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Prose e Poesie |
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Isa Chiappinelli RianòL'uccello del maree altri racconti |
Non so se sia il tempo a conferire ai ricordi, come alle cose, una levigatezza e una preziosità che invano cerchiamo in quello che è attuale. Forse è questo appunto che contribuisce a farmi apparire vivo e ricco d'emozioni un ricordo lontanissimo, che si stacca, con contorni nitidi e precisi, sugli altri di quello stesso periodo, sfocati invece nella nebulosità dell'inconscio.
Ecco dunque che all'improvviso il mio fratellino si ammala di scarlattina. E, mentre i ragazzi più grandi sono in città a studiare, non vi sono che io, nella grande casa, che possa essere contagiata. Così mi mandano a stare da una vecchia zia che abita la villa sul mare.
La villa sul mare, oltre il paese, oltre la ferrovia che segna quasi una linea di demarcazione fra l'abitato e la spiaggia, è posta come un candido cubo sul litorale ampio e desertico. Accanto ha un rettangolo recintato a mo' di giardino, che giardino non riesce ad essere perché il sole, il vento, la salsedine divorano tutto. Vi prospera solo lì intorno una verde, serpigna pianta grassa dai grandi fiori rosa lilla. E improvvisi, senza foglie, da profondissimi bulbi, scoppiano come per prodigio,nel riverbero accecante del sole, gli immacolati gigli delle Sirene.
Io vi capitai ch'era primavera, mentre ancora la spiaggia non aveva assunto l'aspetto quasi cittadino che le conoscevo durante la stagione balneare. Mi parve un mondo nuovo e affascinante, un angolo di paradiso terrestre, tutto per me e tutto da scoprire; e ne fui entusiasta. Certo, l'essere lontana dalla mia famiglia mi riempiva dentro come un vuoto strano, nè la casa silenziosa della vecchia zia era fatta per riempirlo. La zia era occupata tutto il giorno dalle faccende domestiche: e l'unica sua figliola, grassa, rosea e pigra, forse malata, sedeva presso la finestra con un interminabile ricamo fra le mani. A volte mi chiamava per farmi una carezza sulle guance, o per ricompormi il nastro sui capelli, mormorando una parola gentile, così, senza muoversi. Girava per la casa, quasi ad accrescervi quel senso di remoto che vi stagnava, misteriosa e impenetrabile, una tartaruga; mentre una cagnetta nera, maligna e cisposa, stava sempre acciambellata sulla soglia, ringhiando anche quando dormiva.
Ma io era libera di uscire e rientrare quando lo volessi: purché, beninteso, fossi saggia e non andassi vicino alla strada ferrata, né a bagnarmi, al mare.
Ma il treno non mi interessava, anzi m'infastidiva con la sua prepotenza e il suo rumore. Preferivo andare verso il mare, levarmi le scarpe e affondare i piedi nudi nella sabbia fresca e intatta, mentre il sole era ancora basso all'orizzonte, guardare le onde sempre mutevoli e sempre uguali, e sempre, come per miracolo, rinnovantesi: ora lievi e morbide e frangiate come merletti, ora rotolanti come liquide colonne divelte in preda a titaniche furie. Mi incantavo così, non so di che, con gli occhi perduti tra mare e cielo, forse cercando di intenderne le meraviglie, pur senza ancora conoscere le parole sacre «I cieli narrano la gloria Tua, o Signore» E quando il vecchio giardiniere veniva a dirmi che era ora di desinare, o che la zia mi voleva, dovevo fare uno sforzo quasi fisico per strapparmi di là, e, appena potevo, vi ritornavo.
Bianchi stormi d'uccelli apparivano all'orizzonte, si avvicinavano in volo serrato e, spesso, con rapido batter d'ali, si posavano improvvisi sulla sommità delle onde. Pareva venissero dal mare, e oltre il mare sparivano in volo, lasciando sulla sabbia dove s'erano posati delle piccole, fitte impronte, al cui paragone quelle pur lievi dei miei piedini nudi parevano goffe e pesanti. Io li seguivo a lungo sulla spiaggia, attratta oltre che dalla loro bellezza, da un non so che di favoloso che mi pareva fosse in essi: mi parlavano di voli e di lontananze, di cieli sconosciuti e di remoti approdi; e come essi non mostravano timore della mia presenza, speravo sempre che qualcuno si sarebbe lasciato afferrare, e tendevo le mani per imprigionare il più vicino; ma mi sfuggiva sempre, come avviene nei sogni. Finché una mattina...
Una mattina c'erano sulla spiaggia i marinai che tiravano le reti, e uno di essi che mi conoscevano mi chiamò: « Signurinuzza... » facendomi cenno che aveva qualcosa da darmi. Si chinò sul fondo della barca e tirò su l'uccello. Le penne di un delicatissimo grigio, erano macchiate di sangue e l'ala destra spezzata, forse da un colpo di remo, penzolava, mentre l'altra ripeteva continuamente un tentativo penoso di volo. Quando lo ebbi tra le mani mi parve quasi di aver imprigionato un sogno, un sogno ormai diventato così, all'improvviso, realtà viva e dolente. Corsi col cuore in tumulto, su cui serravo la bestiola, dalla zia, ed ella, comprensiva e buona, condivise la mia pena e il mio entusiasmo. Così l'uccello del mare ebbe le nostre domestiche cure: l'ala, disinfettata, fu fasciata accuratamente fra due stecchi; gli fu procurato del cibo, ed ebbe per alloggio un vecchio gabbione nel giardino.
Ma i giorni passati alla villa sul mare hanno fine. Io rientro a casa, riabbraccio i miei genitori, il mio fratellino ormai guarito; rivedo i miei luoghi, cerco di ritornare ai vecchi giochi. Ma tutto ondeggia intorno a me come in uno strano sogno. Finché non mi ritrovo supina sul mio lettino, col rombo del mare in tumulto nel sangue, col sole sempre più ardente sulle membra. Inseguo, senza vederli, candidi stormi d'uccelli: quanti, e come mi sono vicini! tendo le braccia per prenderne uno: ma due mani amorose me le ricompongono sul lenzuolo, una cara voce mi dice piano: «Che vuoi, Lisa? Sta’ buona, che devi guarire».
Ma io ho imprigionato l'uccello del mare e nessuno lo sa: sento la sua ala sbattermi violenta sul cuore... o è il mio cuore stesso?
Scarlattina: quando ne sento parlare sono già fuori pericolo e i miei sorridono intorno al mio lettino. È venuta a trovarmi anche la zia: guardandola riannodo pian piano i fili con la realtà, spezzati dal delirio febbrile, ne ricompongo la trama intorno al suo volto pacato e ormai familiare: e chiedo per la prima volta dopo la crisi, qualcosa di sensato, mentre tutti, all'infuori di lei, credono il contrario:
« Zia... l'uccello del mare? »
Assente, benigna, come ad un'intesa fra noi, nel rispondermi:
« È volato via».
Ora nessuno sa perché piango, silenziosamente, e le lacrime mi ricadono copiose sui capelli, bagnando il guanciale. Neanche io lo so. Ma sono stanca. E sono molto felice che il mio uccello abbia riavuto la sua libertà. Ma sono anche infelicissima perché intuisco così, senza una ragione, che un periodo della mia vita si è concluso.
Mai più infatti avrei goduto la gioia primitiva e fresca di quel soggiorno in villa; mai più avrei ritrovato quell'«ora del tempo e la dolce stagione».
L'uccello del mare s'era portato via, nel suo volo, una parte di me stessa: quella, appunto, favolosa e gentile della prima fanciullezza. |
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