di loro co' quali di tal negozio potesse discorrere. Furono adunque destinati a ciò Agamennone, Idomeneo, Ulisse e Diomede, i quali in secreto convennero con Antenore del tradimento della città; e nel tempo stesso fu concertato che se Enea volesse mantenersi nella fede verso i Greci avrebbe una parte della preda e tutta quanta la casa sua rimarrebbesi intatta. In quanto ad Antenore gli si concederebbe la metà de' beni di Priamo e sarebbe dato il regno ad uno de' suoi figliuoli, qualunque fosse quello ch' egli scegliesse. Trattate queste cose, Antenore ritornò in città, riferendo a' suoi cose assai differenti dalle stipulate; tra le quali prepararsi da' Greci un dono a Minerva, ed essere essi disposti a finir la guerra e a ritornare a' loro paesi tosto che avessero avuta Elena e certa quantità d' oro. Con questa trama adunque e con Taltibio, che gli era stato dato per meglio mandarla a termine, egli ritornava a' suoi.

(1) Laomedonte aveva promesse ad Ercole le cavalle cha Giove gli aveva date in cambio del rapito Ganimede, se liberava sua figliuola Esione dal mostro marino, a cui per comando dell'oracolo dovea essere esposta: ma quando Ercole ebbe liberata Esione uccidendo il mostro, Laomedonte non mantenne la promessa. Di ciò adirato Ercole si volse contro Troja. (2) Presa Troja da Ercole, Priamo, che allora chiamavasi Podarce, fu tra i prigionieri; ed avendo Ercole conceduto ad Esione che si scegliesse qual più volesse tra qnelli, essa scelse suo fratello e lo riscattò dando il suo velo, che si tolse di testa. Podarce fu detto Priamo, quasi comprato. (3) In quanto a questa genealogia leggasi il lib. I. né forse sarà da meravigliarsi , se il testo contiene oggi qualche inesattezza. Del resto molti dicono che la moglie di Dardano non fu Olizona, figliuola di Fineo, ma bensì Balia, figliuola di Tataro. Apoltodoro in vece di Cleomestra pone Cleopatra, che probabilmente è errore di scrittura. È notabile poi rispetto ad Antenore questa Cleomestra, per la quale viensi a fissare il grado di parentela tra Antenore e Laomedonte e per conseguenza tra Antenore e Priamo. Anche Eustazio ricorda Esiete come padre di Antenore.

 

 

 

LIBRO QUINTO.

 

Capitolo Primo.

Come Antenore ritornato dal campo de' Greci mise tutti in aspettazione di quanto aveva trattato. Delle cose che disse a' suoi figliuoli; e come la mattina dopo andò in consiglio.

Appena che da' Trojani e da' confederati si seppe il ritorno di Antenore con Taltibio, tutti gli furono intorno desiderosissimi di sapere cosa si fosse concluso coi Greci. Ai quali Antenore disse che detto l'avrebbe il giorno seguente; e così egli per allora se ne sbrigò. Essendo poi a tavola presente Taltibio si mise a predicare ai suoi figliuoli  che in vita loro niente dovessero avere più a cuore che di tenersi amici i Greci, di ciascheduno de' quali esaltò sino alla meraviglia la probità, la fede e l'innocenza. Finito il convito ognuno andò pe' fatti suoi. Ma la mattina di buon'ora tutti erano già in consiglio ansiosi di sapere se rimedio alcuno potevasi sperare ai tanti mali, onde la città era travagliata: sicché Antenore vi si portò in compagnia di Taltibio; né molto dopo v'andò Enea; e poi comparve Priamo coi figliuoli che gli restavano ancora.

 

Capitolo II.

Come domandato in consiglio Antenore di riferire fece un lungo discorso e delle cose che disse.

Antenore, domandato di esporre quanto udito aveva dai Greci, in questo modo favellò:” Dura cosa, o Trojani e confederati, é stata per noi l'esserci chiamata addosso questa guerra coi Greci; ma più assai dura e molesta cosa é stata che a cagione di una donna ci siamo fatti nemici i Greci ch'erano amicissimi nostri, i quali fino dal tempo di Pelope sono a noi congiunti anche per parentela! Imperciocché, se si ha a riandare partitamente i passati travagli e danni, quando fu mai che la città nostra potesse respirare libera da disgrazie? Mancò forse mai cagione di pianto a noi e a' nostri confederati di affanno? Quand'é che non ci siamo veduto per la guerra tolti amici, genitori, parenti, figliuoli? E per rammemorare da me il lutto degli altri, che non ho dovuto soffrire nella perdita di Glauco mio, la cui morte, quantunque mi sia stata acerba, non però tanto mi ha addolorato, quanto m' addolorò quel tempo, in cui praticando Alessandro, gli fece compagnia nel ratto di Elena? Ma basti intorno al passato. Almeno prendasi provvidenza per l'avvenire! i Greci, custodi di fede e di verità, furono i primi a praticare co' Trojani benevolenza e cortesia. E di ciò buon testimonio ne sia Priamo, il quale in mezzo allo stesso strepito delle discordia, pur da essi riportò un chiaro pegno della loro misericordia. E noi dobbiamo ricordarci come, nel portarci la guerra, un atto solo d' ostilità essi non fecero prima di quella perfidia che venne usata ai loro ambasciadori e delle insidie che a' medesimi i nostri tesero. Rispetto a che io dico liberamente quello che sento: autori di ciò furono Priamo e i suoi figliuoli, e con essi Antimaco, il quale recentemente, perduti avendo i suoi, ha così scontato il fio della propria iniquità. E tutte codeste cose sonosi fatte in grazia di Elena; vale a dire di una donna che i Greci stessi non mostrano di curare in alcuna maniera. Ritengasi dunque in città questa donna, a cagione della quale nissuna nazione, nissun popolo fu mai amico di questo regno; o per la quale, dicendo meglio, tutti furono nemicissimi. E non ci toccherà piuttosto d'irci spontaneamente a supplicare perché la ricevano? Non cercheremo in ogni maniera di dar loro, che tante volte furono da noi offesi, una giusta soddisfazione? Non faremo almeno che per l'avvenire si riconcilino con noi? Io al certo m'andrò di qui più lontano che possa; né mi porrò in caso di più oltre trovarmi presente a' mali nostri. Fu un tempo, in cui era gioconda cosa lo stare in questa città: i confederati, gli amici, la salute de' congiunti, la patria stessa ancora sussistente vi ci hanno trattenuti fino al giorno d'oggi. Ma al presente quale di tutte queste cose non é scemata miseramente? o quale non é del tutto perduta? No, io non sopporterò più a lungo di starmi con costoro per opera de' quali tutto insieme colla patria io m' ho perduto. Quelli che la fortuna ci rapì in guerra seppellimmo già in qualunque maniera dandocene di lor piacere il permesso i nemici; ma dopo che gli altari e i templi degli Dei sono stati per pura scelleraggine contaminati di umano sangue, anche questo conforto abbiamo perduto, portati così a dover soffrire dopo la morte de' nostri più cari angoscia maggiore di quella che ne porti la loro perdita. Ma io vi prego che almeno provveggiate onde tanto non succeda. Con oro e con altrettali dovizie preziosissime dee riscattarsi la patria. In questa città sonovi molte case ricche; e dobbiamo ciascuno presentare quanto le proprie facoltà comportano. Trattasi di offrire ai nemici per la vita ciò che fra poco per la morte nostra sarà loro. E se fia pur necessario per la salvezza della patria dovrà darsi di mano anche agli ornamenti de' templi. Priamo solo guardi negli scrigni le sue ricchezze; egli solo tenga anche le migliori de' suoi concittadini; e con tutte queste godasi lieto le rapite insieme con Elena; e vegga quando possa servirsene per le calamità della patria. Noi siamo omai vinti dai nostri mali ».

 

Capitolo III.

Come udito il ragionamento di Antenore tutti si costernassero, e quale risoluzione facessero; e del discorso, che fece Priamo.

Dicendo Antenore queste e simili cose e lagrimando, tutti gli altri concordemente misero un alto gemito ed innalzando le mani al cielo esclamarono pur troppo in mezzo a tante disgrazie Priamo starsi fermo; e ciascheduno a parte o tutti insieme si misero a pregare che avessero termine le comuni angustie, gridando infine ad una voce doversi la patria redimere. Priamo allora con dirotto pianto strappandosi il crine miseramente si dolse che non solo fosse in tanto odio agli Dei, ma divenuto come nemico a' suoi, non trovando più né amico tra quelli che dianzi aveva né parente né cittadino che abbia compassione delle sue miserie. Né le cose che propongonsi, avere egli desiderato soltanto oggi; ma avere cercato che si trattassero viventi ancora Alessandro ed Ettore. Ma giacché il fare che le passate cose ritornino non é conceduto a veruno, delle presenti e future abbiasi adunque considerazione. Tutto ciò, ch' egli ha, darlo ampiamente a redenzione della patria; farne arbitro Antenore; e poiché é caduto in odio a' suoi, allontanarsi dal loro cospetto e dichiararsi consentire appieno a quanto sieno tra loro per risolvere.

 

Capitolo IV.

Come si decretò che Antenore tornasse al campo; e come Elena andò a raccomandarsi perché fosse messa nel trattato. Antenore ed Enea andati insieme confermano coi Greci il tradimento della città, e ritornano con Ulisse e Diomede, bene sperando i Trojani; e nel consiglio venne sbandito Antimaco da tutta la Frigia.

Partito il re, fu decretato che Antenore ritornasse a' Greci per esplorare quale fosse la precisa loro volontà; e ad Antenore fu aggiunto Enea, com'egli aveva voluto. Così fermate le cose il consiglio si scioglie. Ma verso mezza notte Elena nascostamente andò ad Antenore, sospettando che volesse consegnarsi a Menelao, e forse temendo quanto poteva accaderle per lo sdegno di un marito la cui casa ella avea abbandonata. Laonde preghiere non tralasciò, onde fra le altre cose di lei ancora Antenore parlasse a' Greci , e per lei provvedesse affinché fosse salva da male. Elena, siccome si vede, morto Alessandro, ebbe in odio tutto ciò ch'era in Troja e desiderò di ritornare a' suoi. Intanto venuto giorno Antenore ed Enea vennero alle navi ed esposero quanto era stato risoluto da tutti i cittadini. Perciò furono chiamati a stretto ragionamento con quelli, che avendo dianzi trattato dovevano ora maneggiare le cose secondo 1' opportunità; ed ivi dopo avere parlato di quanto riguardava le cose pubbliche, esposero anche la volontà di Elena ed interposero i loro officj onde fosse ricevuta in grazia; e finalmente confermarono fra loro i patti del tradimento. Quindi allorché parve tempo vennero a Troja con Ulisse e Diomede, impedito da Enea ad Ajace l'unirsi loro per la considerazione che tal uomo, il solo che i Barbari temessero al pari d'Achille, non facesse per insidia il tristo fine di quello. Poiché adunque i capitani greci furono veduti in Troja, tutti i cittadini presero cuore, credendo il fine della guerra e delle discordie essere giunto. E radunatosi il consiglio, presenti i nostri, fu per prima cosa fra tutte decretato che Antimaco, autore di tanti disastri, fosse sbandito da tutta la Frigia.

 

Capitolo V.

Come, mentre cogli Ambasciadori greci si trattava in consiglio, nacque trambusto sospettato per una insidia; e come avendo Antenore in casa sua quegli Ambasciadori disse loro del Palladio, e promise di portarlo via.

