La pietas che da Virgilio
in poi caratterizza il personaggio di Enea è nelle letterature e nelle arti
figurative di tutta Europa, e non c’è naturalmente da spendere impegno a
riparlarne.
Molto meno nota, e tuttavia
ampiamente documentata, dalla mitologia greca sino alla cultura umanistica e
rinascimentale, è la versione che sinteticamente definiremo dell’impius
Aeneas: l’eroe sarebbe un traditore, con Antenore, Anchise ed Eleno, della
sua patria, perciò scampato alle stragi e alla rovina della sua città. Proprio
in ricompensa del suo tradimento i Greci avrebbero concesso a lui e ai suoi
familiari ed amici una sorta di lasciapassare, ed egli sarebbe partito per
fondare una nuova Troia.
Le testimonianze in proposito
sono numerose e spesso imprevedibili. Vi accennano, tra gli altri, Livio, Orazio,
Seneca, Tertulliano e, a detta di Donato e Servio, lo stesso Virgilio; e tra i
Greci, spesso con riferimento ad autori assai più antichi, Sofocle, Senofonte,
Dionigi d’Alicarnasso, Dione Crisostomo, Diodoro Siculo, Strabone, Pausania; e
più tardi, con riferimento soprattutto ad Antenore, gli scoliasti e Suda.
Tra l’età di
Nerone e la latinità più tarda, la storia di Enea traditore riprende vigore, e,
pur restando naturalmente in ombra rispetto alla versione virgiliana. trova
ampio spazio nel resoconto che della guerra di Troia dànno due singolari autori,
“Ditti cretese” e “Darete frigio”. Entrambi dicono di essere stati partecipi,
l’uno nell’esercito greco, l’altro tra i difensori della città, di quel
memorabile conflitto. Indirettamente essi si dichiarano più degni di fede di chi
verrà quattro secoli dopo, Omero. Nei loro interessantissimi scritti, tradotti
dal Settembrini nel primo Ottocento e mai degnamente editi in Italia nella
lingua originale, il tradimento di Enea ed Antenore ha largo spazio e si colora
di aspetti e toni romanzeschi. Le due opere sono variamente datate, ma i
probabili originali greci vanno fatti risalire al periodo compreso tra I secolo
a.C. e I d.C.
Anche durante e dopo i secoli bui,
accanto alla tradizione virgiliana, fiorì quella dell’ Enea traditore: ne
troviamo ampia notizia, per quanto concerne la letteratura inglese delle origini,
in Giuseppe Iscano, che mise in esametri latini appunto la Daretis Phrygii
Ylias; nelle numerose volgarizzazioni che di Darete si fecero nel XII
secolo; e soprattutto in un importante romanzo in versi della nascente
letteratura francese, a metà tra il poema epico e quello cavalleresco, il
Roman de Troie di Benoit de Sainte Maure, un monaco normanno.
L’opera ebbe una diffusione amplissima in tutta Europa, venne più volte
rimaneggiata e ridotta in prosa.
Nella seconda meta del XIII
secolo Guido delle Colonne, meglio conosciuto come poeta della scuola siciliana,
ne tradusse in latino proprio una delle versioni in prosa: la sua opera dal
titolo Historia destructionis Troiae ebbe un successo enorme, e lo
testimonia la lunga serie di volgarizzamenti nelle lingue e nei dialetti di
tutta Europa: ce ne fu una anche in napoletano! Anche in questo caso,
naturalmente, compariva la versione alternativa del mito di Enea.
L’argomento del tradimento
compare anche in un passo di Boncompagno da Signa, importante personaggio
toscano del XIII secolo, nel volgarizzamento romanesco di un testo latino del
Duecento e, soprattutto, in un passo del Trésor di Brunetto Latini, il
famoso maestro di Dante. Possibile che il divino poeta fosse all’oscuro di
questa storia?
