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Le Altre Iliadi Oltre al racconto insuperabile di Omero, altri testi di straordinario interesse hanno descritto la vicenda di Troia |
LE ILIADI DELL’ODISSEA |
A cura di Francesco Chiappinelli |
Intitoliamo così i numerosi passi dell’Odissea che rievocano le vicende del conflitto troiano. Generalmente è Ulisse che le racconta ai suoi interlocutori , ma per lo più egli tiene nascosta all’interlocutore la sua vera identità e il suo racconto appare naturalmente non del tutto veritiero se non proprio inventato. Ma anche i bellissimi Apologhi ad Alcinoo, con le fantastiche storie di Circe, Polifemo, Tiresia non si sottraggono a questa valutazione: direi che Omero ha scelto di proposito di porli sulla bocca stessa del suo eroe, quasi a sottrarsi all’accusa di inverisimiglianza. |
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Iniziamo con il racconto che il vecchio Nestore fa a Telemaco, giunto a Pilo in cerca di notizie sul padre, ricordando che una tradizione ripresa dagli autori medievali Benoît de Sainte-Maure e Guido delle Colonne fa di lui giovane un argonauta che con Giasone, Eracle e Peleo avrebbe partecipato alla prima distruzione di Troia, contro Laomedonte, il padre di Priamo. Il racconto di Nestore prosegue con la storia di Oreste, che sarà poi argomento della tragedia attica. |
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III 96-417 (γ 69-312)
γ 69 "Interrogare or gli ospiti si addice, Che il cibo ha confortato: O forestieri, Chi siete, onde venite e qual vi spinse 95 Bisogno a traversar l'equoree vie? Od ite a caso per lo mar raminghi Come pirati che la vita a rischio Pongon per depredar l'estranee genti?" γ 75 Di sé fatto sicuro, gli rispose 100 Posto gli ebbe nell'animo Minerva, Acciò del padre assente al Re dimandi Ed a sé gloria appo le genti acquisti: γ 79 "O Nèstore Nelide! inclito vanto 105 Degli Argivi, ti piacque interrogarne Chi siamo ed ecco a dìrloti son presto. D'Ìtaca che del Nèio siede alle falde Or qua giungiam; parlar d'una faccenda Privata, non già pubblica, ti deggio. 110 Vengo, se aver poss'io qualche contezza, L'ampia del padre mio fama seguendo, Del magnanimo Ulisse che già teco Combattendo, com'è pubblico grido, L'Ìlie mura atterrò. De' guerrier tutti 115 Che co' Tèucri pugnar, per noi si seppe Dove ciascun di ria morte cadéo; Ma di Saturno il figlio anche la morte Ci nasconde d'Ulisse. Alcun sin'ora Non ci chiarì dov'ei finìa: se giacque 120 De' nemici per man sul continente, O d'Anfitrite se 'l domâro i flutti. A te dunque ricorro e le ginocchia T'abbraccio, perché a me del genitore Narri la morte dispietata (o l'abbi 125 Con gli occhi propri vista, o qualche errante Riferta l'abbia a te), ché soprammodo Infelice la madre il partorìa. Né di farmi dolente alcun riguardo Ti prenda, né pietà nulla ti tocchi, 130 Ma quanto sai, deh! dìllomi, te n' prego, Se di consiglio o d'opra a te promessa, Ti giovò il padre mio, l'egregio Ulisse, Là tra le Ilìache genti, ove cotante Sventure, o Dànai, tolleraste. Ah! questo 135 Rammèntati ed il vér nudo mi svela." γ 102 "Figlio - rispose il Cavalier Nelide -, Tu mi fai rammentar quanti infortuni Appo il nemico popolo patimmo, Noi gagliardìa de' Greci, invitta prole; 140 Sia che sul negro mar co' legni errando Di preda in traccia ci guidasse Achille, Sia che di Prìamo Re sotto alla vasta Città per noi si combattesse, dove Gl'incliti nostri eroi cadean trafitti: 145 Là giacque il Marzio Aiace e là il Pelide, Là Pàtroclo nel senno emolo a' Numi, Là il caro figliuol mio, l'esimio e forte Antìloco, del par veloce al corso E prode battaglier; ben altre molte 150 