Di poi s'incominciò a trattare delle condizioni della pace. Ma nel mentre che si era intesi in queste cose ecco che s'ode grande clamore uscito di Pergamo, ov'era la reggia di Priamo. Laonde turbati tutti quelli ch'erano nel consiglio escono fuora in gran furia, credendo che qualche insidia fosse tramata secondo il loro solito dai figliuoli del re. Perciò tutti corsero a rifugiarsi nel tempio di Minerva. Ma non guari andò che da quelli che venivano dalla rocca si seppe come i figliuoli che Alessandro aveva avuti da Elena, per la caduta della camera in cui stavano, eran rimasti morti. I loro nomi erano Bunomo, Corito e Ideo(1). Onde differito il consiglio i nostri andarono a casa di Antenore ed ivi mangiarono e pernottarono. In quella occasione seppero anche da Antenore, avere i Trojani un oracolo il quale portava che la città ruinerebbe interamente se fosse tratto fuori delle sue mura il Palladio(2), che conservavasi nel tempio di Minerva. Era questa una statua di legno antichissima, la quale dicevasi venuta dal cielo nel tempo che Ilo fabbricando il tempio di Minerva era giunto quasi alla sua cima: onde non essendo ancora messo il coperto quella statua aveva preso ivi luogo. Sicché i nostri dicendo ad Antenore che dunque li ajutasse a portarlo via, rispose egli che avrebbe fatto ogni loro piacere.

Nel tempo stesso, li prevenne che in consiglio egli avrebbe liberamente parlato sulla qualità delle cose che erano per domandare; e ciò perché altrimente facendo i Barbari non sospettassero di lui. Così convenuti, a giorno chiaro Antenore e gli altri principali andarono da Priamo; e i nostri ritornarono alle navi.

(1) Tzetze aggiunge un quarto figlio, di nome Agao. Licofrone però dice che Elena non aveva partorito né a Menelao né ad Alessandro nè a Deifobo alcun maschio, ma soltanto femmine. Tzetze in opposto aggiunge  che Elena aveva fatto de' maschi anche a Menelao e a Teseo; e nomina Nicostrato, FJìnla e Menelao. Gli antichi hanno tanto parlato di Elena che se fu singolare per la sua bellezza lo fu ancora per la moltitudine degli uomini coi quali visse e pel lunghissimo tempo, in cui si suppose aver durato ad essere desiderata, quantunque a ragione degli anni dovesse essere assai vecchia. (2) Codesta statua era dell'altezza di tre cubiti, aveva i piedi in tal mossa che pareva camminare. Nella destra poi aveva un’ asta e nella sinistra aveva una conocchia e un fuso. Apollodoro racconta che Ilo, fabbricata ch'egli ebbe la citlà , pregò Giove a dargli una qualche statua: e il giorno dopo vide innanzi al suo alloggio il Palladio. Dice pure che essendo venute a contesa tra loro Minerva e Pallade, Minerva ammazzò Pallade (il che deve intendersi figuratamente) onde poi tocca di dolore fece una statua somigliantissima, recata in seguito da Elettra ad Ilio. Altri dicono che al tempo di Troo un certo Asio che sapeva di astrologia e di magia feoe una statua di legno per oroscopo della inespugnabilità della città, in cui fosse conservata. Così Eustazio, Tzetze, Svìtl.i ere. Dionigi di Alicarnasso riferisce che Dardano avendo sposato una certa Crisi, ebbe da lei due Palladii: che uno di questi dal Peloponneso fu trasportato in Samotracia ed indi nell'Asia. Clemente Alessandrino ed altri dicono che codesto Palladio fu costrutto colle ossa di Pelope. Altri dicono, che questo Palladio cadde in un campo della Frigia e quindi fu portato a Roma. Molte altre storie ancora si sono fatte del Palladio, inutili a rammentarsi .

 

Capitolo VI

Come ritornati al consiglio gli Ambasciadori greci, Lampo fece un’apologia de’ Trojani; e parlandosi delle condizioni del trattato, Diomede domandò tal somma, che Antenore disse impossibile; e come dopo molti diverbj Panto fece differire al dì seguente la conclusione.

Ne' tre giorni susseguenti si fecero ì funerali ai fanciulli estinti: e al quarto Ideo andò a chiamare i sopraddetti capitani greci, presenti i quali Lampo e gli altri che nel consiglio provalevano si misero a dir molte cose e a toccare quanto inconsideratamente erasi in addietro fatto, non per istigazione o consenso loro, che anzi erano dai figliuoli del re sprezzati e tenuti a vile, ma per capriccio altrui. Però, che avessero essi portate le armi contro i Greci non era cosa che stata fosse di propria scelta, sapendosi che chi vive soggetto all' imperio altrui dee conformarsi al comando che gli vien dato. Per il che era cosa conveniente che i Greci passando sopra quel fatto avessero riguardo a coloro i quali sempre erano stati per la pace: che d'altronde se i Trojani avessero peccato ne aveano anche fatta aspra penitenza. Sopra le quali cose essendosi assai parlato, infine si venne a trattare di quanto dar dovevasi a' Greci. E a questo proposito Diomede domandò che per dieci anni si dovesse dar loro cinque mila talenti d'oro, altrettanti d' argento ed in oltre cento mila moggia di frumento. E come a tale proposta si tacquero tutti, parlò Antenore dicendo che non a costumanza de' Greci precedevasi così parlando, ma bensì secondo che usano i Barbari; perciocché era chiaro che domandavansi cose impossibili e sotto pretesto della pace intendevasi di preparare la guerra: né tanta somma d' oro e d' argento essere stata mai nella città nemmeno prima che si smungesse, come erasi fatto, pagando ausiliarj. Che se i Greci volevano persistere in tanta avarizia, una cosa sola restare a' Trojani, ed era  che chiuse le porte della città ed attaccato il fuoco ai templi degli Dei incontrassero essi medesimi la stessa ruina che toccava alla loro patria. Al quale discorso rispose Diomede: noi non siamo già venuti da Argo per vedere la vostra città; ma per farvi la guerra. Laonde, se anche ora avete volontà di battervi, i Greci sono pronti al cimento: che se, come tu dici, attaccherete fuoco ad Ilio, noi non vel vieteremo: giacché l'oggetto de' Greci punti delle ingiurie che loro avete fatte é di aver vendetta de' loro nemici. Allora Panto domanda che la deliberazione si rimetta al dì seguente; e i nostri vanno a casa di Antenore e quindi al tempio di Minerva.

 

Capitolo VII.

Come ì Trojani facendo sacrifizio ebbero presagi terribili; e come Diomede ed Ulisse non si diedero per intesi della costernazione del popolo: al contrario al campo de' Greci furono i portenti avuti di buon augurio per loro.

In questo mezzo un grande portento si osservò all'atto che s'era dietro a dare culto agli Dei. Imperciocché nel disporre il sacrifizio ecco che all' improvviso, messo il fuoco sull' altare per consumare la vittima, né le fiamme la cinsero né in alcun modo essa restò distrutta, siccome in addietro accadeva; che parea anzi dal fuoco stesso sdegnata. Per lo che turbato il popolo e volendo verificare il misterio corse all’ altare di Apollo, ivi collocando le viscere dell'animale sacrificato; ma appena vi fu acceso il fuoco, tutte si contrassero e cadder per terra. Al quale spettacolo, che già per sé stesso tutti gli animi atterriva, l'altro sì aggiunse di un'aquila improvvisamente comparsa, la quale con acute strida si gettò sull' altare e, rapita parte di quelle viscere, dandosi al volo andò alle navi de' Greci ed ivi lasciò cadere la preda. Né i Barbari tennero il fatto per cosa leggiera o d' ignoto significato; ma palesemente lo reputarono e lo credettero di perniciosissimo presagio. Intanto Diomede ed Ulisse, facendo vista di non badare a ciò che succedeva, andavano passeggiando per piazza, considerando e lodando i begli edifizj  e le altre insigni cose della città. Ma alle navi in quel tempo 1' auspizio avuto metteva in commozione tutti; e Calcante gridava che il tenessero per buono; imperciocché esso voleva dire che in breve sarebbero padroni di quanto era in Troja.

 

Capitolo VIII.

Come anche i sacrifizj, che volle far Ecuba, ebbero simile sorte; e Cassandra fece portare le vittime al sepolcro di Ettore. E come Antenore portò via il Palladio, e lo diede ai Greci; e gli Ambasciadori di questi conchiusero in Troja il trattato.

In Troja quando Ecuba seppe il mal augurio uscì per placare gli Dei, e Minerva spezialmente ed Apollo, ai quali recò molti doni e vittime opime. Ma nell'abbruciarne sull’ altare le parti consecrate, nella stessa maniera di prima videsi il fuoco destarsi e in un subito estinguersi. Al che piena d' affanno Cassandra, ed invasa dallo spirito del nume, diede ordine che le vittime si portassero al sepolcro di Ettore, gridando sprezzare gli Dei oggimai i sacrifizj per lo sdegno del sacrilegio commesso contro Apollo. Onde, così trasportati al rogo di Ettore, i tori già immolati tosto che vi si mise sotto il fuoco restarono interamente consunti. Venuta poi la sera, ognuno si ritirò al suo alloggio; ed Antenore nella notte medesima ito nascostamente nel tempio di Minerva con molte preghiere miste alla violenza indusse Teano(1), sacerdotessa del santuario, a consegnargli il Palladio, promettendole per tal cosa grandi premj. Il quale poiché ebbe, egli venne a' nostri e loro il presentò, adempiendo la data parola; ed i Greci avendolo diligentemente avviluppato onde nissuno capir potesse cosa fosse lo misero sopra un carro e lo fecero per fidate persone recare alla tenda di Ulisse. La mattina, essendosi radunato il consiglio a cui intervennero anche i nostri, Antenore come se temesse l'ira de' Greci incominciò a perorare pregando che si volesse passar sopra a ciò che con animo alquanto caldo avesse detto spinto dall'amore della sua patria. A cui Ulisse rispose non essere egli di ciò né commosso né sdegnato; bensì di non vedere venirsi a conclusione sul trattato; massimamente considerando come andava in breve a trascorrere il tempo opportuno alla navigazione. Quindi ripigliati i discorsi sull'argomento fu l'affare ridotto finalmente a due mila talenti d'oro e di argento; e i nostri andarono alle navi per riferire la cosa. Infatti, convocati i capitani, esposero quanto era seguito; e dissero pure del Palladio che Antenore avea tolto dal tempio; e di comune consenso fu per tutto l'esercito pubblicata ogni cosa.

(1) Omero suppone che Teano, sacerdotessa di Minerva, fosse moglie di Antenore, bella donna e figlia di Cisseo. Del resto gli altri quasi tutti danno detto che il Palladio fu portato via da Ulisse e Diomede. Suida però segue Ditti.

 

Capitolo IX.

Come i Greci dicono di fare un gran dono a Minerva; ed Eleno suggerisce il cavallo, per introdurre il quale si dovrebbero rompere le mura della città; e nel profetizzare la ruina di Troja Eleno ricordandosi del padre e de' fratelli tramortisce; poi a Pirro, che lo faceva guardare, dice non essere per distaccarsi da lui.

