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Isa Chiappinelli RianòL'uccello del maree altri racconti |
Selvatichina era una pollastrella senza dubbio graziosa, con le sue penne bigie e il bel ciuffetto sulla testa, che le dava un'aria sdegnosetta, ma dimostrava un cattivo carattere. Almeno così pensavamo noi ragazzi, cui non riusciva mai di metterle le mani addosso, come facevamo, giocando e rincorrendole, con le altre galline.
Quando mia madre poi usciva sull'aia, reggendo con le mani il grembiule pieno di dorati chicchi di granone, e lanciava il suo richiano: « Chit, chit, chit », tutto il pollame le si affollava intorno, meno Selvatichina (era stata appunto la mamma a darle quel nome) che si teneva al largo quanto era possibile, beccando con una specie di sostenuta diffidenza i chicchi più lontani. Eppure era nata nel nostro pollaio, e i suoi fratelli di covata erano comunissimi polli, stupidini e chiacchieroni come tutti i polli di questo mondo, e sua madre un'onesta gallina che deponeva quasi giornalmente il suo uovo nel nido. Perchè dunque Selvatichina era così? Perché voleva distinguersi? Forse per quel grazioso ciuffettino che lei sola, fra tante pollastre, portava sul capo? Superbia, scontrosità, diffidenza, chi lo sa. Adesso, a conti fatti, riconosco che erano difetti superficiali, e che era in fondo una brava gallina. Dirò dunque come certe mamme quando vogliono scusare i loro discoli: Selvatichina aveva, se così ci si può esprimere riferendosi ad un pollo, una sua personalità.
Ma, come accade in tali casi anche ai ragazzi, non era ben vista nel piccolo mondo del cortile. È certo infatti che quando le sue sorelle pollastre razzolavano allegramente, sollevando nuvoli di polvere, e chioccolando fra loro chissà quali maldicenze, Selvatichina non faceva mai parte del gruppo, ma le guardava sdegnosa, fiera delle sue ravviatissime penne, e del suo impeccabile ciuffetto. È certo anche che dava taglienti beccate ai suoi fratelli galletti, ormai imbaldanziti della loro crestina alquanto cresciuta, che portavano con regale dignità, come una purpurea corona, o sventagliavano come una piccola bandiera quando allungavano il collo per lanciare i loro mattutini, vibrati chicchirichì. Che se poi capitava loro, data la giovane età, di fare qualche stecca nel canto, Selvatichina aveva un suo modo di guardarli per traverso, chioccolando come se ridesse! E questa mancanza di rispetto li faceva arrabbiare per davvero, abituati come erano alla servile adulazione delle altre gallinelle. Prendevano allora inferociti la rincorsa per punirla, ma Selvatichina non scappava nè si acquattava: li appettava con piè fermo, e duellava con essi onorevolmente, riportando non di rado la palma della vittoria. Mia madre la guardava perplessa: che fosse un galletto? No, non era un galletto, era solo una gallina un po' originale, dotata, ripeto, di una forte personalità.
Non crediate che io vi racconti frottole: sono fatti realmente avvenuti quando io, ragazza come voi, vivevo in campagna, e i miei amici erano i cani, i gatti, i polli, le caprette. Ottimi amici in verità, che conoscevo profondamente a uno a uno, e di cui serbo felici ricordi.
Tornando dunque a Selvatichina, vi dirò che era ormai diventata una leggiadra gallinella, e un giorno, col suo allegro coccodè, avvertì l'intera fattoria di aver deposto il primo uovo. Ma non trovammo l'uovo nel nido comune, dove lo deponevano le altre galline. C'era da aspettarselo, disse mia madre, ma bastava un poco di pazienza e tutto si sarebbe accomodato.
L'indomani mi ordinò appunto di andare in cortile, e tenere d'occhio Selvatichina. Avrei dovuto scoprire dove andava a fare l'uovo. Mi ci misi con buona volontà, ma le ore passavano e Selvatichina non si decideva. Si sentiva spiata? Non so, ma alle volte mi guardava in tralice e faceva quel certo verso, co, co, co, quello, sapete, della presa in giro.