Disventure ci oppressero. Chi mai Potrìa tutte ridìrtele? Se cinque E sei qui t'indugiassi anni, chiedendo Quanti guai soffrîr là d'Èllade i prodi, Fastidito al natìo suol rediresti, 155 Prima che a fin traessi il mio racconto. Nov'anni interi, macchinando offese Con tutti ingegni, noi li circuimmo; Allor Giove recò l'impresa a fine. Col divo Ulisse gareggiar di senno 160 Non volle alcun lì mai, perocché tutti Negl'inventi e le astute arti vincea, Col padre tuo... Certo, gli sei tu figlio; Meraviglia mi assal, mentr'io ti guardo, Ché simiglianti a' suoi sono i tuoi detti, 165 Ned a quel dell'eroe così conforme, Creder potrìasi il dir d'un giovinetto. Finché si guerreggiò, là non avemmo, Né in parlamento, mai, ned in concilio Due diversi pareri Ulisse ed io; 170 Ma unanimi aprivam quel saggio avviso Che degli Argivi a pro tornar dovea. L'alta città di Prìamo rovesciata, Quando le navi salivamo, un Dio Disperse l'oste Achea; da quel momento 175 Funesto in mente macchinò il ritorno Agli Achivi l'Olìmpio, ché non tutti Prudenti eran, né giusti, anzi un rio fato Molti colpì per la terribil ira Della possente Dea dal guardo azzurro, 180 Inclita prole d'un possente Iddio, Che fra gli Atridi aspra eccitò contesa. Convocâr dissennati a parlamento Contro l'usanza, a Sol caduto, i Greci Che trasser, di Lièo molto gravati, 185 Ad ascoltar ciò che sponean que' duci. Menelao là ingiungeva ai Dànai tutti, A far sul dorso ampio del mar ritorno; Ma forte disgradì quella proposta All'Atride maggior che fermo avea 190 Di rattener le schiere ed immolando Sacre ecatombe, l'ira violenta Della diva placar: stolto! né vide Che d'allenirla si studiava indarno; Ché di leggier non càngiasi la mente 195 Degl'Immortali. Mentre con alterni Acerbi detti altercano gli Atridi; Surser, levando alto rumor, gli Achei, Per contrario voler tra sé divisi. Pernottammo così, gli uni agitando 200 Contro gli altri pensier tetri e funesti; Ché Giove ci apprestava orridi guai. Come l'alba apparì, nel mar le navi Varammo e molte sopra v'imponemmo Dovizie e donne d'elegante cinto; 205 Mezza l'oste restò là presso il duce Di genti Agamennón; l'altra, ov'io salsi, Ne' remi diè; correvano veloci Le navi, ché tranquille a noi davanti L'onde adeguò del mar pescoso un Dio. 210 A Tènedo approdati, ostie votive A' Numi offrimmo, pur de' tetti nostri Desiderosi. Ma non piacque a Giove Consentirci il redir, che, dispietato! Fiera di nuovo la discordia accese, 215 Ché Ulisse, accorto e saggio Re, ritorse Co' suoi compagni delle navi il corso, Gratificar volendo al sommo Atride. Ma io co' molti legni che seguîrmi, Fuggìa, presago de' disastri gravi 220 Che a nostro danno meditava un Nume. Animando i compagni, anch'ei fuggìa, Di Tidèo 'l figlio bellicoso. Tardo Il biondo Menelao ci aggiunse in Lesbo; Che del viaggio faticoso e lungo 225 Consultavam: se navigar di sopra A Chio petrosa, Psirìa costeggiando, E lasciàndola a manca, o sotto Chio Veleggiar lungo il ventoso Mimante. Giove pregammo d'un prodigio; e 'l Nume 230 Il ci mostrò; poi fendere nel mezzo Il pelago ove Eubèa sorge c'indisse, Per condùrci in gran fretta a salvamento. Prospero allor soffiò vento stridente Da cui le navi, oltra sospinte, ratto 235 Le vie pescose percorreano, tanto Che notturne sorgean sovra Gerèsto. Molte colà a Nettuno anche di tori, Misurato gran mar, per noi fûr arse. Splendeva il quarto dì, quando i compagni 240 Del pro' Tidide ritornâro in Argo; Vèr Pilo il corso io tenni e quel propizio Vento che un Nume c'inviò da prima, Non mai si estinse. Di tal guisa, o amato Figlio, ignaro giuns'io, né degli Achei 245 Seppi quali campâr, quali perîro. Ciò poi che accolto ne' miei tetti udìa, Schietto, come si addice, or ti appaleso. È fama che ritorno ebber felice Gli esperti d'asta Tèssali guerrieri 250 Che l'inclito guidò figlio d'Achille; L'esimia prole di Peànte ancora, Filottete, il sortì del par felice. Tutti i compagni rimenava in Creta, Che sfuggîro alla guerra, Idomenèo: 255 Né 'l mar alcun gli tranghiottì. Già udiste, Benché lontani, voi medesmi, come Agamennón se n' venne e come Egisto Ria morte gli tramò. Ma costui pure Condegna al suo fallir pena sostenne. 