Da ciò nacque la determinazione di offrire a Minerva un onorevolissimo dono. E chiamato Eleno a consulta, egli tutto ciò che seguito era seppe ordinatamente dire, come se fosse stato presente; ed aggiunse essere già venuto il fine delle cose trojane; giacché quello che massimamente sosteneva la sorte della città era il Palladio, portato via il quale la ruina della medesima era certa. Ma che egualmente funesto a’ Trojani stato sarebbe il fatal dono fatto a Minerva, perciocché doveva questo consistere in un cavallo di legno di forma gigantesca(1); per introdurre il quale in città a cagione della enorme grandezza sua sarebbe stato d'uopo rompere le mura, a ciò prestando servigio ed opera Antenore. Indi rammentando il padre Priamo e i superstiti fratelli si diede miserabilmente a piagnere; e trafitto dal dolore cadde come tramortito. Se non che Pirro il rialzò e confortollo e lo fece condurre alla sua tenda, e gli mise guardie per paura che non facesse sapere a' nemici alcuna delle cose divisate. Del che avvedutosi Eleno disse a Pirro che stesse pure di buon animo e sicuro di lui e del secreto; poiché anche dopo la ruina di Troja lo avrebbe avuto a’ fianchi, e per molto tempo sarebbe dimorato in Grecia. Epeo intanto ed Ajace Oileo prepararono il legname necessario alla costruzione del cavallo indicato da Eleno.

(1) Non ben creduta alla lettera la storia di questo cavallo, in varie maniere fu interpretata, siccome abbiamo da Servio. Igino e Tuberone dissero di quella età una macchina di guerra chiamata cavallo, come altre chiamavansi ariete o testuggine, con cui rompevansi e conquassavansi le mura. Altri dicevano intendersi la porta della città che Antenore aprì ai nemici ed in cui eravi dipinto un cavallo. Altri, che il cavallo fu un segnale dato perché i Greci distinguessero i loro dai Trojani. Altri dissero che nel tradimento si fosse convenuto che si sarebbero rispettate le case, sulla cui facciata fosse dipiuto un cavallo. Altri, che la storia del cavallo non signilìca se non che Troja fu vinta con battaglia equestre. Altri infine, che venne dal monte Ippia , che voleva dire monte cavallo, o monte de' cavalli, dietro ai quali i Greci s'erano nascosti per sorprendere la città. È noto che Virgilio pone codesto cavallo non solo sì grande quanto lo dice Ditti, ma portante ascosi nel ventre molti Greci.

 

Capitolo X.

Come vennero dieci Ambasciadori greci a ratificare la pace, la quale fu giurata solennemente; e il popolo trojano festeggiò i Greci ed Antenore; e come i Confederati de’ Trojani partirono pe' loro paesi.

Dieci de' loro capitani scelsero i Greci, che dovessero ratificare il trattato di pace; e andarono a Troja. Erano questi Diomede, Ulisse, Idomeneo, Ajace Telamonio, Nestore, Merione, Toante, Filottete, Neottolemo ed Eumelo. I quali poscia che dal popolo furono veduti raccolti in piazza, lieto li confortò credendo giunto finalmente il termine di tanti patimenti e di tante angoscie. Perciò o ad uno ad uno o molti insieme, come l'accidente portava, i Trojani benignamente li abbordavano salutandoli e baciandoli con ogni maniera di congratulazione. Priamo li pregò per Eleno e con molte istanze raccomandò loro quel suo figliuolo, che gli era carissimo sopra tutti per la sua grande prudenza. Poi venuta l'ora si diede ad essi un convito pubblico e per onorare le loro persone e per celebrare la fatta pace; ed Antenore era quegli che serviva i Greci e che cortesemente offriva e porgeva ogni cosa. I vecchj poi la mattina dopo si radunarono nel tempio di Minerva, ove Antenore riferì de' dieci mandati per fermare le condizioni della pace, i quali vennero introdotti, e date a vicenda e prese le destre fu stabilito che nel prossimo giorno in mezzo al campo ed in cospetto di tutti si sarebbero alzati gli altari, innanzi ai quali colle debite cerimonie i patti della pace sarebbonsi giurati solennemente. E di fatto, ove poi si fu al luogo, Diomede ed Ulisse incominciarono, giurando che stato sarebbesi a quello che si era accordato con Antenore: del che chiamavano in testimonio Giove sommo e la Madre Terra e il Sole e la Luna e 1' Oceano. Quindi divise in due parti l'ostie recate a tal fine, così che da un canto erano volte verso il Sole e dall'altro verso le navi, passarono in mezzo ad esse. Antenore confermò con eguale sacramento la cosa. Fatto ciò ognuno ritornò a' suoi. E i Barbari intanto s'udirono alzare al cielo con somme lodi Antenore; e dove compariva vidersi andargli incontro e venerarlo come se fosse un Dio; poiché lo credevano il solo autore di quella pace e dell'amicizia fatta co' Greci. E per tal maniera sopita da quel momento la guerra, ognuno come più gli pareva, trojano o greco, andava liberamente su e giù, quegli alle navi, questi in città; e a gruppi molti dell'una e dell'altra nazione uniti insieme. Frattanto, visto fatta quella pace, tutti i confederati de' Trojani ch'erano rimasti, congratulandosi della felice avventura, partirono pe' loro paesi, non aspettando nemmeno di ricevere i premj dovuti a tanti travagli e pericoli occorsi; ed a ciò li mosse il timore che per qualche accidente i Barbari rompessero la data fede.

 

Capitolo XI.

Come terminata la costruzione del cavallo i Trojani lo vollero introdurre in città rotto il muro; e i Greci non vollero, se prima non era pagata la somma convenuta; e come intanto Ulisse mandò tutti gli artefici trojani a racconciare le navi de’ Greci; il che fatto il cavallo fu introdotto in Troja con gran festa.

In questo mezzo Epeo stava fabbricando, siccome Eleno aveva indicato, il cavallo, il quale era alto immensamente; ed alcune ruote gli si erano poste sotto i piedi, onde più facilmente potesse esser mosso: tutti dicendo maravigliati essere in vero un dono degno della Dea a cui era destinato. E mentre ciò facevasi presso alle navi, in Troja si radunava l' oro e l' argemo che pagar dovevasi a' Greci; ed erano Antenore ed Enea quelli che avendo tale incombenza lo facevano portare nel tempio di Minerva. I Greci poi, veduto che i confederati de' Trojani erano partiti, con assai diligenza si attennero ai termini della pace e dell' amicizia stipulata; né occorse fatto per cui alcuno de' Barbari restasse morto o ferito, tal contegno avendo i Greci onde rimovere ogni sospetto. Ed intanto, essendo il lavoro del cavallo compiuto, fu condotto presso le mura della città e fermato lì, con avviso a’ Trojani che lo dovessero ricevere con somma religione, come cosa a tanta Dea consecrata: onde infinita turba di popolo uscì di Troja festeggiante e con sacrificj solennizzò il ricevimento; e più d' appresso accostò il cavallo alle mura. E poiché videsi che attesa l'enorme sua grandezza non era possibile farlo entrare per la porta, si prese la deliberazione di atterrare un pezzo di muro; né fuvvi alcuno che pensasse diversamente. Per tale maniera l' opera di quelle mura, inviolate per tanti e tanti anni e monumento massimo, per ciò che stimavasi, di Nettuno e di Apollo(1), per mano degli stessi cittadini e di pieno intendimento loro vien guasta! E quando ciò fu fatto, avvedutamente i Greci sorsero ad interrompere il trasporto del cavallo in città, dichiarando che non permetterebbero che fosse tratto dentro se prima essi non avessero ricevuto l' oro e l'argento pattuito. Intanto Ulisse condusse tutti gli artefici di Troja a lavorare intorno al restauramento delle navi e soltanto quando fu messa in ordine la loro flotta e tutti i legni disposti e pagata la pecunia convenuta, diedero libertà a' Trojani di effettuare il trasporto. Allora, tra feste e tripudii donne e uomini traendo a gara le funi, il cavallo fu introdotto in città, restandone pel rotto muro spalancato l' accesso.

(1) Omero fa dire a Nettuno ch'egli insieme con Apollo aveva fabbricate ad istanza di Laomedonte le mura di Troja. Osservisi però che in altro luogo Omero stesso attribuisce la costruzione di quelle mura a Nettuno solo, mentre Apollo pascolava la greggia di Laomedonte!!

 

Capitolo XII.

Come i Greci imbarcato tutto si ritirarono al Sigeo, d'onde la notte entrando in Troja ne ammazzarono gli abitanti, ed incendiarono tutti gli edifizj; e di quello che successe a Priamo , e agli altri.

Come poi i Greci ebbero imbarcato tutto, abbruciate le baracche ov'era stato l'esercito si ritirarono al Sigeo(1) ed ivi aspettarono che facesse notte. La quale venuta, mentre i Barbari erano già stanchi pel bevuto vino e pel sonno, cose che avevano cagione del pari nell' allegrezza e nella sicurtà della pace, in gran silenzio s' appressarono tenendo l'occhio ad un segnale, per mezzo di un fuoco a quell' oggetto da Sinone acceso in certa altura; e quindi entrati tutti in città si divisero pe' varj quartieri della medesima, conforme era loro stato indicato; ed ivi a furia si posero ad assaltare e a trucidare quanti trovavano per le strade, per le case, per ogni luogo sacro e profano ed a fare man bassa in ogni maniera ove alcuna mossa immaginassero, prima che si avesse tempo di prendere le armi o misura qualunque per salvarsi. Né pietà alcuna né misericordia vi fu: perciocché palesemente ed alla vista de' loro figli e genitori in mezzo al gemito de' circostanti ammazzavansi; e i circostanti, stati testimonj del tremendo spettacolo, finivano col venire ammazzati anch' essi. Né con minore furia per tutta quanta la città si sparsero gl'incendj, appostate prima le guardie alle case di Enea e di Antenore per salvarle(2). Priamo veduta la desolazione corse a rifuggirsi all' altare di Giove posto innanzi al suo palazzo; e molti del palazzo andarono ne' templi degli Dei: Cassandra corse a quello di Minerva. I Greci, fatta man bassa sopra quanti miseramente ed invendicati erano loro venuti sotto, incominciando a spuntare il giorno assaltarono la casa di Elena, ove Menelao, sorpreso Deifobo, che dicemmo essersi dopo la morte di Alessandro tolta quella donna in isposa, tagliategli prima le orecchie, poi troncategli le braccia, indi il naso, in fine in ogni parte il mutilò e con atrocissimi tormenti in tale maniera martirizzato l'uccise. Neottolemo si buttò addosso a Priamo e senza rispetto alcuno né alla età né alla dignità regia, afferratolo con ambe le mani e addossato all' altare lo scannò. Ajace Oileo strappò dal sacrario di Minerva Cassandra e la fece sua prigioniera.

(1) È noto che Virgilio dice i Greci essersi nascosti di dietro a Tenedo: ma Tenedo é distante dal Sigeo settaniacinque stadj. Palefato scrive che i Greci si ritirarono in un certo luogo cavo, che anche al suo tempo chiamavasi Insidia de’ Greci.  (2) Strabone dice che a quelle case non fu messa che una pelle di pantera per segno che nissun Greco entrasse per saccheggiarle .

 

Capitolo XIII.

Come furono scannati tutti i Trojani rifuggitisi nei templi, e la città messa a sacco, e divisa la preda, incominciandosi dalle più nobili donne.