C'erano nel cortile fiori e formiche, farfalle e piantine che crescevano nei muri sgretolati del pollaio, e, persino, un nido di passerotti in una macchia di rosai selvatici. Voi mi capirete se vi dico che mi distrassi. Credo che mia madre non mi capì ugualmente. Le mamme hanno le loro ragioni, e vogliono essere ubbidite. Fatto sta che nel bel mezzo del discorso, mentre cioè io confessavo alla mamma di aver perduto di vista la gallina, e lei mi somministrava qualche innocuo sculaccione, Selvatichina lanciò il suo trionfale coccodè. Donde veniva? Mah! Eccola lì che si dissetava tranquillamente al beverello. Mia madre si rodeva: due uova già perdute!
L'indomani dislocò me e i miei fratelli nei punti più strategici. In tanti, disse, avremmo bene scoperto il nido, pedinandola, ma quella gallina pareva essere indiavolata. A una certa ora io e i miei fratelli ci si ritrovò a rivolgerci l'un l'altro affannosamente la stessa domanda: «Hai visto Selvatichina?». Selvatichina si era misteriosamente eclissata. Quando, mortificatissimi, andammo a riferire alla mamma l'esito della spedizione, questa, come un generale che veda fallire i propri soldati, prese una decisione eroica: «La prossima volta andrò io». E così fece. Ma, incredibile a dirsi, non ebbe fortuna neanche lei. O perchè, sempre operosa, si portò dietro la calza, sulla quale bisognava pure ogni tanto fermare gli occhi; o perché due o tre volte dovette per un momento rientrare in casa a sorvegliare la cottura dei fagioli; o perché infine quella gallina sembrava avesse davvero il diavolo in corpo, fatto sta che non scoprì nulla neanche la mamma. Le cose rimasero così per un certo tempo. C'era poco da fare: Selvatichina ci aveva bellamente giocati, nè d'altronde si poteva continuare a perdere le giornate dietro a lei; un giorno o l'altro, concludemmo, il nido, ormai ricco di uova, sarebbe stato certamente trovato. Ma non trovammo un bel nulla, anzi, durante il mese di aprile sparì anche Selvatichina.
La cercammo e l'aspettammo inutilmente per alcuni giorni. Poi non ci pensammo più. Con la cattiva abitudine che aveva di allontanarsi e di non stare in branco con le altre galline, ritenemmo che fosse finita facile preda di qualche bestia o di qualche ladruncolo. Erano passate alcune settimane dalla sua scomparsa. Ormai si era in maggio, poco dopo la Pasqua, e l'aria era dolce e tiepida nelle nostre campagne. Le galline sagge e timorate covavano le uova nel pollaio, in attesa che si schiudessero, e gli agnellini bianchi e soffici come matasse di lana posate sul verde del prato, davano a vederli un senso di pace e di gioia. Era primavera, insomma.
Noi sedevamo in circolo sull'aia, dopo il lavoro, come si usa nelle belle giornate. Non so chi per primo intese quel caratteristico «cloc, cloc!», che è proprio delle chiocce, e si volse, pensando che qualcuna delle covatrici avesse lasciato il nido. Ma restò senza fiato per la sorpresa, e così noi tutti, quando vedemmo: Selvatichina avanzava con le ali aperte, come a proteggere e chiedere insieme. Tredici batuffolini soffici, morbidissimi, gialli, bruni, striati, le facevano, pigolanti, corona; e lei veniva, umile ormai nella sua gloria, chiedendo col suo «cloc, cloc» cibo e asilo per i suoi piccoli. Povera, cara Selvatichina, l'avevamo giudicata un po' male. Aveva voluto, orgogliosa, fare da sè, ma aveva generosamente resistito e pagato del suo.
Era magra, spennata, con la crestina, un tempo tanto altezzosa e vermiglia, ridotta a un cencetto grigio. Aveva sofferto il freddo la notte, covando in qualche siepe nascosta; aveva sofferto certamente la fame, sola e senza assistenza, ma non aveva lasciato le uova, aveva saputo resistere eroicamente. L'amore materno era stato più forte di ogni disagio, e adesso la faceva anche rinunciare a quella sua innata, invincibile fierezza. E così la storia di Selvatichina finisce. Perché divenne una normale chioccia, accettò grata vitto e cure per i suoi pulcini, come era giusto, li allevò con amore, e quando furono grandi e seppero f are da sé, lei visse nel nostro pollaio i rimanenti suoi giorni come le altre comuni galline.
E le comuni galline, voi lo sapete, non hanno storia. |
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