Obbiettivo di questa ricerca
è collegare le testimonianze greche e latine a quelle medievali e moderne, e
fornire qualche spunto esegetico ad un episodio notissimo della Commedia,
quello del conte Ugolino. |
Omero ci descrive con simpatia Enea,
mettendo però in rilievo un aspetto che si rivelerà non secondario: la rivalità
tra Anchise e Priamo[1] che per alcuni autori sarà causa determinante del
tradimento[2].
Nei poemi del ciclo troiano si fa forse già cenno alla infamante accusa[3]:
Lesche, nella Piccola Iliade, racconta che Andromaca ed Enea, prigionieri
di guerra di Neottolemo, ne furono trattati con favore, e che Enea sarebbe stato
liberato dai Greci. Forse ne parlavano anche nelle Iliuperseis Stesicoro e
Ibico, ma né i pochi frammenti né la Tabula Iliaca (una tavoletta
marmorea del I sec. a.C. ritrovata sul Campidoglio e ritraente Enea in fuga da
Troia, con la scritta ”secondo Stesicoro”) ci autorizzano a deduzioni
certe.
Senza fare il nome di Enea, ma scaricando tutte le colpe su Antenore, numerose e
significative fonti[4] parlano di un segnale che i Greci avrebbero posto alla
sua casa perché non fosse saccheggiata e incendiata.
Di un trattamento particolare dei Greci per Enea parla Senofonte[5], che però
nulla dice del tradimento dell’eroe, anzi ne esalta la pietas per aver
pensato prima agli dèi, poi ai familiari e solo in ultimo alle ricchezze quando
lasciò la città. Ed Ellanico di Mitilene, in un lungo frammento dei suoi
Troicà[6], assolve Enea dall’infamante sospetto; ma parla delle ricchezze
che egli riesce a portar via da Troia, insieme con i familiari e gli amici,
grazie alle trattative con i Greci avvenute, beninteso, a guerra finita. Dello
stesso tono sono molte altre testimonianze[7]: l’eroe salverebbe anzitutto i
Penati e il vecchio padre Anchise, destando così l’ammirazione dei Greci che gli
consentono perciò di portare con sé chi egli voglia e le sue ricchezze. Enea non
sarebbe certo un traditore, ma la particolare benevolenza dei nemici avrebbe
finito fatalmente per alimentare il sospetto.
A parlare per primo, sia pur indirettamente, di tradimento è Dionigi
d’Alicarnasso, lo storico di età augustea[8]. Egli è dichiaratamente incredulo,
ma non di meno riferisce l’esplicita accusa di Menecrate di Xanto, uno storico
del IV secolo a.C. Quella di Menecrate è la prima testimonianza decisamente
ostile ad Enea, e collega il tradimento alla rivalità tra Priamo e Anchise. |
A Roma, le lotte civili
di età repubblicana spiegano chiaramente perché Enea, progenitore della gens
Iulia, venisse alternatamente esaltato o condannato dalle fazioni in
contrasto. Questo accade prevalentemente dall’età di Cesare, ma fonti più tarde
fanno riferimento anche ad autori precedenti.
Nel IV secolo d.C. l’anonimo autore del De origine gentis Romanae[9] riferisce che il greco Alessandro di Efeso, autore della Guerra Marsica,
indica come traditori di Troia Antenore e altri principi, spiegando anch’egli la
fuga di Enea con l’ammirazione che la sua pietas avrebbe destato in Agamennone.
Aggiunge però che Lutazio Catulo, console con Gaio Mario nel 102 a.C., ne parla
esplicitamente come di un rinnegato e lascia intendere che solo grazie al suo
tradimento gli sarebbe stato permesso di portare con sé le tante ricchezze e i
compagni nel viaggio verso l’Italia. Lutazio Catulo fu ucciso dai democratici
nell’87 a.C., e il suo racconto non può essere stato per evidenti motivi di
tempo influenzato dall’ostilità a Cesare e alla gens Iulia, ma risale ad
una tradizione precedente.
