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Prose e Poesie |
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Isa Chiappinelli RianòL'uccello del maree altri racconti |
«C'era una volta una gatta...».
No, ragazzi, non intendo affliggervi trascrivendo qui una canzone che alcuni anni fa ha imperversato. E poi, Cinzia non aveva affatto, come seguita la canzone stessa, una macchia nera sul muso. Era invece una bella soriana il cui pelame grigio striato si schiariva di bianco verso il musino dai verdi occhi di sfinge.
Certo, nella grande casa di campagna molti gatti avevano vissuto e regnato, dal grande Muscio, passato alla storia domestica per le leggendarie imprese ladresche (si parlava di bistecche al sangue sottratte dalla griglia rovente, di polli vivi acciuffati nelle vicine fattorie, sfidando massaie attente e irosi cani di guardia), a Lilla e Lalla, graziose e insignificanti gemelline; Da Don Ciccio, mite e magro gattone, a Fuffo, rossiccio e regale, ch'era il più bel micio del vicinato, e che miagolava con voce tenorile, tenendo circolo sui tetti, affettuosi madrigali alle graziose gattine sue conoscenti.
Ma è di Cinzia che voglio raccontarvi, quella appunto che emerge su tutti gli altri nel mio ricordo, e che aveva presso di me il ruolo di compagna di giochi, e, addirittura, per quello che può esserlo una cara bestiola, di piccola amica.
Mi piaceva giocare con lei molto più che con la vecchia bambola: quando, infatti, con improvvisi slanci di tenerezza stringevo questa al cuore con un gesto infantilmente materno, il contatto del suo nasino freddo e la vista degli azzurri occhi di porcellana spalancati sempre nella medesima espressione, mi indispettivano. E finivo sempre col buttarla nel suo angolo, da dove continuava a fissarmi con la sua espressione eternamente esterrefatta.
Cinzia invece era un'altra cosa, viva attenta e scattante: mi seguiva ovunque andassi, e quando trovava il momento buono, dopo avermi quasi chiesto con gli occhi il permesso, mi saltava in grembo e vi si acciambellava facendo le fusa. Io le raccontavo non so quali cose, ed essa muoveva le piccole orecchie come se mi intendesse; e ogni tanto, con grata condiscendenza, gnaulava, come per assentire.
A volte stava invece lunghe ore al sole, intenta alla sua toilette personale, lisciandosi coscienziosamente gli occhi ridotti a una festuca gialla; oppure immobile, distesa, rilassata, forse per ritemprare le sue energie. Ma bastava un nonnulla, il tinnire d'una posata che l'avvertisse che il pranzo familiare era imminente, il frullo di un uccello sfrecciante nell'azzurro, o qualcosa ancora che alla mia percezione sfuggiva, perché Cinzia scattasse, tesa e felina, le pupille improvvisamente dilatate per l'emozione. In quei momenti, ogni mio richiamo la lasciava indifferente: e anche questa sua indipendenza mi piaceva, specie se messa a confronto con la servile e scondinzolante ubbidienza di Fido.
Cinzia infatti prendeva da sè l'iniziativa di andare a caccia: m'invitava miagolando a scorrazzare per la campagna in cerca di grilli e di farfalle. Ci arrampicavamo anche sugli alberi, leggere e caute ambedue, per catturare le cicale, stordite e strillanti sotto il gran sole: cantavano ancora, già cricchiando sotto i denti acuti di Cinzia, pazze e felici anche nella fine atroce.
E la caccia grossa? O sì, certo, Cinzia faceva il suo dovere anche in quel campo: erano le sue scorribande personali e segrete, dalle quali spesso tornava trionfante, con in bocca, ancora semivivo, un topo, o un uccello, o addirittura un lucertolone; prima di divorarli intendeva però farmi un omaggio, ponendoli ai miei piedi: e ciò faceva strillare di santa ragione le donne di casa.