In questa maniera distrutti colla loro città i Barbari, si venne da' Greci a deliberare sulla sorte di quelli che dagli altari degli Dei, a cui eransi rifuggiti, imploravano la vita; e da tutti fa stabilito che per forza tratti di là senza pietà si ammazzassero: tanto era il dispetto della ingiuria sofferta e la smania di estinguere per sempre il nome trojano! Adunque tutti que’ miseri che s’erano sottratti all' angoscia della funesta notte antecedente furono presi e come vili bestie scannati. Indi, come accade in città presa d'assalto, un saccheggiamento fu fatto d' ogni cosa e ne' templi e nelle mezzo abbruciate case; e per più giorni si tennero guardie dappertutto percbé nissuno de' Trojani fuggisse, essendo tutti irremissibilmente consecrati alla morte: intanto che a deporre l'oro e l' argento ammucchiato furono destinati gli opportuni luoghi; ed altri a deporre le vesti e mobiglie preziose. Poi quando si fu sazj del sangue trojano e la città dal fuoco restò diroccata tutta ed eguagliata al suolo, si venne a divider la preda. E come s' incominciò dalle donne prese e dai fanciulli imbelli, prima di tutte e fuori di sorte Elena(1) fu conceduta a Menelao; poi Polissena, così consigliando Ulisse, fu da Neottolemo destinata in olocausto ad Achille(2); ebbe Agamennone Cassandra(3), perché innamorato della bellezza di lei non aveva dissimulato il desiderio di possederla; e Demofone ed Accamante s'ebbero uno Etra e l'altro Climene(4). Le altre si misero a sorte; ed a Neottolemo toccò Andromaca(5) e vi furono aggiunti poscia i figli di lei ad onore di tanto capitano; ed Ecuba toccò ad Ulisse. Questo fu il riparto delle nobili donne destinate ad esser serve: gli altri, conforme portò la sorte, ebbero preda e schiavi quanto conveniva a' meriti di ciascheduno.

(1) Virgilio a vituperio di Elena fa dire a Deifobo che gli tolse di sotto al capezzale la spada e chiamò Menelao e gli aprì la porta. Fa dire in oltrre ad Enea ch'egli vide Elena rifuggita nel tempio di Vesta! Due cose difficili a combinarsi insieme. Omero suppone che Menelao andasse in casa di Deifobo in compagnia di Ulisse. Del resto Darete solo pone Deifobo ucciso in battaglia da Palamede. (2) Quasi tutti gli altri scrittori dicono che l'ombra  e la voce di Achille uscita del sepolcro chiese che gli s'immolasse Polissena. Filostrato e Tzetze dicono che Polissena fu sì percossa dalla morte di Achille, che s'ammazzò sul sepolcro di lui.(3) Cassandra, secondo Omero, fu insieme cou Agamennone uccisa da Clitennestra. (4) Di queste si é già parlato. Etra fu madre di Teseo ed avola di Accamante e di Demofone. (5) Eccetto Ditti gli altri scrittori non danno ad Andromaca altro figliuolo come moglie di Ettore se non che Astianatte, che Pirro, e alcuni dicono Ulisse, gittò giù di una torre.

 

Capitolo XIV.

Come contendendosi pel Palladio tra Ajace, Diomede ed Ulisse, essendosi Diomede ritirato dal contenderlo a contemplazione di Ajace, fu dato ad Ulisse.

Ma un'aspra quistione insorse ira i capitani a cagione del Palladio(1), domandato avendolo Ajace Telamonio in premio di quanto colle opere del braccio suo valoroso e della sua sagacità avea fatto. Ond’ é che quasi tutti, anche perché non restasse disgustato un tant'uomo di cui erano note le grandi azioni e le cure e vigilie a favor dell'esercito, il concedettero a lui, non altri fra tanti opponendovisi che Diomede ed Ulisse. Dicevano questi che per le sole loro instigazioni erasi quel Palladio ottenuto. Diceva Ajace, non fatica o valore essere ad essi costato; perciocché Antenore era stato quegli che in contemplazione della comune amicizia l'aveva rapito. Diomede per una certa verecondia volle rendere onore ad Ajace e desistette dalla domanda. Rimasero contendenti Ulisse ed Ajace, ognuno de' quali faceva somma forza per averlo, mettendo innanzi entrambi quanto aveano fatto. Ulisse era spalleggiato da Menelao e da Agamennone in grazia di avere poco prima preservata Elena coll' opera sua(2); giacché dopo che Troja fu presa, ricordandosi Ajace di quanto per tanti anni si era sofferto da' Greci a motivo di quella donna, era stato il primo che dato avesse l'ordine di ucciderla: e già i buoni in gran numero approvavano quel consiglio. All'incontro Menelao, durando ancora ad amarla, era andato a raccomandarsi in particolare a ciascheduno; e a forza di preghiere e di suppliche finalmente aveva ottenuto, ajutato dai buoni offìcii di Ulisse, che gli fosse consegnata senza discapito alcuno8£9. Adunque fattasi in apparenza una specie di giudizio sopra i meriti d' entrambi, mentre pur s' era ancora in uno stato di guerra e circondati per ogni verso da nazioni nemiche, diessi il Palladio ad Ulisse, non avutosi riguardo alcuno agli uomini valorosi, e negletti gli alti fatti di Ajace e quello del frumento, ch'egli portato avea dalla Tracia e distribuito a tutto l' esercito.

(1) Sulda e Cedreno hanno seguito Ditti parlando del Palladio: Omero, Sofocle e gli altri tutti, fra quali Ovidio, suppongono , che si trattasse delle armi di Achille. (2) È stato osservato che presso nissun altro autore trovasi accennata questa particolarità riguardo ad Ajace. Ben é vero che Virgilio attribuisce ad Enea il pensiero di uccidere Elena, ma che Venere nel distolse. (3) Il testo presenta qui un torno di parole, che oscuramente esprimono un senso ironico. Volgendolo alla lettera sarebbe stato difficile il serbar la debita convenienza.

 

Capitolo XV.

Come Agamennone e Menelao, poiché spalleggiavano Ulisse contro Ajace, vennero in odio all’esercito; e maggiormente quando si trovò Ajace morto a tradimento. E come Neottolemo fece l’ esequie, e fabbricò un sepolcro ad Ajace; ed Ulisse si ritirò dall’ esercito.

Laonde tutti i capitani, i quali ricordevoli della virtù di Ajace non credevano alcuno degno d'essere a lui preferito, e gli altri che favoreggiavano Ulisse si divisero in due partiti. Ajace dal canto suo pieno di dispetto e di dolore andava palesemente dicendo a tutti di volere vendicarsi nel sangue di coloro i quali opponevansi alla sua domanda. E per questo Ulisse, Agamennone e Menelao, ponendosi ben in guardia, per essere più sicuri niuna parte di vigilanza intermisero. Né senza ragione; perciocché venuta la notte, nell' andar che tutti facevano alle loro baracche, prorompevano in escandescenza contro ambedue i re, né risparmiavano bestemmie e maledizioni a loro carico, trattandoli da persone in cui poteva più il capriccio e la libidine per una donna che la giusta considerazione delle imprese e del valor militare. Ma intanto venuta l'alba ecco che trovasi in mezzo al campo Ajace morto(1); ed esaminatone il cadavere si vide ch' egli era stato ucciso di ferro. Gran tumulto adunque s'alzò fra i capitani e nell'esercito, che in breve prorruppe in aperta sedizione, deplorandosi da tutti che come in addietro Palamede, uomo in pace ed in guerra prudentissimo, ora Ajace, inclito per tante battaglie sostenute, era per le insidie di que' re miseramente perito. Pe' quali clamori spaventati e temendo che l'esercito facesse loro qualche violenza, si chiusero nei loro alloggiamenti e vi si assicurarono coll' ajuto dei loro amici. Neottolemo in questo mezzo fatta portare la legna necessaria abbruciò il cadavere di Ajace e chiuse in un' urna le ceneri le fece seppellire nel promontorio Reteo, ove in breve tempo fece alzare un monumento in onore di quel gran capitano. Né v' é alcun dubbio che se queste cose fossero succedute innanzi che Troja fosse stata presa non avessero grandemente giovato a' nemici e l'impresa non fosse divenuta incerta. Ulisse intanto temendo qualche offesa dall' esercito nascostamente scappò ad Ismaro(3); e il Palladio restò nelle mani di Diomede.

(1) Omero, Sofocle, Ovidio dissero che Ajace s'era ucciso da se medesimo, Darete lo suppone morto per ferite riportate da Paride. (2) Plinio dice che Ajace fu sepolto presso il Sigeo. Il promontorio Reteo fu cosi detto da Reteia, città ivi sussistente; e Strabone chiama quel promontorio Ajanteo, quasi Ajaceno, ove, dice egli, è il monumento e la statua di Ajace, la quale, essendo stata da Antonio trasportata in Egitto, Augusto fece restituire ai Retejesi. La cura poi che Ditti attribuisce a Neottolemo, Sofocle l'attribuisce a Teucro. (3) In Omero pare che Ulisse andasse ad Ismaro per sola forza dei venti ciconii.

 

Capitolo XVI.

Come Ecuba fu lapidata; e come Cassandra presagì gl’ infortunii di Agamennone, e degli altri Greci. Di ciò, che disse Antenore ai Greci, e i Greci ad Enea; e delle esequie di Ajace. Agamennone e Menelao dovettero fuggire. Poi di altre cose.

Dopo la partenza di costui, Ecuba desiderosa di togliersi dalla servitù mediante la morte si mise a vomitare ingiurìe e maledizioni d'ogni maniera contro l'esercito greco; onde i soldati irritati di ciò la lapidarono e n'alzarono il sepolcro presso Abido, a cui misero nome Cinossema, volendo con tale parola significare la lingua proterva e l'impudente petulanza di quella donna(1). In quel tempo ancora Cassandra, inspirata da furor divino, molte profezie annunciò a danno di Agamennone, predicendogli occulte trame d'insidiatori e morte violenta in propria casa per opera stessa di quei del suo sangue. Ed all'universo esercito ancora un ritorno al paese presagì pieno di travagli e di ruine. Nel qual mezzo Antenore insieme con quei ch'erano seco si mise ad esortare i Greci che lasciassero gli sdegni e che essendo già il tempo propizio al navigare(2) prendessero le risoluzioni più convenienti al comune vantaggio. In quella occasione menò tutti i capitani a mangiar seco e li colmò di grandissimi doni. I Greci persuasero ad Enea che volesse navigare insieme con essi al loro paese, promettendogli che ivi avrebbe regno e potenza al pari degli altri capitani(3). Neottolemo concedette ad Eleno i figliuoli di Ettore(4); e gli altri capitani gli diedero tanto oro ed argento, quanto a ciascuno parve. Indi tenuto consiglio tra essi  fu deliberato di fare solenni esequie ad Ajace per tre giorni continui; dopo i quali tutti i re deposero una parte de' loro capegli sul sepolcro di quell'eroe. E d'allora in poi di contumelie coprivano Agamennone e il fratello, chiamandoli entrambi non più Atridi, ma Plistenidi, il quale ultimo nome era tenuto per ignobile. E tanto furono da questi sprezzi colpiti i due re, che, onde per la lontananza l' odio che mostrava loro l' esercito si temperasse, chiesero di potere senza danno partire; e ad una voce cacciati dai capitani furono i primi di tutti ad imbarcarsi(5). Intanto i figliuoli di Ajace, Eantide cioé, avuto da Glauca, ed Eurisace(6) da Tecmessa, vennero consegnati a Teucro.

(1) Altri dicono che Ecuba si precipitò in mare: altri, che fu lapidata dai soldati di Polinnestore. Invece poi di Abido, alcuni pongono il Sigeo ed altri il Chersoneso. Cinossema vuol dire monumento del cane. (2) Da queste parole si arguisce che Ditti suppone che Troja fosse presa in autunno; e Servio fu della stessa opinione. Scaligero al contrario suppone che fosse presa dì primavera. (3) Alcuni hanno scritto che Enea fu dato prigioniero a Neottolemo, e da questi condotto in Farsaglia: che ucciso poi Neottolemo da Oreste e fatto libero, Enea andò in Macedonia e poi venne in Italia. Altri dicono che poco prima della presa di Troja si ritirò sul monte [da; e che navigò in Italia tre anni dopo. Altri scrivono che rimase nella Frigia ed ivi regnò lungamente. Altri finalmente dicono altre cose. (4) Virgilio suppone che Neottolemo conducesse seco iu cattività Eleno, ma che poi gli concedesse Andromaca in moglie, mentre egli chiedeva Ermione e Giustino consente con Virgilio. (5) Ditti é solo a raccontare questo fatto, leggendosi in contrario presso altri e segnatamente presso Omero che dopo la presa di Troja nacque diverbio tra Menelao ed Agamennone, volendo il primo che tutti i Greci s'imbarcassero e partissero, e il secondo che si fermassero sino a tanto che egli avesse sagrificato a Minerva con alcune ecatombe; e che poi la meta de'Greci partì con Menelao, l' altra meta restò iu Troja con Agamennone. (6) Eustazio é il solo che faccia menzione di Eurisace: nissun altro fuori di Ditti ha parlato di Eantide.