Ancor più significativi naturalmente sono i commenti ad alcuni passi virgiliani
di Tiberio Donato e Servio[10], perché la contestazione ad Enea è quasi una
sconfessione di Virgilio stesso, e di Porfirione[11] ad un passo su Enea del
Carmen saeculare di Orazio.
Anche Livio[12] nelle parole iniziali della sua opera riferisce di un
trattamento benevolo dei Greci per Antenore ed Enea, ma senza parlare di
tradimento. Se Cesare ed Augusto avevano un evidente interesse ad esaltare la
gens Iulia e il suo capostipite, è comprensibile che questi autori, legati a
loro in misura diversa ma comunque profonda, abbiano cercato con successo di
lasciare il più possibile in ombra comportamenti non proprio limpidi che gli
avversari politici rimproveravano ad Enea. I loro commentatori lo capiscono bene,
e a distanza di secoli ne parlano in maniera più esplicita.
Le vivaci contestazioni alla gens Iulia e al suo fondatore cessarono
presto e il periodo augusteo venne anzi, forse troppo generosamente, preso a
modello dalla classe senatoria. Ma la polemica su Enea imprevedibilmente riprese
nella stessa domus imperiale.
Seneca[13] mostra infatti chiaramente di conoscere la versione alternativa del
mito di Enea ma non sembra crederci. Egli moralisticamente difende il pio
fondatore di Roma dalla nota accusa, perché il nobile intento di sottrarre il
padre alla schiavitù non può aver indotto il pio Enea all’ingiustificabile
tradimento della patria.
In età flavia, Dione di Prusa[14] sosterrà paradossalmente che Omero non merita
di essere creduto e che la guerra di Troia non ci sarebbe mai stata. Al
contrario, i rapporti tra i Greci e i Troiani furono tali da consentire ad
Antenore, Eleno ed Enea di conquistare regni ad occidente della Grecia, dalla
quale “ si astennero per via dei giuramenti”. Quali giuramenti? Forse
anche qui è possibile cogliere una qualche eco del tradimento, perché
dall’accordo tra Greci e Troiani sarebbe nata quella Roma che Dione intende
esaltare. |
Ma non è Seneca a rendere così
rilevante l’età di Nerone ai fini della nostra ricerca. In quegli anni, stando
almeno a quanto racconta nella prefazione il non meglio noto Lucio Settimio,
sarebbe venuta alla luce da una tomba di Creta, in seguito ad un terremoto, un
manoscritto in caratteri fenici, gli unici noti ai tempi della guerra di
Troia. La tomba era quella di Ditti ed il manoscritto conteneva il resoconto
della guerra cui egli aveva partecipato, proprio come cronista ufficiale, al
fianco del re di Creta Idomeneo. Alla sua morte, così come Ditti aveva chiesto,
il manoscritto era stato posto nella sua tomba ed ora finalmente il caso lo
portava alla luce. Il sovrano dell’isola, Prassi o Euprasside, lo aveva portato
in dono a Nerone, che ne era stato entusiasta e che l’aveva fatto tradurre in
greco. L’opera era poi, in un momento imprecisato (IV secolo d.C.?), giunta nelle
mani di Lucio Settimio, che l’aveva tradotta in latino e donata ad Aradio Rufino,
destinatario della prefazione. La storia viene ripresa, con qualche lieve
variazione, nel prologo, e parrebbe al lettore moderno un modello delle
successive, reiterate invenzioni di ritrovamento di antichi manoscritti; è parsa
a lungo totalmente fantastica, legata all’attività delle scuole di retorica di
età imperiale, ma così non è. Le testimonianze su Ditti e la sua opera sono
molto numerose e in Egitto è stato anche ritrovato un papiro greco [Pap. Tebtunis
268] databile appunto al I secolo d.C. che contiene certamente un passo
originale della sua opera, quello della morte di Achille per mano di Paride e
Deifobo. Il problema filologico relativo a Ditti cretese è molto complesso, ma a
noi interessa soprattutto la conclusione: l’opera viene riportata all’età di
Nerone, ma l’originale greco è probabilmente ellenistico.