260 Oh! felice l'eroe che un animoso Figlio dopo di sé, vindice lascia! Tal si fu Oreste; che traea dal vile Del suo gran padre ucciditor vendetta. Tu pur, diletto mio, (ché bello e grande 265 Soprammodo ti veggio) al par sii prode, Acciò il tuo nome alle future genti, Lodato di virtù splendida, voli." γ 201 "O Nèstore Nelide, inclita luce Delle Argòliche genti, Oreste a pieno 270 Si vendicò! Celebreran gli Argivi L'alta sua gloria e volerà nel canto Delle future età l'inclito nome. O Nèstore Nelide, il vér mi narra: Come perì l'Atride ampio-regnante Agamennóne? Menelao dov'era? Come il perfido Egisto una tal morte 330 Macchinò, ch'uom di sé tanto più forte Trucidava? Lontan forse era d'Argo Acaica Menelao? Forse egli errava Fra estranee genti, sì che, la paura Scossa dal petto, il traditor l'uccise?" 335 γ 253 "Figlio - il Nelide soggiungea -, sincero Tutto il vér ti dirò. Ben ti se' apposto: Ciò stesso avvenne. Se reverso d'Ìlio, Sorpreso avesse il biondo Menelao Nel palagio d'Atride Egisto vivo, 340 Conspersa la costui spoglia non fôra Pur d'un pugno di terra, ma disteso Lungi dalla città, sarìa in un campo Pasto d'augei, di cani, né Achea donna Sparso sovr'esso avrìa stilla di pianto, 345 Tanto ria scelleraggine commise! Là sott'Ìlio per noi molte battaglie Fornìvansi, ma queto egli nel fondo Del fertil Argo con soavi accenti Del grande Atride la moglier blandìa. 350 Dal turpe fallo rifuggì da prima La nobil Clitennestra, ché nel petto Adorna di virtù l'alma chiudea. Stàvale inoltre il chiaro vate accanto, Cui diè 'l carco in partendo il sommo Atride, 355 Di servargli la sposa intemerata. Ma quando Egisto dal destin de' Numi Irretito, domàvasi, in deserta Isola il vate trasportato, quivi Esca e strazio d'augei lo abbandonava; 360 Poscia, da mutue brame ambi sospinti, L'amante in sua magion l'amata addusse. Molte de' numi sui sacrati altari Anche di tori ardea, molte votive Offerte e vesti ed oro vi sospese; 365 Poi che pose ad effetto il fier disegno, Del che nulla speranza in cor nutrìa. Già dipartiti d'Ìlio, solcavamo Lo stesso mar l'Atride ed io, ché ognora Gli animi avemmo d'amistà congiunti. 370 Ma come al Sùnio divenimmo, sacro Promontorio d'Atene, ivi da' miti Strali di Febo il suo nocchier fu spento, Che del corrente pin tenea 'l governo, L'Onetòride Fronte che vincea 375 Gli umani tutti, dirigendo un legno, Quando ruggìa il furor delle tempeste. Là Menelao risté, benché bramoso Di fornire 'l viaggio, ed al compagno Onor fece d'esequie e di sepolcro; 380 Ma quando il bruno ei pur mare solcando Co' suoi legni correva e già all'eccelso Capo della Malèa facéasi appresso, Allor gli destinò Giove 'l viaggio Orrendo: gli avventò striduli vènti 385 Che in alto sollevâr le tumid'onde, Tanto che si agguagliavano a montagne. Là disperse le navi e parte a Creta, Alle correnti del Giàrdano intorno, Dove i Cidoni albergano, sospinse. 390 Liscia ed alta protèndesi al confine Di Gòrtina, sul mar fosco, una rupe; Là cacciando i marosi Àustro di forza, Del promontorio Festo al lato manco, Piccola roccia li vi arresta e frange. 