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Prose e Poesie |
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Isa Chiappinelli RianòL'uccello del maree altri racconti |
Fido, povero cane fedele! La sua storia è triste, ragazzi, ma ve la racconto lo stesso, perchè dovete sapere come anche le bestie abbiano la loro sensibilità e i loro affetti, le sofferenze e le malattie. Perciò noi dobbiamo amarle e rispettarle, come creature del buon Dio, anche se nettamente inferiori all'uomo.
Fido dunque era il nostro cane; non vantava una razza pura (un «pedigree» come si usa dire), anzi il suo albero genealogico risultava piuttosto confuso. In cambio o forse appunto in virtù del suo sangue misto, si adattava con molta facilità a molti mestieri canini, per quanto la sua passione fosse la caccia; e le forti zampe, il pelo setoso e le lunghe orecchie facevano pensare che qualche suo non lontano antenato fosse stato un setter.
Io lo ricordo, in certe brumose albe autunnali, i magri fianchi frementi d'impazienza, precedere con lo sguardo mio padre verso la doppietta e il carniere, o fare, di tanto in tanto, corse ansiose verso il cancello. Oppure, seduto immobile sulle zampe posteriori, fissare di sull'uscio della cucina le verdeggianti distese di campi, e guaire piano dal desiderio di raggiungerli. Tornavano verso il meriggio, esso e mio padre, lietamente stanchi, pieno il carniere di povere bestie insanguinate, che la vecchia Caterina avrebbe più tardi spennato borbottando perchè le riempivano la cucina di piume, e arrostito allo spiedo, sul fuoco di legna, in modo mirabile, profumandole di salvia e rosmarino. Fido, con la serena coscienza del dovere compiuto, ne attendeva in pace gli ossi.
Ma, come dicevo, Fido non era soltanto un cane da caccia. La notte faceva ottima guardia alla casa e alla stalla, e perlustrava scrupolosamente la tenuta abbaiando ad ogni minimo frusciar di foglie.
Spesso poi giocava con noi ragazzi, correndo e ruzzando felice, latrando di gioia quasi facesse da contrappunto alle nostre grida festose, lasciandosi càvalcare dai più piccoli, docile come un agnellino. Mia madre si fidava di lui, particolarmente dopo che le aveva dato una prova quasi eroica del suo attaccamento e della sua dedizione verso di noi. Rivedo ancora, in quell'assolato meriggio di settembre, noi ragazzi, a braccia e gambe nude, giocare cercando refrigerio attorno alla grande vasca d'irrigazione, nell'orto. Rivedo il più piccolo chinarsi un po' troppo nel varare le sue barchette di carta, perdere l'equilibrio; risento un piccolo grido, un tonfo, e (mentre noi paralizzati dallo spavento non riuscivamo nè a muoverci nè a gridare) un latrato che sembra un urlo e un altro tonfo: Fido si era lanciato in acqua, aveva afferrato con i denti Angelo per la camiciola, e lo riportava decisamente verso l'orlo della vasca. Da allora Fido diventò il nostro eroe familiare, il protettore e il guardiano di noi ragazzi.
D'altronde egli mostrava di gradire molto la nostra compagnia, preferendola persino a quella di Lilla, che avrebbe dovuto essergli più congeniale. Lilla era una cagnetta mite e insignificante, a cui Fido concedeva solo una cavalleresca e solidale protezione.
Solo con Micia, la gatta di casa, Fido litigava. Doveva avere con essa, io penso, un fatto personale, perché ovunque la intravedesse, sempre, scattava come una molla e si dava a rincorrerla: Micia, con i grandi occhi smeraldini dilatati dal terrore, la schiena inarcata e il pelo irto, schizzava via soffiando come una piccola furia. Si udiva un tramestio, un diavoleto di latrati e di miagolii, uno stridio d'unghielli raspanti in corsa pazza l'impiantito, finché Micia trovava scampo su qualche albero, e di lassù, ormai al sicuro ma ancora agitatissima, soffiava improperi a Fido che le continuava ad abbaiare da terra minaccioso, ma alquanto mortificato per non poterla inseguire oltre.