 

 

Capitolo XVII.

Come i Greci finalmente partirono: e come Enea avendo voluto cacciare Antenore da Troja, non poté, e dovette partire; e navigando sino nell'Adriatico fabbricò Corcira Melena.

In mezzo a queste cose temendo i Greci che col ritardare di più, avvicinandosi l' inverno, potesse loro togliersi il navigare, messe in mare le navi le provvidero di remiganti e di ogni cosa opportuna; e con ciò che ognuno d'essi aveva guadagnato per molti anni di guerra partirono. Enea rimase presso Troja, il quale, partiti i Greci,  andato a quei di Dardano e della vicina penisola parlò loro, onde seco si unissero affinché Antenore non tenesse il regno. Di che avvisato questi, Enea ritornando verso Troja non poté riuscire nell' intento, e fu costretto a pigliare ogni suo avere e ad andarsene lungi. Navigò egli adunque; e finalmente giunse nel mare Adriatico, passando per molte barbare genti; e con quelli che lo accompagnavano fabbricò una città che chiamossi Corcira Melena(2). Presso Troja poi, essendosi sparsa la voce che Antenore aveva regno, tutti quelli ch' erano avanzati dalla guerra e sfuggiti alla strage notturna della città andarono a lui ed in breve tempo trovaronsi in una gran moltitudine: tanto essendo l' amore che gli volevano e l’ opinione di sapienza che godeva. Fu il primo degli amici suoi Enideo, re dei Cebreni(3).

 

Queste cose ho scritte io, Ditti Cnosio, compagno d' Idomeneo, coi caratteri punici  datici da Cadmo e da Danao(4), ed in quella lingua la quale in mezzo a tante e sì diverse  che se ne parlano io potei apprendere. Né fa meraviglia, se mentre tutti sono Greci parlano però lingue differenti; poiché lo stesso succede perfino entro una medesima isola, dove lungi dall' usare tutti la stessa abbiamo diversità e mischianza. Io adunque sapendo quanto a' Greci ed ai Barbari accadde e gran parte sofferto avendo di que' travagli, ne tenni memoria. Di ciò che riguarda Antenore e il regno suo riferii quello che intesi dire. Ora prendo a raccontare quello che riguarda il ritorno de' nostri.

 (1) E’ notabile questo passo, singolarmente messo in confronto coi lunghi ragiouameuti di Giuseppe Scaligero intorno al preciso tempo in cui Troja fu presa. Egli dice che questo grande avvenimento succedette ai aa di giugno dell'anno del periodo Giuliano 3531 , corrispondente all' anno del mondo 3767, e a 47 anni dalla prima Olimpiade. (2) Corcira Melena, cioé Corcira nera, un'isola dell'Adriatico posta in faccia all'Illirio; e gli Eruditi diranno se sia Meteda d'oggi, o quale altra. Strabone scrive che in essa fuvvi una citta fabbricata dai Cnidii. È notabile che l'autore fa navigare Enea nell' Adriatico e restare Antenore a Troja, con che distruggonsi le tradizioni di Padova e di Alba. Un falsario, che nel secolo III dell'era nostra volgare scrive ne' ristretti termini, che qui Ditti presenta , é il più singolare fenomeno che si trovi nella storia; e mi pare che non siasi ancora detto tutto ciò che il fatto, qualunque sia, esigerebbe per essere o in un senso o in un altro ben illustrato.(3) I popoli Cebreni abitavano una parte della Troade  sullo Siamandro. Ne parla Strabone. Dicendosi che la Troade era staio il dominio di Priamo, si domanda da alcuni onde dunque desse fuori •'•desio re Enideo. Ciò vuol dire che gli Eruditi sanno molto

 (4) Madama Dacier non manca di osservare, che Ditti qui mette Danao insieme cen Cadmo autore, (avrebbe detto meglio introduttore in Grecia) delle lettere puniche, cioè fenicie , quando Settimio ne ha fatti autori Cadmo ed Agenore. Questa osservazione non porta a conseguenza veruna. La sos:anza del fatto é , chele lettere fenicie dovettero essere portate in Grecia da Fenicj , che vi si stabilirono . e questi furono e Cadmo , e Danao , ed Agenore , e forse anche altri.

 

 

LIBRO SESTO.

 

Capitolo Primo.

Come la flotta de Greci partita da Troja con buon vento nel mare Egeo fu dispersa; ed Ajace fatto naufragio miseramente perì per inganno di Nauplio agli scogli Cheradi(1).

Poichè si furono da' Greci caricate le navi del bottino che a ciascuno era toccato, sciolte le ancore essi navigarono; e col vento in poppa in pochi giorni giunsero nel mare Egeo. Ma, arrivati in quelle acque, le pioggie, i venti e il mar tempestoso gravemente li travagliarono a modo che di tratto in tratto la flotta ebbe a vedersi separata e dispersa. E la squadra de' Locresi in ispecie per l'imperversare della tempesta, rendute vane le diligenze de' piloti e tra sè inviluppatesi le navi, pativa già gravemente quando di più vi si aggiunse che vi caddero sopra i fulmini e restò incendiata e rotta. Lo stesso re dei Locresi, Ajace, dopo che nuotando cercò di scampare dal naufragio e poté ritrarsi all' isola Eubea cogli altri, che o sopra tavole, od in altra maniera s'erano abbandonati alle onde e si salvarono sugli scogli Cheradi, ivi poi miseramente perì. Fu questo per cagione di un inganno di Nauplio, il quale veduto il disastro di quel re e della sua gente e desiderando di vendicare la morte di Palamede, accese colà di nottetempo de' fuochi, a quei luoghi traendo i naufraganti come a porto sicuro.

(1) Questi scogli furono anche chiamati Cafaridi.

 

Capitolo II.

Come Eace andò in Argo a suscitare contro i loro mariti Egiale e Clitennestra: di ciò che colà avvenne, e della sorte ch' ebbero varj capitani de’ Greci ritornati da Troja.

In quel medesimo tempo Eace, figliuolo di Nauplio(1) e fratello di Palamede, inteso avendo che i Greci ritornavano a' loro paesi, andò in Argo ed ivi con false novelle armò contro i loro mariti Egiale(2) e Clitennestra, dicendo ad esse che coloro conducevano nuove mogli da Troja; e tutt'altro aggiungendo, che atto fosse a mettere a soqquadro la testa leggiera delle donne e ad irritarne gli animi. Perlocché quando Diomede arrivò Egiale messigli contro i cittadini gl'impedì di sbarcare; e Clitennestra(3) per opera di Egisto suo adultero tese insidie ad Agamennone e lo ammazzò; poscia sposando Egisto da lui ebbe Erigone. In quella occasione Taltibio(4) salvò dalle mani di Egisto il fanciullo Oreste e lo consegnò ad Idomeneo, che allora trovavasi in Corinto. Diomede(5)intanto cacciato del regno e Teucro impedito da Telamone di sbarcare a Salamina, perché non aveva ajutato il fratello contro le insidie tesegli, si unirono insieme; e Mnesteo(6) d' altra parte fu accolto dagli Ateniesi insieme con Etra e sua figliuola Climena; mentre Demofone ed Accamante si rimasero fuori. Quindi avvenne che molti di costoro, che vedevansi rigettati in un modo o in un altro da' loro paesi, trovatisi in Corinto si unirono insieme per assaltare i loro regni e colla forza delle armi farsi strada a ricuperare le contrastate regioni. Se non che vi si mise di mezzo Nestore, esortandoli a tentar prima di ridurre gli animi de' cittadini, grave essendo che tutta la Grecia per interne discordie ed a furore di guerra fosse guasta. Non molto dopo Diomede vedendo come in Etolia da gente, che per l’assenza di lui infestava il regno, gravissime molestie in molte maniere pativa Oeneo(7); e andato a quella volta tutti uccise gli autori di tali iniquità ed incusso timore per tal fatto a quanti erano nel paese fu da' suoi ricevuto. Nè andò guari che di queste cose e del ritorno sparsasi la voce per tutta Grecia ognuno accolse i suoi re, presi dalla doppia considerazione dell' alta virtù di coloro che avevano guerreggiato a Troja e della impotenza delle loro forze per resistere. Così anche noi andammo col re Idomeneo(8) in Creta, nostro suolo patrio, e vi fummo ricevuti con lietissima festa de' cittadini.

(1)Tzetze dice queste ribalderie essere state commesse dallo stesso Nauplio e le descrive più particolarmente. Messosi, dice egli, a girare pei varj paesi rendette adultere le donne de'Greci e indusse Clitennestra, moglie di Agamennone, a farsi corrompere da Egisto, Egiale, moglie di Diomede, da Stenelo, Medea, moglie di Idomeneo, da Leucone. (2) Il fatto di Egiale é da Licofrone raccontato e il suo Scoliaste dice come siegue: Presa Troja, Diomede ritornato ad Argo, sua patria, trovò sua moglie Egiale corrotta da Cometa, figliuolo di Stenelo, e ciò per l’ira di Venere che da lui era stala ferita sotto Troja . E come doveva essere ucciso da essa, si rifuggì presso l'altare di Giunone Argiva, ove trovò salvezza. E finalmente giunse in Italia presso la nazione daunia, a cui comandava Dauno e che era barbara. (3) Omero ha detto che Agamennone fu ucciso in una cena, la quale al suo arrivo Egisto gli diede. Alcuni tragici supposero che Clitennestra lo strangolasse con una specie di camicia, la quale non poteva cavarsi. Si sa da tutti che Egisto era figliuolo di Tieste. (4) Invece ch« da Taltibio, altri dissero che Oreste era stato salvato da Elettra e da lei mandato nella Focide e raccomandato a Strofio. Così infatti suppongono Sofocle ed Igino. Pindaro dice che lo salvò la nudrice, di nome Arsinoe. (5) N»n si è scritto da altri fuori che da Ditti che Diomede cacciato dal regno andasse a Corinto, mentre tutti dicono che venne in Italia. Egli é poi vero che Telamone vedendo Teucro ritornare senza Ajace lo cacciò di Salamina; per lo che andò a Sidone e di là in Cipro, ove edificò una città che chiamò Salamina anch'essa, come più innanzi l'autore stesso racconta.(6) Altri autori hanno scritto diversamente, dicendo che gli Ateniesi cacciarono Mnesteo e diedero il regno a Demofonte. (7) Oeneo fu padre di Tideo, avo di Diomede e re di Calidone in Etolia. (8) Altri scrissero che Idomeneo cacciato di Creta  occupò i campi salentini iu Italia, di drive ritornato in Asia morì. Scrissero altri che andò a fissarsi nel tempio di Apollo Clario.

 

Capitolo III.

Come Oreste fatto adulto ebbe uomini da Idomeneo, e dagli Ateniesi per far l’impresa del regno paterno, e come consultato l'oracolo questo gli disse, che bisognava ammazzare Clitennestra ed Egisto; e del modo con cui queste cose furono effettuate(1).