Ma ecco che Cinzia è cresciuta, e un bel giorno mette al mondo i suoi micini. Quasi a parteciparmelo, mi viene accanto miagolando e invitandomi a seguirla, ritta la coda in segno di vivo interesse: si ferma davanti al vecchio armadio, smuove con la zampetta l'incerta serratura, e con un balzo è dentro la cappelliera... Ahimè, i micetti erano graziosissimi, uno bianco, uno rossiccio, uno tigrato, ma il più bel cappello di mia madre, quello di velluto blu con le piume, era irrimediabilmente rovinato.
Quanto tempo è passato? Non so. Mi rivedo improvvisamente giovinetta, maturata in fretta da dolorosi eventi familiari. Porto le trecce ormai tirate su, e non vado più a caccia di grilli e di farfalle. Le cicale cantano ancora come impazzite sotto il gran sole, ma io le ascolto quieta e un po' trasognata. Molte cose sono cambiate nella vecchia casa, che presto lasceremo per sempre. Bisognerà vendere, partire,lavorare. Son tutte cose che possono capitare, ma a me capitavano per la prima volta, e mi parevano terribili. E poi c'era Cinzia, a cui ero sempre molto affezionata, e che ora, oltre tutto, rappresentava per me il ricordo di un tempo spensierato e felice, il «segno» di un luogo che avrei dovuto lasciare per sempre, e che per sempre avrei ricordato come un dolce paradiso perduto.
Cinzia non poteva seguirci. Povera gatta campagnola, abituata alla completa libertà, chissà quali disastri avrebbe combinato chiusa nel nostro appartamentino di città. Ne ricordavamo qualcosa di quando, io bambina, avevo voluto portarmela dietro in carrozza, chiusa in un cestino di vimini, e aveva trascorso con noi colà pochi giorni. Eppoi - aggiunsero i grandi - i gatti amano più la casa che le persone: sarebbe dunque rimasta nella vecchia villa anche dopo la venuta dei nuovi padroni; in più, non avevamo ormai la carrozza, e il biglietto in treno anche per Cinzia significava sciupare quattrini.
Io ero ormai abbastanza grande per poter fare ancora i capricci, e abbastanza saggia per comprendere le loro ragioni. Ma, dentro, il cuore mi si spezzava. Ragazzi, dico sul serio. Piansi di nascosto, lo confesso, carezzando Cinzia, che mi guardava coi vecchi occhi intelligenti e tristi, come presaga.
Non fui felice nella nuova dimora. Il ricordo di persone care e di luoghi perduti per sempre, la necessità di stare tutto il giorno fra quattro mura, senza il verde respiro della campagna, impegnata in un lavoro non gradito che avevo pur dovuto accettare, mi pesavano. Qualche volta, anche il ricordo della vecchia Cinzia affiorava, quasi con un senso di colpa: mi pareva, in certo modo, d'averla tradita.
Una sera stentavo a prendere sonno, e quando chiusi un po' gli occhi, restai a lungo in un dormiveglia triste. Com'erano diversi adesso i miei giorni e le mie notti! Com'era facile e dolce addormentarsi un tempo dopo le corse per i campi fioriti, dopo le scalmanate sotto il sole ardente e l'arrampicarsi sugli alberi ad acchiappar cicale, assieme a Cinzia... Cinzia: mi pareva quasi di sentire il suo miagolìo, il suo raspare con la zampetta dietro la porta, all'alba, per rientrare nel calduccio della casa... Mi pareva, o l'avevo sentito davvero? Adesso ero del tutto sveglia, e con un gesto quasi meccanico, perché tante volte ripetuto in un altro tempo, scesi a piedi nudi dal letto e corsi ad aprire la porta. Cinzia era là, con i grandi occhi fosforescenti nel buio, pronta ad entrare e a farmi le fusa come una volta.
Quale mirabile orientamento, quale lontana cognizione, quanto attaccamento l'avevano guidata verso di me, e con quanto sacrificio mi aveva raggiunta? Non lo so, ragazzi. Ma so che dopo di ciò nessuno ebbe cuore di mandar via Cinzia. |
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