395 Quivi l'armata urtò: campâro a stento Gli uomini, ma dal mar fiero cacciati, Contro gli scogli si fiaccâro i legni. Pur cinque navi dall'azzurra proda, D'Egitto in riva il vento e 'l mar spingea, 400 Mentre là Menelao con queste errava Accumulando vettovaglie ed oro, Tra genti di favella altra, gli empiea Egisto la magion d'orribil lutto: Trucidò Agamennón, sott'aspro giogo 405 Il popolo domò; per ben sett'anni Alla ricca Micene il freno impose; Ma l'ottavo anno, reduce d'Atene, Sorvènnegli funesto il divo Oreste Che quell'infame traditor spegnea, 410 Che ucciso il genitore inclito gli ebbe. Poscia che l'immolò, diede agli Argivi La cena sepolcral per l'odiosa Madre e 'l codardo parricida Egisto. Il dì medesmo, Menelao sorgiunse, 415 Adducendo con sé tante ricchezze, Di quante ne patìan le navi 'l pondo. |
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Dopo Pilo, Telemaco e Pisistrato, uno dei figli di Nestore, si recano a Sparta da Menelao, che ormai rappacificato con Elena è tornato in patria, sia pure dopo sette lunghissimi anni. Elena racconta di un astuto ingresso di Ulisse in Troia e Menelao rievoca l’inganno del cavallo (è con θ 487 sgg., riportato di seguito, l’unico accenno omerico a questa famosissima vicenda) e il suo travagliato ritorno. |
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IV 317-378 (δ 240-290)
Certo, né raccontar, né qui potrei Ricordar pure tutte l'ardue pugne Dell'intrepido Ulisse; or toccar solo Piàcemi ciò che ardì, ciò che a fin trasse 320 Appo i Tèucri quel forte, ove cotante Sventure, o Dànai, tolleraste. Un giorno, Di sconce piaghe la persona offesa, Vil tunica gettò sopra le spalle E come schiavo penetrò nell'ampia 325 Città nimica; ognun sì travestito Un mendico il credea, pur tal non mai Lungo le navi Argòliche mostrosse. Ignoto a tutti, io sola il riconobbi; L'interrogai quind'io, pur quell'astuto 330 Sempre con l'arti usate si schermìa. Ma come l'aspers'io di limpid'onde E di licor l'unsi d'uliva, e 'l cinsi Di vesti, l'affidai col più gran giuro Di non far manifesto a' Tèucri Ulisse, 335 Pria che alle tende riparasse e a' legni; Allor la mente degli Achei m'aperse. Trafitti poscia con acuta spada Molti nemici, fe' ritorno al campo Ed il modo chiarì ch'Ìlio ruìni. 340 Empiean l'aure di strida e d'ululati L'Ìlie donne, ma dentro in me brillava Di gioia il cor, ché di tornare ardea Al mio antico ricetto; e la sventura Di che mi nocque Vènere, piangea, 345 Quando dalla natìa terra diletta Strascinommi lontana e l'innocente Mia fanciulletta e 'l talamo e 'l consorte, (Per altezza d'ingegno e per leggiadra Nobil fierezza a null'altro secondo) 350 Abbandonare, ahi, misera! mi strinse." δ 265 "Tu, retto parli - soggiungea l'Atride -, O donna mia! Ben io di molti prodi Penetrai nella mente e nel consiglio; Terre vaste percorsi e nondimeno 355 Non io con questi vidi occhi giammai Alma sì grande, qual chiudéala in petto L'inclito Ulisse. Oh! quanto oprò e sostenne Nel piallato cavallo, ove noi tutti Di Grecia i prodi sedevam, bramosi 360 Pur di recare a' Tròi sterminio e morte. Lì sorvenisti e lo t'ingiunse un Nume Che dar gloria a' Troian volgeva in mente. Di beltà pari a un Dio, preméati l'orma Deìfobo. Tre volte circuisti 365 Il cavo agguato e 'l brancicasti, e i primi Chiamasti a nome degli Achei, la voce Contraffacendo di lor donne. Assisi Nel mezzo, io, Diomède e 'l divo Ulisse La tua chiamata udimmo. Io ed il Tidide 370 Sbalzar fuor volevamo impetuosi O dal chiuso alvo almen farti risposta; Ma ci ripresse e ci contenne Ulisse, Benché bramosi. Stavano in silenzio Tutti d'Èllade i figli; Ànticlo solo 375 Risponderti volea, ma con le forti Mani sì gli calcò la bocca Ulisse, Finché tratta di là t'ebbe Minerva." |