La vera identità di Ditti[15] resterà per sempre ignota, ma più importante per
noi è quella fittizia: egli si dichiara testimone diretto degli eventi che
racconta. Il nome di Omero non comparirà mai, giacché il grande poeta, nella
finzione letteraria appunto, nascerà almeno quattro secoli dopo, ma il raffronto
con lui riemerge continuo, anche se involontario. L’”autopsia” intende dare
credibilità al racconto, ma essa è merito della storiografia ionica e attica del
V secolo a.C., non si può farla risalire al remoto conflitto Troiano. Tuttavia
Ditti e soprattutto il suo “gemello”, Darete[16], riuscirono a convincerne il
grande Isidoro di Siviglia e i loro imitatori medievali, Benoit de Sainte Maure
e Guido delle Colonne[17].
Le Ephemerides di Ditti si estendono ai temi dell’intero ciclo omerico, e
attingendo al patrimonio tragico e lirico della letteratura greca, diventano per
noi una interessantissima anti-Iliade e anti-Odissea e, per quello che qui ci
riguarda, una vera e propria anti-Eneide.
Il racconto del tradimento è nel quarto e quinto dei sei libri[18]. Eleno, il
profetico figlio di Priamo, morti ormai Ettore e Paride e venuta meno Pentesilea,
la regina delle Amazzoni uccisa da Pirro, ha chiesto asilo ai Greci prevedendo
la caduta della città per mano di Antenore ed Enea. E infatti sotto la sapiente
regia del primo e la attiva partecipazione del secondo, con la finzione della
trattativa di pace prende corpo il tradimento. Antenore convince Teano[19], sacerdotessa di Minerva, a consegnargli il Palladio, e lo dà ai Greci in cambio
dell’incolumità per sé e i suoi e di metà del regno; ad Enea viene garantita
l’incolumità per sé e per i suoi e il mantenimento delle sue ricchezze. I due
traditori si impegnano a raccogliere dai loro concittadini l’ingente somma
pretesa dai Greci per l’illusoria pace e nell’abbattimento delle mura per
consentire l’ingresso in Troia del cavallo fatale.
Anche se il peso maggiore del tradimento ricade su Antenore, non vengono quindi
nascoste le pesanti responsabilità di Enea. I Greci riconoscenti manterranno
quanto avevano promesso. Le case di Antenore ed Enea non vengono distrutte
perché alcune guardie le sorvegliano durante il saccheggio; ad Enea viene
addirittura offerto di partire con i vincitori, per avere parità di diritti e di
regno in Grecia. Si descrive poi la commovente vicenda di Polissena[20] e la
fine di Ecuba, e largo spazio Ditti dà al contrasto tra Aiace ed Ulisse per
l’assegnazione del Palladio[21].
Forse proprio l’esaltazione di Augusto, rimpianto dal senato come ideale
princeps, spiega perché Nerone abbia per ripicca curato personalmente
l’edizione dell’opera di Ditti e ne abbia voluto una diffusione ampia. Sul
progenitore della gens Iulia (che, è bene ricordarlo, non è quella di
Nerone) tornava a gravare l’antica infamia, ma la damnatio del tiranno
l’avrebbe resa troppo breve e precaria. Sarebbero occorsi altri secoli perché
l’immagine del fondatore di Roma tornasse ad offuscarsi.
Ancor più fitto che per Ditti è il mistero che circonda il sedicente Darete
frigio, che si dice autore dell’altro scritto di argomento troiano, il De
excidio urbis Troiae. L’opera è stata variamente datata dal IV al VI secolo
d. C. ed è certamente tarda, ma probabilmente risale a modelli della seconda
sofistica se non addirittura della prima.