Tosto che poi Oreste ebbe passato i primi anni della adolescenza, cominciando a far da uomo pregò Idomoneo che dar gli volesse buona mano de' suoi, intendendo di navigare con essi ad Atene; ed ottenutone un certo numero, da lui creduto atto alla impresa,  andò ad Atene: ed ivi pure impegnò gente a seguirlo contro Egisto. Prima però volle andare all' oracolo, dal quale ebbe in risposta che dovesse ammazzare la madre ed Egisto con essa: con che avrebbe ricuperato il regno paterno. In questa maniera fortificato dall'assicurazione avuta dal Dio, co' suoi andò a trovare Strofio(2) focese, la cui figliuola era moglie di Egisto; e che sdegnato con costui tanto per lo sprezzo fatto alla figliuola, al cui posto nel talamo conjugale avea messa Clitennestra, quanto pel tradimento fatto ad Agamennone, re di tutti, spontaneamente gli offrì ajuto contro persone da lui tenute per nimicissime. Onde concertata la cosa insieme con grosso nerbo di armati girono a Micene, dove essendo Egisto assente prima di tutto uccisero Clitennestra e molti che ardito avevano di far resistenza; indi saputo che Egisto ritornava gli tesero imboscata e lo oppressero. Per questo fatto grande scisma nacque tra il popolo degli Argivi, i quali volgendo in animo interessi diversi finirono col dividersi in fazioni.

(1) Tutti i Tragici , ed altri poeti hanno supposto , che Oreste andasse ad uccidere la madre ed Egisto non con uomini armati ma con insidie. Ditti solo é quegli che racconta una spedizione in regola.(2) Similmente Ditti e il solo, che accenni, che Strofio fosse suocero di Egisto.

 

Capitolo IV.

Come Menelao andò in Creta con Elena, e tutti correvano a veder quella donna; e come andò in Creta anche Oreste, già assoluto del parricidio per giudizio dell' Areopago, e Idomeneo gli fece far pace con Menelao, il quale poi gli diede Ermione per moglie(1).

Menelao, circa l'epoca che di sopra abbiamo accennata, approdò in Creta ed ivi(2) seppe quanto era succeduto ad Agamennone e nel suo regno. E come s'intese che aveva seco Elena, uomini e donne in gran numero da ogni parte accorsero per veder quella  in grazia della quale quasi tutto il mondo erasi posto in guerra. Ivi tra le altre cose Menelao raccontò qualmente Teucro cacciato della patria aveva in Cipro edificata una città nominandola Salamina; e raccontò pure molte mirabili cose vedute in Egitto e come aveva in quel paese eretto un sepolcro magnifico a Canopo(3), suo ammiraglio, che era morto pel morso di serpenti. Poi navigò, quando gli parve tempo, a Micene dove molte macchinazioni fece contro Oreste: se non che la moltitudine de' popoli gli fece resistenza e dovette desistere, nel rimanente essendosi stabilito che Oreste difendesse il suo fatto presso gli Ateniesi, ov'era il consiglio degli Areopagiti tenuto da tutta Grecia per tribunale severissimo. Innanzi a questi adunque Oreste perorò la sua causa e venne assolto(4). Ma Erigone(5), che Clitennestra aveva avuta da Egisto, udendo l' assoluzione data al fratello, tratta da dolor sommo si appiccò; e Mnesteo, poiché vide Oreste liberato del delitto di parricidio e purgato(6) secondo I'uso del paese con tutti que' riti, ch'erano soliti adoperarsi per rendere un tal fatto dimenticato, lo rimise in Micene; ed ivi gli fu conceduto il regno. Passato poi alcun tempo egli venne in Creta, chiamatovi da Idomeneo; né guari andò che vi giunse anche Menelao; ed essendosi Oreste aspramente querelato dello zio per le macchinazioni contro lui fatte  e per lo sconcettamento in cui aveva tentato di metterlo presso il popolo, eccitando a suo danno discordie in varie maniere, Idomeneo si frappose e li riconciliò insieme: onde ambedue partendo di là andarono a Sparta. Ivi Menelao, siccome era stato d' accordo, diede in moglie Ermione ad Oreste(7).

(1) Questo capitolo contiene, come si vede, un puro episodio; nel seguente I'autore ripiglia l'ordine della narrazione interrotta.(2) Omero, che dice Menelao essere andato dal Sunio in Creta, non suppone che ivi intendesse il fatto di Agamennone; ma racconta essergli stato esposto nell' isola del Faro dal vecchio Proteo.

 (3) Pare che questo Canopo desse il nome alla città di tal nome; Strabone lo dice ianzi apertamente. Alcuni però suppongono che questo nome sia più antico di Menelao; e che in lingua egiziana Canoboum volesse dire terra d’oro. Tutti i commentatori parlano di un serpente, che Eustazio ha detto chiamarsi emmorroide: e intanto il testo dice serpenti. Potrebbe congetturarsi che considerata la situazione del luogo realmente l'ammiraglio di Menelao fosse stato vittima di un gruppo di rettili; caso che non sarebbe raro né presso gli storici nè presso i poeti.(4) Euripide suppone, che il popolo avesse condannato Oreste ad essere lapidato; e che egli si salvasse pei consigli di Pilade. (5) Alcuni hanno scritto che Oreste sposasse Erigone e che ne avesse un figlio di nome Pontilo. (6) A proposito di questa purgazione di Oreste, Pausanla dice che la pietra che vedesi innanzi al tempio e chiamasi pietra sacra può essere quella sulla quale nove uomini di Trezene espiarono Oreste dalla morte data a sua madre. E poco dopo: innanzi al tempio di Apollo é la cosi detta tenda d’ Oreste, poiché prima che fosse purgate della morte data alla madre nissuno de' Trezenii volle riceverlo in casa sua: ma lo misero in quel sito ed ivi il purgavano e gli davano a mangiare, finché fosse espiato. Ed anche oggi i nipoti di quelli che lo espiarono in certi giorni dell'anno cenano in quel sito. Non lungi da quella tenda furono sepolte le cose che servirono a purgarlo: e dicesi che vi nascesse sopra un lauro, il quale ivi si vede tuttora. Dicesi ancora che i Treienii adoperassero molte altre purgazioni e dell’ acqua tolta dall' Ippocrene. (7) Intorno al matrimonio di Oreste e di Emìone gli scrittori variano. Igino dice che Ermione promessa a Neottolemo subito dopo la presa di Troja fosse data in isposa ad Oreste; e che Menelao di poi gliela portasse via, e la desse a Neottolerno. Altri al contrario dicono che promessa ad Oreste dal padre fosse data a Neottolemo e poi ad esso da Oreste portata via.

 

Capitolo V.

Come Ulisse capitò in Creta, e raccontò ad Idomeneo i suoi errori; e come Idomeneo diede ad Ulisse due navi per andare ad Alcinoo.

Approdò circa quel tempo stesso in Creta Ulisse con due navi fenicie prese da lui a nolo; perciocché le sue coi compagni e co' soldati che aveva avuti sotto Troja gli erano state tolte violentemente da Telamone(1), che gli era nemico per la morte del figlio; ed a stento coll’ accortezza sua aveva potuto scampare egli medesimo dalle insidie di lui. E domandandogli Idomeneo per quali cagioni foss' egli venuto in tanta miseria, incominciò a narrargli i suoi errori; come, approdato ad Ismaro, molta preda guerreggiando avesse ivi fatta e portata seco; e capitato poi al paese de' Lotofagi(2) e per contraria fortuna di là balzato in Sicilia, molti pericoli avesse incontrati per parte de' fratelli Ciclope e Lestrigone(3) e de' loro figliuoli Antifate e Polifemo. Indi per commiserazione di Polifemo, preso da questi in amicizia, aveva tentato di rapire Arene(3), figliuola del re, innamorata di Elpenore di lui compagno: del che accortosi il genitore della donzella sopraggiuntolo gliel'aveva per forza tolta. Di là spinto alle isole Eolie era capitato da Circe, indi da Calipso, entrambe regine delle isole che abitavano e donne che con vezzi e carezze loro proprie potentemente innamoravano i loro ospiti. Dalle quali liberatosi, era giunto a certi luoghi in cui con alcuni sacrifizi per mezzo delle anime de' morti potevansi conoscere i secreti delle cose future. Ed era quindi stato agli scogli delle Sirene, d'onde con asluzia era scampato; ed in fine trovato erasi tra Scilla e Cariddi, ove é mar crudelissimo che inghiottisce qualunque cosa gli si presenti; e perciò perduto vi aveva molte navi e i compagni. Nel quale disastroso stato caduto nelle mani de' Fenicj, che corseggiavano pe' mari, per somma loro misericordia aveva potuto restar salvo. Avendogli Idomeneo date due navi, conforme gli aveva chiesto, e regalatolo di molta preda, Ulisse passò ad Alcinoo, re de' Feaci.

(1) Né Omero né Igino nè Antonio parlano di questa violenza fatta ad Ulisse da Telamone. (2) I Lotofagi de'quali si parla qui erano abitanti dell'isola Meninge, posta presso la Sirte minore; e Simbotte dice che anche ai suoi tempi mostravasi colà l'altare di Ulisse. (3) Se si considera essere più natural cosa che un uomo distinguasi per un certo siugolar suo carattere che una generazione intera, si vedrà più vicino alla verità storica che siavi stato un Ciclope ed un Lestrigone che de' Lestrigoni e de' Ciclopi. Ma questi erano più atti a colpire l'immaginazione, la quale si pasce volentieri del maraviglioto. Tucidide ha detto:perdendovi la maggior parie de' suoi compagni. Dicesi che in certa parte della Sicilia abitassero antichissimamente i Ciclopi e i Lestrigoni, de' quali non posso dire né la stirpe né donde venissero o dove siano andati. Se si dovesse dar mente agli Etimologisti, il Dome di Lestrigone vorrebbe dira uomo l'ione, perché 9ecendo Borhnrl Txiestrigon e lo stesso che Laistriecan, che io lingua fenicia significa liane mordente; e da ciò trae poi il greco leontino: onde i Leontini di Sicilia furono lestrigoni. II fatto è però che Omero non mette Lestrigoni in Sicilia. Secondo Plinio le sedi dei Lestrigoni furono ne'contorni di Formia, verso Gaeta. (3) I commentaiori non sanno onde Ditti abbia tolta la storia di questa Arene. Tiene racconta che Ulisse dopo aver accecato Polifemo gli portò via una figliuola, che rhiamavasi Elpene; ma che poi i Lestrigoni gliela tolsero e la consegnarono al genitore.  Il re di cui Arene era figlia chiamnvasi Polifate. Quando si considera la nostra storia de'tempi di mezzo e le leggende che di essi ci sono restate, non fa più meraviglia che Ulisse non abbia potuto o credere o dare ad intendere ogui genere di stravaganza.

 

Capitolo VI.

Come Ulisse intese de' Proci, che volevano sposare Penelope, ed andò ad ammazzarli; e come fu ben ricevuto da suoi, e fece sposo Telemaco, nel qual tempo Idomeneo morì.