Menelao finalmente risponde all’ansiosa richiesta di Telemaco e parla delle ultime fasi del suo ritorno, quando ha toccato l’Egitto e da un dio del mare, Proteo, ha avuto notizie degli altri Ritorni, compreso quello drammatico di Agamennone, e di Ulisse. Siamo quindi dinanzi agli argomenti del ciclo e anche qui vale il richiamo alla tragedia (si pensi all’Elena euripidea). |
IV 620-757 (δ 481-569)
Udito il veglio, mi s'infranse il core, 620 Perocché m'ingiungea solcar di nuovo Il tenebroso mar sino in Egitto, Via lunga e perigliosa. Nondimeno Il veglio interrogai: "Tutto che imponi, O veglio, adempierò. Tu schietto or dimmi, 625 Se con le navi ritornâro illesi I Dànai tutti che lasciammo, quando Nèstore ed io di Troia ci partimmo; O se qualcun perì nella sua nave Di morte inopinata o tra le braccia 630 De' cari suoi, fin posto all'ardua guerra?" δ 492 "Perché di questi eventi or tu mi chiedi, Figlio d'Atrèo? Non fa per te il saperli, Né penetrar la mente mia; ché a lungo Non terrai, mi cred'io, le luci asciutte, 635 Tosto che il tutto a pien ti fia palese. Molti di lor perîr, molti campâro: Due soli Duci de' valenti Argivi Nel ritorno morîro (a te son conti Que' che cadean pugnando); un altro ancora 640 Vive, ma 'l si ritiene circuita Dal vasto mar un'isola nel grembo. Perì co' legni di gran remi armati Aiace. Prima l'appressò Nettuno All'enormi Girèe rocce e da' flutti 645 Scampo gli diè; certo schifato avrìa La crudel Parca, benché a Palla in ira, Se un motto non lanciava ebro d'orgoglio, Che fatal gli tornò: "Sfuggir vo' - ei grida -, In dispetto agli Dèi, le tumid'onde." 650 Come Nettun l'udì menar tal vampo, Diè di piglio con man forte al tridente, Percosse la Girèa roccia e da cima Al fondo la spaccò; parte lì stette, L'altra nel mar precipitò: (e fu questa 655 Su cui, furendo pria, sedéasi Aiace). Travolto giù del mar ne' cupi abissi, Poi che la salsa ei bevve onda, perìo. Sfuggito avea ne' legni suoi la morte Il tuo fratel, cui pose Giuno in salvo. 660 Ma come al capo eccelso di Malèa Fu presso, il rapì un turbine e 'l sospinse Non senza molti gemiti e sospiri, Là nell'estremità della campagna, Dove Tieste un tempo e dove allora 665 Teneva Egisto Tiestìade stanza. Già brillava felice in quel momento Agli occhi di Agamènnone il ritorno, Drizzâro i Numi lo spirar del vento, Tal che le navi in porto entrâr; gioioso 670 Nella piaggia natìa scese l'Atride, La toccò, la baciò, calde dagli occhi Gli traboccâr le lagrime alla vista Sì dolce e cara della patria terra. Ma da un'alta vedetta il discoverse 675 L'esplorator che collocò lassuso Il fraudolento Egisto e a cui promise Di due talenti d'oro il guiderdone. Stava lì un anno a guarda; non l'Atride Giunto celatamente ridestasse 680 L'indomita sua possa. Accorse ratto Ad annunziar l'evento al Re, che un'empia Sùbita frode ordì. Vénti n'elesse De' più valenti, mìseli in agguato E in disparte ordinò che s'imbandisca 685 Il convito. Di cocchi e di cavalli Andò con pompa ad incontrar l'Atride; Pur meditando orribili delitti. L'eroe condusse, del suo fato ignaro, Ed accolto al convito, ivi l'uccise, 690 Come s'immola nel presepe un bue. Di tutti i prodi che seguîr l'Atride, Nullo scampò; nullo di que' di Egisto: De' traditori corse e de' traditi Commisto il sangue e dilagò la reggia." 695 δ 537 Udite queste voci, il cuor nel petto Mi si schiantò. Prosteso in sulla sabbia Piangea, né 'l viver più, né più del Sole Patìa la luce. Come alfin del pianto, Sul terren voltolàndomi, fui sazio, 700 Il marin veglio veritier soggiunse: δ 543 "Cessa da sì gran pianto e sì ostinato, Atride, omai, perocché alcun conforto Non rinverremo noi; ma fa' ogni prova Di redir presto alla natìa contrada. 