L’opera è molto più breve delle Ephemerides di Ditti, ma include nella
parte iniziale la vicenda argonautica e la prima distruzione di Troia per mano
di Giasone ed Ercole. Nella prefazione, con abile finzione letteraria, “Cornelio
Nepote” scrive a “Sallustio”:
Cornelio Nepote saluta Sallustio Crispo. Quando ero nel pieno dei miei studi
ad Atene, ho scoperto la storia di Darete Frigio, scritta di suo pugno, come
indica il titolo, che egli ha tramandato sulle vicende di Greci e Troiani. Io ne
sono rimasto affascinato e l’ho subito tradotta. Ed ho ritenuto di non dover
aggiungere né togliere nulla per modificarla, altrimenti sarebbe potuta sembrare
mia. Ho ritenuto la cosa migliore, quindi, tradurla in latino parola per parola,
visto che era scritta in modo veritiero e in stile semplice, in modo che i
lettori potessero conoscere come si erano svolti questi fatti; e decidere se
considerare più vero quel che ha tramandato Darete Frigio, che visse in
quell’epoca e combatté la guerra con cui i Greci assalivano i Troiani, o credere
ad Omero, che è nato molto tempo dopo che fu condotta quella guerra.
La finzione appare abbastanza verisimile: Cornelio Nepote e Sallustio potrebbero
davvero essersi conosciuti, anche se le loro scelte politiche furono quasi
certamente diverse. Lo stile di “Darete” richiama per la sua brevitas
quello di Nepote, e sembra ispirarsi all’atticismo di moda nel I secolo a.C. Il
racconto del tradimento è nei paragrafi finali[22], e non manca di drammaticità,
pur se l’autore non fa trasparire alcuna emozione. Con evidente intento
razionalistico, non si fa cenno al Palladio e il cavallo è qui solo un dipinto
sulla porta Scea. Enea nasconde Polissena, ma Antenore la scopre e la fanciulla
viene sgozzata sulla tomba di Achille. Agamennone adirato esilia Enea, che
lascia Troia con quelle stesse navi che erano servite un tempo per il ratto di
Elena.
Nonostante la brevità e le notevoli differenze, “Darete” ha certo avuto tra i
suoi modelli “Ditti cretese”. In particolare, sono descritti con precisione i
ruoli di Enea, Antenore, Eleno ed Anchise nel tradimento della città. E, ben più
di Ditti, nel Medio Evo e fino a Dante, Darete fu direttamente o indirettamente
noto e alimentò la leggenda dell’impius Aeneas. |
Nel Medioevo, nonostante l’ovvio predominio della
versione virgiliana, non si perse il ricordo dell’Enea traditore. Darete fu
messo in versi latini[25] o direttamente tradotto in varie lingue europee[26],
ed è con Ditti proclamato modello del Roman de Troie di Bénoit de Sainte
Maure[27] e della versione latina di Guido delle Colonne[28]. Eppure ancora
oggi prevale l’opinione che a Dante fossero noti solo i rimaneggiamenti
medievali dei due scritti.
Il Roman de Troie dovrebbe meglio esser definito un poema
epico-cavalleresco che in trentamila versi narra la storia secolare della città,
fino ed oltre la sua distruzione definitiva per mano greca. L’opera riassorbe
tutto il patrimonio mitologico e letterario del Medioevo e lo rielabora in forme
che sono già espressione della cortesia e religiosità tipiche dell’età nuova.
Ebbe un successo ed una diffusione straordinari, fu oggetto di numerose
redazioni e traduzioni, soprattutto quando venne ridotta in prosa e tradotta in
latino da Guido, nel 1287, con il titolo Historia destructionis Troiae.
Benoit e Guido citano continuamente Ditti e Darete. Per di più, il notaio di
Messina non parla mai del monaco normanno. E entrambi dicono di volersi rifare,
per l’antica vicenda di Troia, alle veridiche parole di chi avrebbe vissuto
direttamente gli eventi piuttosto che ad Omero, venuto tanto tempo dopo a
falsare con la poesia la verità dei fatti. Si potrebbe dire che in nessun passo
come nei prologhi essi rispecchino fedelmente le parole dei loro modelli. E si
comprende anche come lo stesso Isidoro sia rimasto preda del loro tranello
letterario.