Ivi Ulisse a cagione del suo celebre nome fu per molti giorni benignamente trattato; ed ivi seppe come Penelope da trenta illustri personaggi di diversi luoghi era domandata in isposa. Erano questi da Zacinto, dalle Echinadi, da Leucade, da Itaca. Il perchè Ulisse con molte preghiere sollecitò il re a voler navigare seco ed ajutarlo a vendicare l'ingiuria che facevaglisi. E poiché vennero sul luogo(1), occultato Ulisse da prima ed informato Telemaco(2) di quanto preparavasi, entrarono in casa di nascosto e trovati i Proci gravati dal soverchio vino e dal pasto li ammazzarono(3). Indi sparsasi per la città la nuova che Ulisse era giunto, i popolani lo ricevettero con ogni maniera di cortesia e di affetto e lo informarono di quanto in casa sua era occorso. Su di che estimando egli seco stesso tutto, altri regalò altri dannò, secondo che s' erano diportati. Di Penelope e della pudicizia sua, preclara é la fama. Né molto dopo a preghiera ed a conforto di Ulisse fu data in moglie a Telemaco Nausicaa, figliuola di Alcinoo. In quel tempo Idomeneo, nostro capitano, morì in Creta, lasciato per successor suo nel regno Merione; e tre anni dopo che Ulisse fu ritornato a casa, morì Laerte. Nausicaa partorì a Telemaco un figlio, a cui Ulisse mise nome Ptoliporto(4).

(1) Omero dice che i Feaciì condussero Ulisse in Itaca e che lo lasciarono ivi solo. Penelope fu lacedemone e figliuola d'Icario. Questi veggendo che molti aspiravano ad averla in isposa la propose per premio a chi vincesse alla corsa; ed Ulisse vinse: onde poi fabbricò dentro Sparta tre templi a Pallade in riconoscenza dell'ajuto che supponeva essergli stato dato da codesta Dea in tale cimento.(2) Omero dice che quando Ulisse andò ad Itaca Telemaco trovavasi presso Menelao a Sparta.(3) Secondo Omero Ulisse uccise dodici ancelle e Melanzio. (4) Altri hanno chiamalo questo figliuolo Perseptoli: ma Esiodo lo dice nato di Policasta , e non di Nausicaa. Alcuni poi hanno detto che Perseptoli nacque di Ulisse e di Penelope; e che Telemaco sposò Circe, o Cassifone, figliuola di Circe.

 

Capitolo VII.

Come Neottolemo seppe che Peleo, suo avolo, era stato discacciato dal regno da Acasto; e come mandò ad esplorare le cose; e di ciò, che gli fu riferito.

Mentre succedevano queste cose in Itaca, Neottolemo ristaurò presso i Molossi le sue navi sconquassate dalle tempeste; e come ivi udì che Peleo era stato discacciato dal regno da Acasto, volendo portarsi a vendicare le ingiurie fatte all’ avo suo, mandò prima in Tessaglia ad esplorare lo stato delle cose due suoi fìdatissimi e in que' luoghi sconosciuti; e questi furono Crisippo ed Arato. Dove giunti appresero quanto si tentava e facevasi; ed Assandro, amico di Peleo, gl' informò di tutte le trame di Acasto. Assandro fuggendo le inique macchinazioni del tiranno erasi riparato presso Peleo; ed era tanto istrutto de' fatti della famiglia, che egli aveva potuto raccontare a Crisippo e ad Arato anche l' origine delle nozze di Peleo con Tetide(1), figliuola di Chirone. In quell' incontro molti re invitati in casa di Chirone a banchetto avevano la nuova sposa festeggiata e commendata, celebrandola come una Dea; e chiamando Chirone Nereo e Nereide lei. E siccome ognuno di que' re, ch'erano al convito, molto distinguevasi chi nel ballo e chi nell' armonia de' versi, così fu dato loro il nome di Apollo e di Libero, e le donne intervenute furono nominate Muse; onde a quel tempo quel convito fu chiamato il convito degli Dei.

(1) Tetide, o Teti, è personaggio famoso Della mitologia. Apollodoro racconta l'origine delle sue nozze in questa maniera. Peleo sposò anche un' altra donna, e questa fu Teti figliuola di Nereo, che Giove  e Nettuno si contesero per farsela ognuno di essi sua moglie. Ma avendo Teti predetto che avrebbe partorito un figliuolo più prestante del padre, Giove abbandonò il pensiero di quelle nozie. Non manca poi chi scriva che andando Giove per giacersi con lei, Prometeo gli disse che chi fosse nato da lei avrebbe dominato in cielo. Ed altri v’ha ancora che dice come Teti fu da Giunone persuasa a schivar Giove; onde questi sdegnatone volle ch’ essa fosse moglie di un mortale. Quindi per consiglio di Chirone Peleo si mise a studiare il modo di pigliarla e ritenerla: cosa non facile, perciò ch' essa usava mutarsi in cento forme diverse, prendendo l’aspetto ora di fiamma, ora d'acqua, ora di qualche animale. Peleo adunque si mise all’ opera, ed avendola una volta potuta abbrancare, non la lasciò più se prima non ripigliasse la sua forma naturale. Poi In condusse sul monte Pelio ed ivi a lei si congiunse.

 

Capitolo VIII.

Come Neottolemo udito il ragguaglio de messi partì a mar tempestoso; e trovò Peleo: indi accostandosi ai figliuoli di Acasto con frode, li ammazzò.

Inteso che ebbero i due messi quanto cercavano di sapere, ritornarono a Neottolemo ed ordinatamente gli riferirono ogni cosa. Il quale, non ostante che il mare fosse contrario e molti del paese il dissuadessero, pure allestì la sua squadra e s'imbarcò. Soffrì però molto nella navigazione; così che gittato al lido delle Sepiadi, che tal nome esse hanno per gli aspri sassi, perdette quasi tutte le navi e a grande stento scampò con quelli ch' erano nel legno da lui montato. Ivi egli trovò l' avo suo nascosto in una profonda e tenebrosa caverna, rifugio preso per salvarsi dalle insidie di Acasto. Peleo dalla punta di quelle rupi di tratto in tratto spiava se gente giugnesse  che alcuna nuova gli recasse del nipote, e dopo che Neottolemo ebbe dal vecchio inteso lo stato della casa e delle fortune comuni cominciò a pensare al modo di assaltare i nemici. Seppe per avventura che Menalippo e Plistene, figliuoli di Acasto, erano venuti in que' luoghi a cacciare: ond' é che cambiato vestimento e fingendosi locrese, presentossi a que' due giovani e recò loro la desiderata nuova della propria morte. Quindi unitosi ad essi nella caccia, ove vide separato dagli altri Menalippo, datogli di repente addosso, e così poco dopo al fratello gli venne fatto di ammazzarli entrambi. In traccia de' quali venendo un servo di nome Ciniro, uomo ad essi fidatissimo, questi cadde nelle mani del giovine; e preso, mentre avvisava non essere lungi Acasto, fu da lui ucciso.

 

Capitolo IX.

Come Neottolemo con altra fraude condusse Acasto ove era Teti; e come dopo esserglisi rimproverate le iniquità commesse gli fu salvata la vita, e gli restituì il regno; e Neottolemo fu riconosciuto da tutti.

Egli intanto preso abito frigio e fingendo d’ essere Mestore figliuolo di Priamo, che prigioniero di Pirro era capitato navigando a que' luoghi, andò incontro ad Acasto e gli disse chi egli era; e di più, che Neottolemo stanco del navigare giacevasi dormendo in una spelonca che gl' indicò. Il che udito, Acasto che era ansioso di toglier del mondo una persona tanto nemica corse alla spelonca, dove sulla soglia stessa da Tetide, che a que' luoghi era capitata cercando di Peleo, istrutta già del fatto, fu obbligato a dare addietro. Indi rinfacciategli tutte le iniquità commesse contro la casa di Achille ed ogni disonesta opera sua, ad intercessione di lei fu liberato dalla morte che il giovane gli preparava, dicendo essa al nipote che non volesse vendicare con altro sangue le cose avvenute. Laonde vedutosi Acasto contro ogni speranza salvo, spontaneamente e subito consegnò a Neottolemo tutte le cose del regno. Quindi il giovine in compagnia dell' avo, di Tetide e degli altri, ch' erano venuti seco, investito della reale autorità andò alla sede sua, dove da tutto il popolo e da’ vicini, ch' erano soggetti al suo dominio, fu benignamente e con gran festa ricevuto; e in breve tempo si confermò nell’ amore di tutti.

 

Capitolo X.

Come Ditti dà ragione delle cose raccontate intorno ai fatti di Neottolemo e di Acasto; e parimente di quelle che riguardano la sorella di Memnone.

Io feci memoria di tutte queste cose avendole udite da Neottolemo stesso, chiamato presso di lui in occasione che condusse sposa Ermione, figliuola di Menelao. Seppi pure da esso lui quanto concerne le reliquie di Memnone e come le sue ossa furono consegnate in Rodi(1) a coloro i quali nell'andare a Troja con Fala, ammiraglio di Memnone, dopo che Fala fu ucciso e tutto il convoglio fu derubato, s’ erano ivi fermati; e come ancora Imera, sorella di Memnone, che alcuni chiamavano Emera, nome della madre, andata colà in traccia del cadavere del fratello, trovatene le reliquie ed inteso il rubamento di quanto era del morto, desiderando di ricuperare le une cose e le altre, per interposizione de' Fenicj, che moltissimi di essi erano stati in quell'esercito, avea potuto scegliere tra l'avere le cose rubate e le reliquie del fratello. Essa preferita la ragione del sangue si accontentò di queste ultime, e coll’urna andò in Fenicia; d'onde poi passata a Pallioca, paese di lei, diede sepoltura alle medesime; né più essa si vide. Su di che tre opinioni corsero: cioé, o che dopo il tramonto del sole insieme colla madre Emera scomparisse dal cospetto degli uomini; o che punta sopra ogni misura dal dolore che cagionato le aveva la morte del fratello, precipitasse in deserto luogo da qualche rupe; o che fosse a tradimento ammazzata da que' del paese per appropriarsi essi le robe che aveva seco. Queste sono le cose che intorno a Memnone e a sua sorella io intesi da Neottolemo(2).

(1) Il testo dice Pafo: questo sembra un errore introdottosi dai copisti, poiché si disse già che i soldati condotti da Fala s'erano stabiliti in Rodi. (2) Madama Dacier dichiara non saper dire d'onde Ditti abbia tolta la storia di questa sorella di Memnone; e merita attenzione il modo, con cui essa spiega il nome dato a questa sorella. Memnone, dic'essa, fu figliuolo dell' Aurora: dietro l'Aurora viene il giorno; e i Greci chiamano il giorno Emera. Così l'Aurora ebbe una figliuola, e Memnone una sorella. Madama Dacier si é dimenticata di spiegare come l'Aurora abbia avuto un figliuolo, che fu Memnone. Bensì osserva che Ditti dopo avere da principio detto che Memnone era figliuolo di Aurora, qui lo dica figliuolo di Emera. Essa non ha potuto figurarsi che Memnone fosse nato veramente da una donna, come tutti gli altri uomini, la quale poteva aver nome /f urini et Emera: piuttosto che da un essere mitologico, (i) Nissun antico Geografo ha parlato di Paliochi, o Patioca. Forse i copisti hanno alterato questo nome. Giuseppe Flavio suppone il sepolcro di Memnone in Galilea sopra il fiume Beleam presso Tolemmaide. Strabone lo mette sul fiume Raduni presso Patto, città della Siria. Altri in Ellesponto, altri in Etiopia. Nissuuo dee meravigliarsi di queste inesattezza, quando consideri che in tre mila anni si sono cambiate lingue, dominazioni e generazioni.

 

Capitolo XI.

Come Ditti andò all’oracolo per aver rimedio contro le locuste che desolavano Creta e della risposta che vi ebbe; e come essa si verificò.