705 Vivo Egisto potrai côrre, se Oreste, Ti antivenendo, non l'uccise; certo Al convito funèbre assisterai." δ 548 Benché dolente al suon di queste voci L'altero cor nel sen mi rifiorìa. 710 "Èmmi di lor - soggiunsi -, il fato or chiaro; Ma tu il terzo mi noma il qual, se vive, Dall'alto mar immenso è circuito; Deh! tu 'l mi di', né del mio duol t'incresca." δ 555 "Di Laerte la prole, il divo Ulisse, 715 La cui magione in Ìtaca si estolle - Il vecchio ripigliò -, spargere il vidi Gran pianto, là in un'isola, d'appresso Alla Ninfa Calipso che in sue case Per forza il si ritien; né alla natìa 720 Contrada può redir, ché di navigli, Di rèmigi in difetto, il vasto dorso Varcar non può del mar. Quanto a te, o divo Menelao, no, tu non avesti in fato Perir in Argo di cavalli altrice; 725 Né potresti da morte essere aggiunto. Trasporterànti nell'Elisio campo, Colà, ai confini della terra, i Numi, Sede di Radamànto, ove contenta Scorre all'uomo la vita, ove non pioggia, 730 Non neve mai, né lungo verno regna. Ma, blando sempre, una fresc'aura spira Zèffiro che s'invia dall'Oceàno Gli umani a confortar, perocché sei Sposo d'Èlena e genero di Giove." 735 δ 570 Detto, nell'onde si attuffò. Processi Co' miei prodi compagni in vèr le navi, E di molti pensier, mentre me n' gìa Oscuràvanmi 'l cor. Giunto al navile, Apprestammo la cena; e come scese 740 L'immortal Notte lungo il marin lido, Al mormorar de' flutti ci addormimmo. Quando la figlia del mattin rifulse, Primamente nel mar sacro lanciammo Le navi; alzammo gli alberi ed al vento 745 Dispiegammo le vele. Indi i compagni, In lungo sovra i banchi ordine assisi, Percoteano co' remi il mar spumante. Di bel nuovo, d'Egitto in sulla foce, Fiume che trae l'origine da Giove, 750 Fermai le navi, e degli Eterni l'ira Con perfette placai sacre ecatombe. Ersi ad Agamènnone indi un sepolcro, Perché sua gloria eternamente splenda. Fornito ciò, mi ravviai, secondo 755 Diêrmi il vento gli Dèi, che prestamente Alla diletta mia terra mi addusse. |
Dopo la Telemachia, Omero passava a narrare dello stesso Ulisse, che lasciata la ninfa Calipso e incappato nella violenta tempesta scatenata da Poseidone approdava naufrago a Scheria, l’isola dei Feaci. Lo soccorreva la bella Nausicaa e suo padre Alcinoo lo ospitava munificamente. Durante il banchetto, l’aedo Demodoco cantava di una lite, peraltro ignota da fonti diverse, tra Ulisse ed Achille. |
VIII 72-82 (θ 72-83)
Come le mani sulle apposte dapi Ciascuno stese e del mangiar, del bere Ebbe nel sen ripresso ogni desìo, Eccitò a celebrar la Musa il vate, Le gesta degli eroi col nobil canto, 95 Di cui la fama sino al Ciel salìo: La contesa d'Ulisse e del Pelide, Che tra lor già scoppiò con detti acerbi Nel solenne agli Dèi sacro convito. Il maggior degli Atridi in cor gioìa, 100 Che altercasser tra lor dei duci i primi, Ché Febo là nella divina Pito, D'Ìlio così 'l cader gli profetava, Quand'ei, varcata la marmorea soglia, Consultònne l'oracolo: in quel punto 105 Principio avran gli affanni e le sventure Che sulle Frigie e sulle Dànae genti, Come Giove fermò, ruineranno. Questi i canti del vate inclito furo. |
Ulisse si commoveva senza darlo a vedere, ma Alcinoo se ne accorgeva e gli chiedeva la sua identità. L’eroe la rivelava tra lo stupore ammirato dei Feaci e chiedeva poi all’aedo di cantare le fasi ultime del conflitto. Sono gli argomenti ciclici della Piccola Iliade e della Distruzione di Ilio, contenuti altrove in questo sito. |
VIII 642-690 (θ 485-520)
