quali io e quel sergente
maggiore di Genova, che ora è morto. Dopo la guerra ci siamo ritrovati: lui è
stato due mesi a casa mia, e pure io sono andato a casa sua. I Greci erano bravi,
l’accoglienza ce l’hanno fatta buona. Ci hanno portati in vari ospedali. Le
infermiere mettevano le lenzuola nell’acqua bollente, poi le torcevano e con
quelle lenzuola ci fasciavano, forse per farci sudare. Un mio amico di Gioia,
Rolando (n.d.r.: Orlando) Affinito, andò domandando negli ospedali, per vedere se mi ero salvato.
Un napoletano gli disse: «Non pensare a Gaetano, che è morto. Ho visto quando la
nave si è rovesciata e lui stava in cima alla scaletta, è andato giù». Però
Rolando continuò
a cercarmi e quando mi trovò rimanemmo mezz’ora a piangere».
Dopo che siete stati
salvati dai Greci i Tedeschi vi hanno presi di nuovo prigionieri?
«Molti ufficiali italiani fascisti erano andati volontari con i tedeschi e
questi erano molto cattivi con gli altri italiani. Uno di essi, un maggiore
fascista, venne in ospedale a vedere noi che ci eravamo salvati e invece di
salutarci disse: «Ragazzi, non siete morti? Venite tutti volontari con i
tedeschi, o stasera vi buttiamo di nuovo a mare?». Eravamo una sessantina, lo
prendemmo a fischi. Io mi buttai giù dalla branda per picchiarlo, mi trattennero.
Lui si infuriò e andò a dire al capitano medico tedesco di buttare gli italiani
a mare quella sera stessa. Il capitano disse: «Io ho ordine di tenerli per 20
giorni, poi li butto fuori dall’ospedale, e dove vogliono andare vanno!», e non
lo ascoltò».
E quel maggiore che cosa fece?
«Non lo vedemmo più, forse capì che se lo prendevamo gli facevamo la pelle e
sparì dalla circolazione. Dopo venti giorni i tedeschi ci hanno fatti salire su
un camion. Chi diceva che ci portavano al campo d’aviazione e chi diceva che ci
andavano a buttare a mare. Io mi misi seduto sulla sponda del camion: se
giravamo verso la banchina del mare, mi sarei buttato sotto la ruota: ero deciso.
Meglio morire così che annegato: non ci andavo più a mare. Invece ci dirigemmo
verso il campo d’aviazione».
Dove vi portarono?
«Trovammo un aereo pronto. Ci fecero salire sull’aereo e
con le corde a mano ci legarono perché forse credevano che potevamo ammazzare il
pilota. Ci ribellammo tutti: che volevamo morire, ammazzando il pilota? Così un
generale ci fece slegare. Ci portarono all’isola di Rodi, dove rimanemmo 5 mesi.
Da lì ad Atene e poi attraverso i Balcani, Albania, Bulgaria, Serbia, in treno,
nei carri bestiame. Ho trascorso 5 mesi in Croazia, tutto l’inverno: nudo,
scalzo, con la pala in mano, a scansare le neve la mattina.
La sera che arrivò
la notizia che avevano ammazzato Mussolini mi trovavo in Austria, a Vienna. Un
tedesco venne vicino a me e disse: "Mussolini kaput!". Vienna è una città
bellissima, ci sono rimasto un mese, prima di andare in Germania e, dopo, sul
fronte russo, come volontario. Chi non accettava di andare volontario era
trattato male dai tedeschi. Dopo che accettai ero trattato bene: mi mandarono
dove c’erano le tende migliori, mangiavo, bevevo, ben vestito, mi sentivo un
signore.
Quando mi diedero il mitra e la pistola mi fece una brutta impressione,
ma me li dovetti prendere per forza. Mi portarono sul fronte russo, in seconda
linea, ma non ho sparato nemmeno un colpo. Siamo ripiegati: i Russi avanzavano».
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“… presi una scatoletta dallo zaino e mentre lui la stava aprendo il siluro
arrivò e bucò la nave da una parte all’altra...” |
Ci parli della vita nei
campi di concentramento?
«La vita era dura: scalzi, nudi, in Germania sotto i
bombardamenti aerei degli Alleati. C’erano molti italiani, ma di più erano gli
ebrei. Gli ebrei i tedeschi li uccidevano tutti quanti. E poi, per prendergli un
anello gli mozzavano il dito, per un orologio, gli mozzavano il braccio!
La vita sotto i tedeschi
era dura, proprio dura. Io però mi arrangiavo, perché per mangiare rubavo.
Con un sacchetto, andavo a rubare le patate nella campagna. C’erano mucchi di patate,
zucche. Quando ci portavano a lavorare nei campi, sfuggivo ai controlli, le rubavo
e me le nascondevo addosso. Gli altri si
adattavano, cuocevano le ortiche e se le mangiavano. Io no. Rubavo le patate e
le cuocevo nel bacile per lavarsi la faccia. Quando stavano arrivando gli
Alleati e i controlli erano minori, la notte uscivo dal campo e andavo a rubare.
Rubavo ti tutto. Poi tornavo nel campo. Non ho
mai avuto paura».
Ci racconti qualche
avventura che ti è capitata?
«Ormai eravamo sbandati, non stavamo più nel campo di
concentramento. Per non cadere sotto i Russi cercai di raggiungere la zona
occupata dagli Americani, che erano vicini. Andai alla stazione e mi lanciai su
un trenino, che era guidato da una donna tedesca. Avevamo fatto appena due o tre
chilometri quando arrivò la caccia e cominciò a mitragliare il treno. Saltammo
tutti giù e scappammo nella campagna. Una signora tedesca, che portava tre
bambini, ne perse uno. I tedeschi gli passavano sopra ma non lo prendevano,
perché pensavano solo a trovare un riparo dai proiettili. Come lo vidi me lo
presi tra le braccia e mi rifugiai dietro un mucchio di covoni. Quando cessò il pericolo, raggiunsi la stazione
più avanti, col bambino fra le braccia, e là c’era la madre, che come riconobbe
il figlio mi corse incontro e mi abbracciò forte. Mi parlò in tedesco, quando
capì che ero italiano disse che i tedeschi non avrebbero salvato il bambino. Mi
portò a casa sua e lì fui ospitato per qualche tempo dalla sua famiglia. Finita
la guerra io, due napoletani e un perugino ci impadronimmo di un camion,
andammo rubando scarpe, sigarette, un po’ di tutto, e partimmo per l’Italia.
Però, arrivati al confine, a Bolzano, gli Americani ci bruciarono
tutto».
Come sei tornato a Gioia?
«In treno e poi, dalla stazione di Telese, a piedi. Trovai
il municipio a terra, case distrutte. Bussai a casa verso le undici e mezza di
sera. Non avevo mai scritto, durante la prigionia. Vedendomi arrivare, i miei
familiari seppero che ero ancora vivo».
Signor Michele, grazie,
anche a nome dei nostri lettori, per le entusiasmanti avventure che ci hai
raccontato. (La redazione di N&V Prot@ngonisti) |
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