Il Roman de Troie e l’Historia Troiana seguono generalmente le
trame di Darete prima e Ditti per le vicende conclusive, con un metodo che si
potrebbe definire amplificatorio, ma applicano frequentemente anche la
contaminazione con altre fonti latine. Solo un paziente lavoro di schedatura e
un commento adeguato ai due testi e ai loro modelli consentirebbe di definire
con precisione come questi importanti documenti sono giunti a Dante e al mondo
umanistico.
Per quanto concerne la storia del tradimento, essa è raccontata in maniera
sostanzialmente simile dai quattro autori, con variazioni legate allo stile di
ognuno di loro[29]. Le responsabilità maggiori vengono fatte gravare ora su Enea,
ora su Antenore; altre vicende altamente drammatiche sono quelle di Polissena e
del Palladio, che avranno anch’esse largo seguito nelle letterature
successive[30].
Di particolare interesse sembrano altre due testimonianze, molto vicine a Dante.
La prima è contenuta nell’epistula mandativa ad comites palatinos di
Boncompagno da Signa[31]; l’altra è un singolare documento in dialetto romanesco
sulla storia di Troia[32], risalente al XIII secolo e non collegabile sia per la
datazione che per le dimensioni del racconto alla catena aperta dal monaco
normanno.
Proprio questo testo, a detta del Marti, sarebbe alla base del capitolo I, 33 (Comment
Eneas arriva en Ytaille) del Trésor di Brunetto Latini:
Quando Troia fu presa e messa a ferro e fuoco e ci si uccideva gli uni gli
altri, Enea il figlio di Anchise con il padre e Ascanio suo figlio se ne uscirono
dalla città e si portarono un grandissimo tesoro e con un gran numero di persone
scamparono. E perciò gli autori raccontano che egli seppe del tradimento, e ne fu
complice, e parecchi dicono che non ne seppero niente se non alla fine, quando
la cosa non potè essere evitata; ma comunque andò la cosa egli e la sua gente se
ne andarono per mare e per terra, e prima o dopo arrivarono in Italia[33].
Li autors sono evidentemente Bénoit de Sainte Maure e Guido delle Colonne,
se non proprio Darete e Ditti; ed è quindi indubbio che il maestro amato e
venerato di Dante conoscesse bene la versione dell’impius Aeneas.
Come si giustifica allora il generale silenzio degli studiosi e commentatori di
Dante che nulla dicono del coinvolgimento dell’eroe nel tradimento, limitandosi
a parlare della colpa di Antenore a proposito dell’Antenora di Inferno
XXXII 87 e degli Antenori di Purgatorio V 75?
E come mai nessuno ha finora rilevato che l’eroe virgiliano è citato più volte
indirettamente nel poema, ma che Dante ne fa solo il nome quando ci dice di
averlo visto nel Limbo (Inferno IV 121)?
La prima domanda sembrerebbe avere una sola risposta, che non vorrei suonasse
offensiva e presuntuosa: i testi di Darete, Ditti, Bénoit de Sainte-Maure e
Guido delle Colonne, e più particolarmente i riferimenti ad Enea traditore,
hanno avuto sino ad oggi troppo pochi lettori, generalmente distratti. E’ pur
vero, però, che accanto alla fonte virgiliana i fatti di Troia erano noti a
Dante e a tutto il Medioevo proprio per il tramite di questi autori.
Al secondo quesito, se come mi appare evidente Dante conosceva la versione del
tradimento, non c’è che una risposta credibile: il divino poeta , seguendo
fedelmente il suo impareggiabile maestro, l’ha volutamente taciuta perché
parlandone avrebbe messo in crisi irreversibile la credibilità di Virgilio e la
struttura stessa della Commedia. Ma, naturalmente, anche perché questa
immagine di Enea appariva a lui come già al suo maestro e oggi a noi
infinitamente meno bella e poetica. |