Ma Micia era il solo essere - oltre la selvaggina, che cacciava per istinto e anche per dovere professionale, e i malintenzionati contro cui abbaiava implacabilmente - che potesse temere Fido. Dico temere, ma penso che Fido volesse solo ridere ( se così si può dire parlando di un cane e di una gatta) alle spalle di Micia, nel vederla così arrabbiata e tremebonda; chè altrimenti avrebbe potuto raggiungerla e azzannarla ben più facilmente di una lepre.
Ma ecco dunque che mentre Fido vive la sua serena vita di onesto cane campagnolo, avviene l'imprevisto, che segna per noi ansie e dispiaceri, per lui, povero cane, così affezionato, la malattia e la fine. Ecco che un giorno non viene più a giocare con noi ragazzi, ma rimane solo e malinconico in un cantuccio, e alle insistenze di mio fratello, alle affettuose tirate d'orecchio, risponde anzichè accettandole giocosamente come sempre, con un piccolo morso, ma dato sul serio, con un accenno di ringhio. Oh! Una cosa da nulla, appena il segno di un canino tra il pollice e l'indice della mano destra: mio fratello non ne fa punto caso, ma si stupisce soltanto e, come tutti noi ragazzi, non comprende. Quando però la sera rientrò mio padre e non vide Fido corrergli intorno con affettuosa furia, chiese dove fosse, lo chiamò; e come quello non si mosse dal suo angolo ma si limitò a guardarlo con occhi tristi e opachi, corrugò la fronte, e più ancora quando la scodella della zuppa che lui stesso volle portargli rimase intatta.
Fido ci guardava di tanto in tanto, e i suoi occhi erano sempre più tristi ed ora parevano iniettati di sangue. Forse si sentiva colpevole, certo era malato.
«Mi ha persino morsicato» disse, incidentalmente, mio fratello; e di certo a mio padre non fu difficile collegare i fatti e trarne le conseguenze. Ma allora ci parve strano che egli attribuisse tanta importanza alla cosa, che si preoccupasse; che fosse fatto venire subito un medico, che Fido fosse messo alla catena per qualche giorno, e che nessuno, tranne papà, potesse avvicinarlo. La parola idrofobia, che sentivamo pronunciare sottovoce come una tremenda eventualità cui non si voglia neanche dar chiaro senso e suono, a noi piccoli non diceva niente.
Mio fratello partì immediatamente per la città, accompagnato dalla mamma, per entrare in ospedale. Fido sparì, e alle mie insistenti richieste, mi fu detto che era «tenuto in osservazione», frase per me non meno sibillina delle precedenti. Nè mi fu detto oltre, certo sapendo come gli fossi affezionata. Ma forse la sorte del povero cane era già segnata.
Una mattina all'alba, prima che mia madre e mio fratello tornassero, sentii un colpo di fucile: balzai dal letto e corsi, a piedi nudi, verso l'uscio della cucina, nella speranza di rivedere finalmente una scena prima consueta: Fido accanto a papà, intenti ambedue a cacciare. Invece mio padre rientrava in quel momento, senza carniere, e sulla bella fronte, di solito serena e luminosa, aveva un'ombra, una ruga forse approfondita da una sofferenza a me ignota; e il suo passo mi parve pesante e l'andatura quasi stanca. Come mi vide, mi rimandò subito a letto, quasi infastidito della mia presenza, e anche questo era stranamente inconsueto.
Fido non lo vidi mai più.
C'era ormai solo Lilla, cui nessuno badava. Chissà perché, adesso, - pensavo - andasse sempre ad acciambellarsi su un mucchio di terra smossa di fresco, nell'orto, e avesse nello sguardo dei miti occhi cisposi l'ombra di un dolore che pareva quasi umano. |
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