Drizzò Ulisse al cantor cotesti accenti: θ 487 "Certo, nella divina arte de' carmi, Te, fra i mortali tutti io tengo il primo, Demòdoco; che Te una Musa, figlia 645 Di Giove, ammaestrava o Febo stesso; Nobile vate! Oh! quanto il fato avverso Degli Argivi, e le imprese, ed i sofferti Guerrieri affanni, e tutto ch'essi oprâro Mirabilmente canti! Appunto come 650 Presente fossi o 'l ti dicesser elli! Or via deh! segui e digredendo canta Il gran cavallo che d'inteste travi Epèo, scorto da Pàllade, construsse. Mole che penetrar féo nella rocca, 655 Insidiando, il divo Ulisse, poscia Che gli ascose nel grembo inclita schiera, Per cui Troia fu già cacciata al fondo. Se fil filo dirai siffatti eventi, Attestare m'udran gli umani tutti, 660 Subitamente, che benigno un Nume Cotesto t'inspirò canto sublime." θ 499 Agitato da un Dio, fe' tosto il vate Risuonare i suoi canti, e narrò in prima Come gittato nelle tende il fuoco, 665 Montâro i legni e navigâr gli Argivi; Gli altri d'intorno al valoroso Ulisse Sedean, nel grembo del cavallo ascosi, Tra il popolo de' Tròi, perché e' medesmi All'ardua rocca in vetta il trascinâro. 670 La mole ivi torreggia; assise intorno, Incerti avvisi aprìan le Ilìache turbe. Tre sentenze agitàvansi: od il cavo Legno spezzar col ferro, o tratto ad alto Precipitarlo sull'alpestri rocce, 675 Od assentir che immane adornamento Quivi resti a placar l'ira de' Numi. Quest'ultima prevalse: Ìlio ebbe in fato Dall'imo ruinar, quando in suo grembo Accolto avesse quel cavallo enorme, 680 In che seggendo i più valenti Argivi Porterebbero a' Tròi sterminio e morte. Cantò indi 'l vate, che del cieco agguato Fuor gli Argivi versàtisi, l'eccelsa Disertavan città; che mentre gli altri 685 Prodi al suol l'adeguavano, già Ulisse, Qual Marte, corse col minore Atride, Di Deìfobo ai tetti, ove un orrendo Conflitto a sostener ebbe, da cui Auspice Palla, vincitor n'uscìo. 690 θ 521 Questi del vate i canti inclito furo.
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Seguiva poi a più riprese il racconto stesso di Ulisse al re e ai Feaci delle proprie peripezie, che vanno sotto il nome di Apologhi ad Alcinoo e occupano i canti IX-XII dell’Odissea: quanto di verisimile per lo stesso Omero ci fosse, lo lascia desumere il fatto stesso che sia qui l’eroe e non il poeta a parlare. Ma naturalmente questo non inficia l’altissima bellezza di queste famosissime vicende.
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Dopo Scheria, Ulisse viene riportato ad Itaca dai Feaci e si conclude la sua “peripezia”, anche se gli resta da affrontare il duro scontro con i Proci. Ospite del fido porcaro Eumeo, egli, anche per metterlo alla prova, gli racconta di sé una storia che mescola abilmente verità e menzogna prima di scoprirgli la sua vera identità. Farà lo stesso con Laerte e Penelope, ai quali si rivelerà solo dopo la strage dei pretendenti. |
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Nota bene: I collegamenti tra i diversi passi e la ricerca strutturata sono dovuti a Francesco Chiappinelli, che ne rivendica il copyright consentendo comunque il libero e gratuito utilizzo per motivi didattici; la traduzione dei passi omerici è quella ottocentesca di Nicola Definiotti, contemporaneo del Foscolo e oggetto dell’attenzione di Niccolò Tommaseo. In calce ne indichiamo la nota bibliografica, grati al progetto Manuzio e a Liberliber.
Omero (Homerus) Odissea
Questo e-book è stato realizzato anche grazie al sostegno di: E-text Editoria, Web design, Multimedia
QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Odissea AUTORE: Homerus TRADUTTORE: Delvinotti, Niccolò CURATORE: Volpi, Vittorio DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: |
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