Un anno appresso partii di Creta per pubblica commissione e con due altri andai all'oracolo di Apollo per domandare rimedio ad una sopraggiunta calamità. E la calamità fu che all' improvviso, senza che se ne intendesse la cagione, tanta moltitudine di locuste venne a piombare sull' isola che fu distrutto ogni frutto della campagna. Ed alle nostre caldissime preci, congiunte a sacrifizj, s'ebbe per risposta che coll' ajuto divino quegli animali sarebbero morti e l'isola in breve ridonderebbe d' ogni raccolta di cose. Indi desiderando di navigare, ne fummo dissuasi da quelli di Delfo, dicendoci che il tempo non era opportuno e che altrimenti ce ne sarebbe venuta ruina. Ma Licofrone ed Isseo, che meco erano venuti a consultare l'oracolo, ebbero a sprezzo il consiglio; e montati in nave a mezzo viaggio incirca morirono percossi da fulmine. Intanto, siccome era stato predetto dal Dio, per quel medesimo colpo di fulmine la violenza del male fu sedata ed affogata nel mare. Tutto il paese poi fu pieno di biade e di ogni altro prodotto.

 

Capitolo XII.

Come andato Neottolemo a Delfo, Ermione, sua moglie, volle vendicarsi di Andromaca, che godeva il favore del marito; e chiamato a lei Menelao gli propose di ammazzare il figlio di Andromaca, la quale scampò il pericolo coll’ ajuto del popolo.

Circa quel tempo medesimo Neottolemo, confermato avendo già il matrimonio suo con Ermione, andò a Delfi per ringraziare il Dio(1), perché conceduto avesse la vendetta della morte di suo padre contro Alessandro. Egli partendo aveva lasciata in casa Andromaca col figliuol suo Laodamante, il solo che restava del sangue di Ettore(2). Ma Ermione dopo la partenza del marito, covando già in petto altissimo dolore per la grazia che godeva la schiava presso Neottolemo né a ciò potendosi in alcun modo acconciare, mandò a pregar suo padre Menelao onde venisse a lei; al quale, tosto che egli fu giunto, aprì l'animo suo querelandosi della ingiuria che le veniva fatta dal marito col preporle nell' amore quella schiava; e volle indurlo ad ammazzare il figlio di Ettore. Ma Andromaca penetrato tal disegno di Ermione poté sottrarsi da tanto pericolo, liberatane coll' ajuto de' popolani i quali mossi a pietà per le disgrazie di lei coprirono di contumelie Menelao e a stento si ritennero dal mettergli le mani addosso.

(1) Altri, e sono gli Scoliasti di Pindaro, di Euripide e di Omero, supposero che Neottolemo andasse a Delfo per consultare l' oracolo sopra la sterilità di Ermione. Euripide dice ch’ andò a Delfo per placare Apollo, coutro cui avrà fatte querele per la morte del padre. Strabone riguarda come più probabile l' opinione di quelli  i quali dissero che Neottolemo era andato a Delfo per saccheggiare il tempio.(2) Stando ad Euripide, questo figliuolo sarebbe stato, non di Ettore ma di Neottolemo, e di nome Molosso.

 

Capitolo XIII.

Come Oreste incoraggiò Menelao all’impresa contro Neottolemo; e Menelao vedendo le insidie di Oreste tornò a Sparta: e come Neottolemo fu trovato morto; ed Oreste sposò Ermione; e Teti e Peleo salvarono la prole che Andromaca era per dare a Neottolemo.

Capitato colà in quel tempo Oreste ed informato della cosa, fece animo a Menelao a proseguire nell' ideato disegno, dolente, che Neottolemo gli avesse tolto il tratto nello sposare Ermione; ed incominciò a pensare di tendere insidie al medesimo quando fosse ritornato. Adunque per prima cosa mandò alcuni suoi fidati a Delfo perché gli sapessero dire quando egli fosse per giungere. Menelao volendo esser fuori di quella briga ritornò a Sparta; e intanto i messi spediti a Delfo vennero riferendo che Neottolemo non era colà: il che obbligò Oreste ad andare egli in persona a cercarlo. Oreste ritornò il giorno stesso in cui era partito e, secondo che ne corse voce, spedito l'affare che si era proposto. Pochi giorni poi dopo si sparse la nuova che Neottolemo era morto; e dissero tutti, e si diffuse pel popolo, essere morto vittima delle insidie di Oreste(1). E come la cosa fu assicurata, Oreste si prese per moglie Ermione che prima gli era stata promessa; e se ne andò a Micene. Peleo intanto e Tetide, intesa la morte del nipote, andati a riconoscere il fatto seppero essere esso stato sepolto in Delfo; ed ivi gli fecero, com'é di costume, i funerali; e seppero essere esso morto in quel luogo  in cui Oreste non era stato veduto. Ma il popolo non diede credenza a tal fatto: tanta era la preconcetta opinione di tutti riguardo alle insidie di quell’ ammazzatore di sua madre. Del resto tosto che Tetide vide che Ermione si era congiunta con Oreste  mandò Andromaca già incinta(2) di Neottolemo a partorire tra i Molossi in una casa che Neottolemo aveva colà; così provvedendo che né Oreste né sua moglie avessero modo di ammazzare la prole.

(1 )Euripide suppone cha Neottolemo fosse ucciso da Orette entro lo stesso tempio di Delfo. Tutti haouo detto cbe Neottolemo fu sepolto in Delfo. Igino solo disse che le sue osta erano state sparse per Ambracia: al che piacque ad Ovidio di alludere.(2) Gii antichi diedero ad Andromaca tre figliuoli avuti da Pirro, cioè Pirro, Molosso ed Eacide; o come altri dicono, Pergamo, Molosso e Pitia. Euripide però glie ne dà un solo, Molosso .

 

Capitolo XIV.

Come Ulisse fece brutti sogni, e chiamò gl’ indovini, i quali gli dissero, che suo figlio lo avrebbe ammazzato. E come Telemaco fu mandato in Cefalonia, ed Ulisse andò a ritirarsi molto dentro il paese.

Circa il medesimo tempo Ulisse, atterrito dai frequenti pronostici e sogni sinistri che il tormentavano, da ogni parte chiamò a sé chi sapesse interpretarli; ed a codesti indovini si mise a riferire come fra le altre cose soventi volte gli era parso di vedere un simulacro di volto tra l'umano e il divino(1), stupendamente bello, venirgli in un subito innanzi da uno stesso luogo; il quale, avendo egli sommo desiderio di abbracciarlo e porgendoli le braccia, gli aveva risposto con voce umana essere sacrilego tale abbracciamento, perciocché erano entrambi dello stesso sangue e della origine stessa; e che uno dei due morir doveva per opera dell'altro. E pensando egli sempre più vivamente e desiderando di sapere la cagione di tal cosa, eragli paruto che dal mare fosse venuto fuori un non so che, il quale al comando di quel simulacro erasi lanciato contro lui e li aveva separati entrambi. Tutti coloro ch' erano stati chiamati a consulta dissero concordemente che la cosa era mortale; e lo avvisarono che si guardasse dalle insidie del figlio. Laonde, fatto per ciò Telemaco sospetto a suo padre, venne relegato nelle campagne di Cefalonia e vi furono aggiunti fidatissimi custodi; ed Ulisse medesimo per evitare il pronostico di sì cattivi sogni andò a rimpiattarsi in luoghi solinghi ed assai rimoti.

(1) Questo simulacro di volto Ira l'umano e il divino rappresentava Telegono, nato da uom mortale, Ulisse, e da una Dea, Circe. ln Omero Tiresia, indovino famoso, aveva detto ad Ulisse che la morte verrebbe a lui dal mare. Ed altri poeti hanno ripetuto il presagio dell'osso o spina di pesce  con cui sarebbe stato ferito. Omero però suppone che Ulisse fosse morto dì vecchiezza; e perciò Luciano fa dire alla Podagra ch' essa é quella, e non la spina di tortore, che ammazzò Ulisse. Eusiazio dice che l’asta, o dardo che fosse, di Telegono gli era stata fabbricata da Vulcano; che la sua punta era d' osso di tortore marina e l'altra parte era d'oro e di diamante. Igino racconta il fatto come siegue: Telegono, figliuolo di Ulisse e di Circe, dalla madre mandato a cercare il padre, fu da una burrasca portato in Itaca, ed ivi fonato dalla fame si mise a dare il sacco al paese. Accorsero Ulisse e Telemaco; e vennero alle mani con lui, che non conoscevano e da cui non erano conosciuti. In quella mischia Ulisse fu ucciso da Telegono, Oppiano scrisse che Telegono uccise Ulisse mentre questi voleva impedirgli di portar via gli armenti che aveva presi.

 

 

Capitolo XV.

Come Telegono andò a cercare suo padre Ulisse; e pervenuto in Itaca, volendo vederlo le guardie glielo impedirono, ond’ egli ne uccise alcune; e come accorso Ulisse fu, non conosciuto, ferito a morte dal figliuolo.

Ma sorse intanto Telegono, che avuto da Ulisse Circe aveva educato nell'isola Eea; e venuto giovinetto si mosse a cercare suo padre. Andò egli in Itaca, portando in mano una specie d’asta la cui cima era armata di un osso di tortore marina, insegna dell' isola nella quale egli era stato generato; ed informatosi ove Ulisse fosse, si portò colà. Ma i custodi della campagna gli vietarono d'inoltrarsi; su di che con grande forza insistendo egli e vedendosi sempre più respinto, incominciò a gridare contro l'indegnità usatagli d'impedirgli che potesse abbracciare il genitore. Per lo che assai più fu creduto che fosse Telemaco e che venisse per attentare alla vita del re: onde con più veemenza gli si resistette, niuno sapendo che Ulisse avesse un altro figliuolo. Il giovine intanto, vedendo che sempre più vivamente venivagli fatta forza per respingerlo lontano, tratto da aspro dolore uccise molti custodi e molti ne ferì. Le quali cose tutte avendo Ulisse intese, pensando che quel giovine fosse uno sgherro mandato da Telemaco, uscito fuori, scagliò contro Telegono una lancia ch'egli era solito portare per ogni caso in propria difesa; il cui colpo avendo il giovine per certa combinazione schivato, questi vibrò contro il genitore l'asta che portava e ne vide ampio l'effetto. Ulisse caduto a terra per quel colpo seco stesso si rallegrò della sua fortuna e si chiamò avventurato, poiché moriva per mano di uomo estraneo; ed il carissimo suo Telemaco era. puro da parricidio. Poi raccogliendo il fiato che gli restava domandò al giovine chi egli fosse o dove nato, e come avesse avuto ardimento di uccidere Ulisse figliuolo di Laerte, uomo inclito in pace e in guerra. Allora Telegono, riconosciuto il genitore, con ambe le mani lacerandosi capegli e faccia, in alto pianto miserabilmente proruppe, da orrenda angoscia colto per la morte data al padre. E detto ad Ulisse, siccome ne lo aveva ricercato, il nome suo e quello della madre, ed accennata l'isola nella quale era nato e mostrata l'insegna dell' asta, ricordando quegli la forza de' sogni avuti e la predizione degl'indovini, ferito da chi punto non s'aspettava, il terzo giorno dopo che questo fatto era accaduto mancò di vita, in età invero provetta ma non senza gagliardia di forze.

 

                                               Fine Della Guerra Trojana

                                                  Scritta Da Ditti Cretese.

 

(i) A questo passo di Ditti ragionato con si naturale e pieno motivo Madama Dacier non ha dubitato di opporre per ismentire il fatto l'autorità di Ovidio, il quale nelle Eroidi fa parlare Enone in contrario scrivendo a Paride. Vero é però che quasi pentita della sua iucoQMrferatetia tempra il suo dubbio dicendo che i dotti scusano Ovidio come quegli che cosi fece appositamente, tiurnducri. lo a pillare una donna la quale é verosimile che non avesse cognizione di ciò che facevasi.

©Francesco Chiappinelli

 

 

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